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Vita di Vittorio Alfieri e analisi Tragedie Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

Analisi dettagliata della "Vita" di Vittorio Alfieri e analisi dettagliata "Tragedie" di Alfieri

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 25/11/2023

alessia-arbinolo
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4.8

(4)

17 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vita di Vittorio Alfieri e analisi Tragedie Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Vittorio Alfieri L’Accademia dell’Arcadia viene fondata il 5 ottobre 1690. Nacque a Roma, grazie all’iniziativa di 14 letterati, tra cui Crescimbeni e Gravina, che provenivano da altre accademie ma volevano contrastare la decadenza letteraria in Italia. Si riuniscono a Palazzo Corsini, residenza romana dell’ex regina Cristina di Svezia. Volevano restaurare il buongusto (ritornare alla semplicità e chiarezza del classicismo) che manierismo e barocco avevano tralasciato, seguivano uno stile turgido, ampolloso. Vi è anche un’esigenza culturale e politica, fino al ‘600 in Italia dal pov teatrale subentra il modello francese e le uniche tragedie riportare erano sue traduzioni. Vogliono rifondare il teatro italiano ma, il motivo per cui, in Italia, era difficile fare tragedie era per via della censura. Le opere erano infatti esposte ad alta voce o nei teatri privati, come farà Alfieri. In Arcadia c’è una distinzione di generi: la poesia che recupera il classicismo umanistico (Petrarca), lontano dal modello francese. Il modello politico francese è forte perchè centralizza la politica nello stato, differentemente dall’Italia che presenta una situazione frammentata. Assetto Geo-politico italiano: Borboni, 2 Sicilie, Normanni, Russia, Prussia. L’Arcadia cerca di affermare un’identità culturale unitaria, nonostante le divisioni. Propongono un’ideologia completamente opposta all’assetto geopolitico. Tessuto nuovo tra istanza nazionale culturale ma anche aggiornamento dell’espansione della cultura in Europa. Questione della lingua: trovare una lingua unitaria che rappresentasse il messaggio accademico. Il ruolo del letterato nel ‘700, quasi sinonimo di erudito, sapere enciclopedico, tende a pubblicare dei testi, delle note (diverso da come viene inteso oggi). In Inghilterra un letterato è colui che vive della sua scrittura (dipende dall’industrializzazione del paese). La figura di letterato in Italia vive nella corte per sostentamento, Metastasio ultimo poeta di corte, costretto ad esserlo perchè non è di origine nobile, Goldoni a Versailles è un precettore. METASTASIO: nasce a Roma alla fine del ‘600, inizia la sua carriera poetica come improvvisatore (declamava versi improvvisati). Allievo di Gravina che lo nota, comprende le sue potenzialità e gli cambia il nome. Studia in accademia la filosofia di Cartesio e diventa il maggior esponente della letteratura europea (le sue prime opere si basano sul contrasto tra passione e dovere; amore non alla maniera barocca quindi utilizzando l’espediente amoroso con leggerezza ma in chiave etica, controllo delle passioni fa diventare virtuosi). Scrive i suoi primi drammi classicisti prendendo temi greci e romani, riportando un’esemplarità eroica. Utilizza astutamente la storia antica per parlare ai contemporanei sulle guerre che stanno avvenendo, della società. Arriva a Vienna nel 1730 e diventa poeta della corte asburgica (Carlo IV e Giuseppe II). Metastasio è responsabile della riforma del melodramma, non solo porta la letteratura italiana in tutta Europa, ma anche per riconsegnato importanza alla parola rispetto alla musica, Metastasio in un certo senso è un proto regista. Rifiuta il concetto di catarsi (purificazione) per cui il fine della tragedia è suscitare sentimenti di terrore e paura per purificare le coscienze degli spettatori. Per lui infatti bisogna rappresentare le azioni eroiche o magnanime, quindi degli esempi imitabili. Distingue le due componenti dei libretti: i recitativi e le arie, i primi esprimono l’elemento narrativo e le arie nascono invece per enfatizzare il concetto o il sentimento del soggetto che le recita. Racchiudono gli elementi soggettivi dell’opera (dilemmi, angosce) hanno una precisa funzione drammatica. Il ‘700 è il secolo dei lumi ma anche delle ombre, è un secolo di inquietudine dei lumi. Gravina e Crescimbeni massimi esponenti dell’Arcadia. Il nome dell’Accademia riprende quello di un’antica regione della Grecia e recupera le forme pastorali non solo nella poesia, ma anche di ricerca di un luogo senza tempo. Venivano utilizzati anche dei travestimenti pastorali (si fanno chiamare pastori), viene messo in scena un modo di fare letteratura. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 1 Vittorio Alfieri Gravina insiste molto sull’importanza civile della letteratura. Fonderà poi la sua Accademia dei Quirini (1711), perchè non d’accordo sul modo di gestire l’Arcadia con le regole dettate dalla Chiesa. Si fa promotore di una letteratura che sia utile (morale, sociale, politica). Ricerca una filosofia della luce, ossia di una convergenza tra tutte le conoscenze. Crescimbeni, invece, è dedito al classicismo più moderato, più aperto. Recupero della tradizione in funzione antibarocca. Rapporto Italia-Europa, i nobili letterati conducono tanti viaggi all’estero ma anche i letterati stranieri vengono in Italia e accolti all’Accademia. L’Italia ha modo di confrontarsi con altre realtà (politiche, linguistiche, etc). Il letterato del ‘700, grazie alla stampa, alla diffusione dei giornali, delle riviste, ha modo di farsi conoscere e di allargare il suo pubblico. Il letterato riesce quindi a sostenersi autonomamente. Nella Repubblica di Venezia vivono i letterati, tutti si rivedono in un’identità cosmopolita, vengono tradotti testi che provengono dall’estero. Si crea un panorama ricco di stimoli. Si afferma l’opinione pubblica grazie all’aumento progressivo dei lettori. Figura fondamentale è Giambattista Vico, prende i dati del classicismo per riportarli in modo oggettivo, non allegorico. “La Scienza Nuova” Nel ‘700 si diffonde il sensismo inglese, importanza del senso morale, di una vera e propria morale del sentimento dove la passione va esteriorizzata e regolata. Si afferma anche nella tragedia, sentimento è motore dell’azione. La letteratura classicista è civile, utilitaristica e in concordanza con i valori sociali e culturali ma non trova subito un risultato in quanto cambia in base alla condizione frammentata. Importante è il “Caffè” milanese, con Beccaria, Pietro e Alessandro Verri. Rivista che fu il principale strumento di diffusione del pensiero illuminista, durò 2 anni. Condensa le discussioni dei lumi italiani ed è soprattutto una lotta contro l’astrazione filosofica. ———————————————————————————————————————— Vittorio Alfieri nacque ad Asti, territorio e monarchia dei Savoia, il 16 gennaio 1749. Ha origini nobili, la madre, si ritrova a sposarsi più volte, come prassi dell’epoca, il padre invece muore dopo pochi mesi dalla sua nascita (figura assente del padre). Conduce gli studi a Torino, nell’Accademia Reale, dal 1758, istituzione fondamentale della formazione nobiliare. Parlerà poi di una cattiva educazione, anzi ineducazione, tendendo a raffigurarsi come un ribelle che, annoiato e non contento della sua formazione, cercherà di fornirsi delle letture che la tempo erano proibite. Torino venne da lui definita come una città anfibia, dove si masticava un barbaro gergo, i torinesi conoscevano alla perfezione il francese. Il Teatro Carignano fu un punto fondamentale dove assistette a numerose rappresentazioni, soprattutto commedie francesi; il suo primo rapporto con il teatro fu da spettatore. Il rapporto con i romanzi (nato in Inghilterra nel 1700) non fu facile, la censura era molto forte all’epoca. Lascia l’accademia nel ’66 e compie il primo viaggio in compagnia di un olandese e un inglese (queste frequentazioni cosmopolite le trascina dall’Accademia). Acquista un baule di libri a Ginevra, dove la censura era meno rigida, e torna a Torino (libri letti sono di Montesquieu, Voltaire, Rousseau). Diventa amici di Plutarco, importante per la tradizione tragica. Il secondo viaggio che fa è nell’Europa dell’est, viaggio molto articolato che si conclude a Vienna con il libro di Montaigne. Arriva poi a Berlino e continua i suoi viaggi fino all’Inghilterra dove conosce il suo primo importante amore, Penelope Pizzo, donna sposata e molto libertina. Alfieri dovette poi affrontare un duello e un processo per ella ma riuscì a scappare. Questa vicenda lo segnò profondamente in quanto scoprì che questa donna si relazionava anche con un altro uomo, si sente quindi profondamente tradito. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 2 Vittorio Alfieri Nelle prime epoche della formazione si ha un percorso rovesciato, Alfieri parla dei non- studio, parla infatti degli studi accademici come pedanti e inutili, cerca di supplire la sua ignoranza e vergogna ricorrendo a delle strategie: viaggiare. Viaggiare per colmare il vuoto delle sue fasi scolastiche ed accademiche. Dall’incontro con persone e di nuovi luoghi, non si sofferma a descrizioni, ma sempre su sé stesso, l’incontro è importante per quello che lui sente. Nell’introduzione si ha uno sguardo all’editoria. INTRODUZIONE, dal paratesto (ciò che lui scrive dopo, dediche, note), fa una giustificazione dicendo che è diverso dai suoi contemporanei. Se anche lui avesse scritto delle scuse non sarebbero state credute. Una novità de la vita è che Alfieri non ammicca al lettore, non interviene, lo lascia libero di scegliere e decidere. Il riferimento alla verità è molto forte, le informazioni che lui definisce “vere”. “L’amore di me medesimo”, amare sé stessi anche a vantaggio degli altri. Una delle ragioni per cui lui ha scritto La Vita è l’amor di sé stesso, è concesso a tutti gli uomini ma la natura lo dona soprattuto agli scrittori e ai poeti, che più di tutti amano sé stessi. Il bello e il vero vanno congiunti, sono imprenscindibili l’un l’altro. Inizia a dire quali elementi lo hanno spinto a scrivere l’opera, oltre all’amore per sé stesso: 1. Amore per sé stesso; 2. Dato che ha scritto molto è cosa assai naturale che a quei pochi a cui non sono piaciuto abbiano delle curiosità a cui io posso rispondere; 3. Ci dice che anche gli autori minori si scrivono vite, quindi pensa che se i minori scrivono, lui può scrivere di sé; 4. Attacca i librai dicendo che la sua vita vuole scriverla lui stesso, un qualsiasi libraio mai lo potrà fare. É consapevole della sua bravura e delle sue capacità e la sua preoccupazione è che questa versione potrebbe essere contraffatta, meno verace, meno sincera di quella che lo stesso autore può scrivere. Tutto viene poi ricondotto al commercio. L’obiettivo più importante messo in luce nel testo è la conoscenza dell’animo umano, scienza umana coerente con la filosofia ‘700esca che arriverà ad abbracciare il genere letterario dell’autobiografia (uno che scrive di sé lo fa quando arriva a conosce abbastanza bene se stesso). Arriva poi a parlare del metodo utilizzato, al fine di annoiare al minimo il lettore, abbrevia gli anni della vita si impone di scrivere per 5 epoche e altrettante divisioni (Puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità, vecchiaia). Ma aggiunge poi che, avendo scritto le prime 3 parti, e stando scrivendo la quarta, decide di non proseguire (BREVITAS, sottrazione verso la priorità di cose più importanti): - Avrebbe voluto suddividere l’opera in 5 epoche e farlo in modo che il lettore avrete potuto leggere un’epoca e saltarne un’altra, a intervalli; - Scrive il paratesto durante la 4° epoca e durante la stesura si rende conto di essere troppo prolisso perciò non la scrive, con la paura che il lettore lo possa punire non finendolo. - Non troverete gli accenni ad ogni minimo dettaglio ma intendo estendermi su ogni piccola particolarità che contribuiscono allo studio dell’uomo in genere. Non mi dilungherò sugli altri ma solo su sé stesso, non nominerò quasi mai gli altri (cosa non vera); - Stile: naturalezza nello scrivere, spontaneità. Opera che vuole come risultato solo la verità del cuore = vero è bello. EPOCA I: PUERIZIA (abbraccia nove anni di vegetazione) Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 5 Vittorio Alfieri Viene raccontata la nascita e i parenti con degli inserimenti delle epoche successive; nasce ad Asti il 17 gennaio 1749, da famiglia nobile, Antonio Alfieri e Monica Maillard di Tournon, di origine savoiarda. Il padre lo descrive come un uomo di purissimi costumi non contaminato da alcuna ambizione; ha una sorella più grande, Giulia. Dopo la morte del padre Alfieri ne parla fin da subito, la madre si risposa. La morte è quasi una costante nella sua vita. “E per le fatali circostanze non posso star presso lei” —> fatali circostanze: il volersi “spiemontizzarsi”, abbandonare e rinunciare a gran parte della sua eredità per non essere legato a questi aspetti nobiliari. Parla al presente in questa parte. Ritratto della madre a volte appare ironico; ritratto molto rigido, perde tutti i figli maschi tranne lui. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO SECONDO, reminiscenze dell’infanzia: [1752] Stupida vegetazione infantile, reminiscenze di infanzia: non ci racconta tutta l’infanzia ma seleziona episodi significativi che si inseriscono nel suo percorso di vita. Reminiscenza dello zio paterno che gli dava i confetti con i suoi scarponi squadrati. “Sensazioni primitive”, gli autobiografi del ‘700 non si preoccupavano di dare spazio alle sensazioni, né ai ricordi, Alfieri spiega che la memoria non passa per il filtro della ragione ma dalle sensazioni —> portato del Sensismo, le sensazioni diventano un mezzo conoscitivo, anche l’esperienza dona conoscenza. [1754] Parla della dissenteria. La morte si affaccia presto sulla sua vita e ne parla spesso anche se della morte non sa niente, il fratello morto era diventato un angelo e anche lui voleva esserlo. Inizia così il tema della simulazione, della brama e la costante gara che lui conduce nella sua vita. Sua sorella Giulia e lui erano andati a vivere con la madre ma nella casa del patrigno. Quello che Alfieri prova per la sorella è una sorta di innamoramento, lui viene mandato nel Collegio dei Gesuiti e la sorella in monastero. Questa divisione provoca in lui tristezza e dolori, pur visitandola ogni giorno. [1755] Questi elementi primitivi vengono rivissuti nella sua giovinezza, quando deve dividersi da una donna amata. Queste sensazioni riuscirà a gestirle nel corso della vita, dato che tutti gli amori dell’uomo hanno lo stesso motore. “Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell’uomo, ancorché diversi, hanno lo stesso motore”. Dalla classe prima alla quarta fu don Ivaldi a prendersi cura della sua istruzione ma abbastanza ignorante, se Alfieri non se ne fosse accorto e fosse rimasto con lui non avrebbe imparato nulla. Anche i suoi parenti erano ignoranti, viene evidenziato come, nel ‘700, essere nobili non richiedeva essere formati culturalmente. L’inclinazione allo studio di Alfieri è naturale, lui la assenna vivendola con le sensazioni di malinconia e raccoglimento, costanti anche nell’età adulta. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO TERZO, primi sintomi di un carattere appassionato: Parla della sorella, andata via 9 anni fa, le sue visite si facevano sempre più rarefatte, per l’impegno dello studio. La consolazione a questo abbandono lo trova nella chiesa del Carmine, partecipando alla messa tenuta dai frati. Con il tempo sopperisce il dolore di Giulia con la partecipazione alla messa in quanto, nel volto dei frati giovani, vedeva tratti in comune con lei. Questo che lui provava era amore, definito come innocente. Aveva persino cercato un vocabolario di latino e cercando la parola “frati” l’aveva sostituita con la parola “padri” per nobilitare il tutto. La parola frate è sempre articolata con disprezzo mentre la parola padre con amore. Parla di questi episodi come di inezie, di poca importanza, in realtà sono fondamentali per comprendere la sua natura. [1756] Il secondo episodio raccontato è una conseguenza della sua malinconia e della sua attrazione, esce nel giardino, strappa l’erba e inizia a mangiarla, sepourh acida e amarissima. Dice di aver sentito qualcuno parlare di un’erba che fa morire, la cicuta, ma anche se lui non voleva morire era spinto da un istinto naturale che lo portava a mangiare Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 6 Vittorio Alfieri quell’erba per il suo suicidio (suicidio tragico, Socrate morì per la cicuta). I dolori provocati allo stomaco lo fecero smettere, sputando l’erba ingurgitata. Quando si recò a tavola, la madre notò le sue labbra verdi e gli occhi rossi e gonfi e gli chiese il motivo. Punzecchiato dai dolori gli disse la verità, prende un rimedio e viene chiuso in camera per castigo. Due temi principali: EROS e THANATOS, eros nell’amore per i frati e la sorella e Thanatos per la volontà di morire in modo quasi parodico e infantile. Alfieri racconta questi avvenimenti con autenticità, non tralasciando le parti fragili e deboli, siamo portati a provare una sorta di empatia in quanto tutti siamo stati bambini, anche Alfieri. ———————————————————————————————————————— [ Tutto quello che Alfieri racconta è programmatico, gli eventi sono decisi per costruire l’immagine di sé stesso. Nella prima epoca si collocano elementi presenti anche nelle epoche successive. Tutti questi avvenimenti predispongono alla comprensione gli avvenimenti dell’uomo adulto. Tutta la sua vita viene presentata in luce, ossia che tutto ciò che si trova nelle epoche finali sono i semi germogliati di quelli seminati nelle prime epoche. Nell’infanzia ci sono già le origini di tutto quello che avverrà dopo. L’uso dei vezzeggiativi, diminutivi rientrano in un trascinamento di quelli che sono i semi di alcune qualità del carattere dell’Alfieri adulto che si rintracciano nell’infanzia. La differenza tra le epoche è una differenza di dimensione, non qualitativa, si tratta di vedere l’uomo in piccolo. Metafora della pianta d’uomo, bambino è seme, germoglio, radice che diventerà poi pianta. Metafora importante per capire lo sviluppo della vita dell’uomo. ] ———————————————————————————————————————— CAPITOLO QUARTO, sviluppo dell’indole indicato da vari fattarelli: Come si sviluppa l’indole? Lo scopo di Alfieri è di illuminare la conoscenza della scienza dell’uomo, partendo dall’analisi dei semi. Nel IV capitolo c’è il primo autoritratto della vita, della sua indole, mosso dalle passioni primitive (sensazioni che vengono imprese nell’animo umano dalla natura le quali possono essere coltivato nello sviluppo dell’uomo). Come si definisce Alfieri? “Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo” Fa una prima descrizione su di sé con estremi contrari, abituali nei bambini, atteggiamenti abitudini e oscillazione tra sensazioni di natura diversa. Questa attitudine di Alfieri bambino la si ritroverà anche nell’Alfieri adulto. Primo episodio: reticella, introduce una delle cose che gli reca fastidio: Alfieri si comporta male e gli viene imposto l’obbligo di mettere la reticella, un copricapo che copre tutta la testa (all’interno della vita, i capelli per l’autore sono molto importanti, parte della propria identità e forza, hanno una funziona simbolica importante). Doveva andare alla chiesa del Carmine, con la reticella, e per lui fu un evento traumatico. Alfieri appare preoccupato, da un lato c’è la vergogna di farsi guardare dagli altri e dall’altro l’indizio della reticella di apparire come un malfattore per essere stato punito così duramente. A questo punto Alfieri inserisce un commento di lui da adulto. Questo castigo inflitto dai parenti e dal maestro genera in lui paura, ogni volta che si nomina l’indumento egli rientra nel dovere, nella norma di comportamento. Modalità di Alfieri nel menzionare questi episodi è molto teatrale. Alfieri venne punito successivamente per aver mentito alla madre, questa volta non viene condotta alla Chiesa del Carmine, poco frequentata, ma alla chiesa di San Martino, distante da casa e molto frequentata. La notte prima dell’episodio la passò insonne e il giorno della messa pianse con la reticella addosso, quando arriva in una strada con gente, prevale in lui l’orgoglio di non farsi vedere piangente. La dialettica dell’essere visto, il volersi nascondere è fondamentale e ricorrente nell’opera; è il moto che lo muove alle pubblicazioni, di farsi vedere in un modo diverso. Non vuole essere visto a tal punto da chiudere gli occhi, evitando di vedere il mondo intorno a sé. Questo evento è amplificato dall’interiorità di Alfieri, dal suo tormento e dal sentimento dell’animo. Tornato a Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 7 Vittorio Alfieri sensazioni si mettono in moto nella gara, dopo aver appagato il sentimento di sfida si annoia nuovamente “alla noia e insipidita di così fatti studj”, quelli che stanno li ad insegnare non avevano conoscenza di ciò che insegnavano e le loro idee erano piccole. L’emulazione nasce soprattutto per una gara con un ragazzo durante il corso di latino, anche qui è presente l’invidia. Battaglie puerili, battaglie ingigantite dalla mente di un bambino (come le imprese achillesche), prova molta collera ma erano comunque amici. Dice che non può provare odio verso questo ragazzo perchè è bellissimo, ama la bellezza. Viene nominato un autore della letteratura: Ariosto, letto di contrabbando, le costrizioni gli sollecitano curiosità; lo prende da un suo compagno barattandolo con il pollo domenicale. Dice che il pollo domenicale non lo ha assaggiato per 6 mesi continui perchè lo utilizzava per baratto sia per dei libri che per delle storielle. Si rende conto che leggendo i versi dell’Ariosto non riesce a capire nulla, legge senza metodo. Gli venne poi confiscato dall’assistente. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO TERZO, a quali de’ miei parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza: Mondo dei parenti di Alfieri, ci parla di Conte Benedetto Alfieri, architetto del Teatro Regio di Torino. Alfieri fa una battuta su questo zio che gli parlava di Michelangelo, “Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar di quel mio zio, che sappia pure far qualche cosa”, battuta di una morale di famiglia, riferimento ai nobili del tempo che, essendo nobili, non avevano bisogno di essere culturalmente formati, suo zio invece era un po’ stravagante rispetto agli altri suoi conoscenti: lavorava e pensava. Il mestiere del letterato nel '700 non esisteva ancora, inteso come colui che riesce a vivere della propria scrittura. Lui rinuncia all’eredità e alla cittadinanza piemontese; non lavora come lo zio ma rinuncia agli agi nobiliari per potersi dedicare a ciò che gli piace. Città anfibia, definizione della città di Torino come città bilingue (come Basilea, Strasburgo, Stoccarda, etc). Si parlava francese e piemontese. Suo zio ad esempio parlava fiorentino. Riflette sulla lingua, ad un certo punto i piemontesi, per moda, erano costretti a parlare in toscano. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO QUARTO, continuazione di quei non-studj: [1760] Alfieri veniva deriso dai compagni, sia per la sua salute molto cagionevole sia per le conseguenze delle sue malattie. La salute cagionevole di Alfieri viene associata alla vita in Accademia. In questo capitolo affronta un episodio di “bullismo”. Recupera l’Ariosto da colui che l’aveva confiscato. Dopo questo però non riuscì più a leggerli, sia per la sua salute che per i suoi non-studi, quando lo riapre sembra che sia tornato indietro con l’istruzione (pur studiando retorica, arte del dire e parlare), lo capisce ancora meno; anche per le storie spezzate dell’Ariosto, cosa che non gli piaceva. Provava la stessa emozione quando andava a teatro e vedeva i melodrammi perchè non sportava le arie di Metastasio, perchè andavano ad interrompere lo sviluppo degli affetti, la vicenda e lo sviluppo dei personaggi e del loro animo. Quando a vedere le commedie di Goldoni, lo divertono molto, il germe (seme) delle tragedie non trovava incoraggiamento. Il panorama teatrale era privo di tragedie, cosa che a lui interessava. Racconta un episodio, compagno per il quale Alfieri era costretto a scrivergli i temi, in cambio gli regalava due palle da giocare. Lui era più grande di Alfieri, era visto come fragile; decide poi di ribellarsi contro questo ragazzo e iniziò a scrivergli i temi meno belli. Lui non poteva vendicarsi altrimenti Alfieri avrebbe detto la verità ai maestri. Rimane in lui questa impressione vivissima della paura e della minaccia, simbologia della stessa tirannide. Alfieri rifletterà su questo argomento anche da adulto. “L’avvicendevole paura era quella che governava il mondo”. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 10 Vittorio Alfieri [1761] Passa a raccontare gli studi di filosofia e geometria, filosofia pedantesca, insipida, papaverica (che induce il sonno) e peripatetica (Aristotelica), racconta le sue lezioni di filosofia, dove lui e i suoi compagni annoiati dalla lezione dormivano. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO QUINTO, varie insulse vicende, su lo stesso andamento del precedente: Nel 1762 lo zio lo vede malato e interviene in modo tale che il nipote possa raggiungerlo nella sua casa, decide di fargli da tutore. Lo zio, nel 1762, il Governatore di Cuneo, si prende cura anche di Giulia, aveva infatti deciso di toglierla dal monastero di Asti per trasferirla al monastero di Santa Croce a Torino. La vicinanza di Alfieri a Giulia (15 anni) lo fa sentire meglio, anche la presenza del fratello distoglie Giulia dalle sue afflizioni d’amore, adolescente e innamorata di un ragazzo astigiano. Grazie anche alla sua buona educazione e alla lontananza si dimentica dell’amoruccio in pochi mesi. Racconta della sua prima esperienza nel Teatro Carignano nel 1762, dove assiste all’opera scritta dal librettista Carlo Goldoni, “Mercato di Malmantile” un’opera buffa; viene evidenziata la grande passione di Alfieri per la musica. Lo zio ottiene un permesso per uscire dall’Accademia per accompagnare il nipote. Espone molto bene quello che la musica gli fa sentire, tra cui una malinconia piacevole lo trasporta in un mondo fantastico, la musica è una musa di ispirazione anche per i versi. Ci racconta che, dopo che era stato bravo durante l’anno universitario, gli era data la possibilità di andare a trovare lo zio a Cuneo, ad Agosto. Questo è il secondo viaggio che conduce, gli fa bene alla salute perchè respira aria fresca, a differenza del primo viaggio però la carrozza va troppo lenta, Alfieri infatti si vergogna di farsi vedere in questa carrozza troppo lenta “e chiudeva anche gli occhi per non vedere, né essere visto”. Questo racconto ci fa capire quanto, nella sua testa, abbia l’immagine ingigantita di sé. Mai nessuno fino ad allora, fuorché Rousseau, aveva mai parlato così di sé, in modo esplicito. Qui compone il suo primo sonetto, scritto per l’amata dello zio, che piaceva anche ad Alfieri. Questo sonetto gli viene stroncato proprio dallo zio, non era interessato alla poesia e non fomentava la musa nascente in Alfieri. Grazie a questa censura, dopo 25 anni e più si rimise a scrivere versi. Episodio finale, lo zio vuole fargli un regaluccio, sempre per complimentarsi dagli studi, è Andrea, il cameriere dello zio, ad annunciargli il regalo, a patto di buona condotta e buoni voti. Grazie a questo premio, ancora sconosciuto, venne risvegliata la sua voglia di studiare e rinforzando la pappagallesca dottrina (critica). Il dono non gli pervenne, volevano infatti che fosse Alfieri a chiedere allo zio il regalo, viene equiparato questo episodio a quello del dono della nonna nell’epoca della puerizia. Episodi analoghi che si rincorrono nella vita. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO SESTO, debolezza della mia complessione; infermità continue; ed incapacità d’ogni esercizio, e massimamente del ballo, e perchè: Lo zio viene nominato Viceré di Sardegna, gestisce le finanze di Alfieri e ciò gli consente di potersi sentire più adulto. Si ripresenta la sua malattia, come una sorta di psoriasi, viene rasato e imparruccato. Questa parrucca divenne pretesto di scherno da parte di tutti i suoi compagni. Inizia a autoironizzare, prende in giro la sua parrucca, dopo alcuni giorni infatti non si curano più di lui. Dare spontaneamente ciò che non può impedire che ti venga tolto, gesto molto onorevole, di bella figura. Si concentra di nuovo sugli studi che conduce nell’anno tra cui francese, geografia, scherma, ballo. Il maestro che gli insegnava francese, gli prestava dei libri , capisce libri francesi ma non quelli italiani. Esperienza scarsissima nel cimbalo, nonostante amasse molto la musica. Sviluppa un odio verso la cultura del popolo francese, misogallismo, odio contro i galli, condannerà Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 11 Vittorio Alfieri con un’opera in versi “Misogallo” la Rivoluzione; odio verbale francese. Prima sensazione della lingua, la sola parola Minué, (danza di grande uso nel ‘700 soprattutto in Francia) Idea primitiva di antigallismo: visione delle dame che accompagnavano la duchessa di Parma, sconvolto dal trucco delle dame (nell’epoca era disprezzato un colorito nel viso ma prediletto il pallore: l’abbronzatura era associato al lavoro agricolo), nota il fard che per lui è grottesco e prettamente francese. L’altro disprezzo era per i francesi che erano stati padroni della città di Asti più volte. Nel volto del maestro di ballo vede riunite queste ragioni per fare odiare ancora di più il popolo francese. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO SETTIMO, morte dello zio paterno. Liberazione mia prima. Ingresso nel Primo Appartamento dell’Accademia: Tutto ruota attorno a questa liberazione, inizia però con un evento tortuoso, la morte dello zio a Cagliari (aveva 60 anni ma salute molto cagionevole). Equivalenza con questo racconto e quello della morte del fratello; accade la stessa cosa che già era accaduta. Dopo la morte del fratello Alfieri era sì dispiaciuto ma fu un momento che gli permise un’apertura ai viaggi e a una nuova vita. Anche per lo zio, che fu una morte a cui lui era già preparato, Alfieri sottolinea come la sua liberazione sia passata anche dalla morte dello zio. Mentre aveva visto il suo patrimonio accrescere sempre di più. Molta della sua libertà andava associata alla sia ricchezza, gli consentiva di muoversi in modo più autonomo. Le leggi vigenti in Piemonte, prevedevano la liberazione del pupillo dal tutore (a 14 anni), più libertà e autonomia; “Innalzò molto le corna” fa sollecitare un’ambizione e curiosità. Oltre all’eredità, Alfieri insiste sul licenziamento del servitore Andrea per ordine del suo tutore, si era dato alle donne, al vino e alle risse. Alfieri lo descrive molto brevemente, compreso il rapporto tra i due, non era idilliaco, personaggio poco raccomandabile che lo picchiava, lo maltrattava e lo lasciava solo, “Eppure chi ‘l crederebbe?” riferito a lui che soffrì più di questo fatto che della morte dello zio. É molto dispiaciuto del licenziamento, addirittura visita Andrea e gli da dei soldi (atteggiamento ambivalente e contraddittorio). Con la lettura di Plutarco inizia a infiammarsi per l’amore della gloria e della virtù, iniziò anche a praticare l’arte del rendere il bene per rispondere al male. (Plutarco fu uno degli autori prediletti da Jacopo Ortis). Equivalenza, caso del servitore Andrea serve ad Alfieri per stabilire un parallelo: come Andrea soggiogava Alfieri, mettendolo in una situazione di inferiorità; così i principi si facevano governare dai cattivi consiglieri e precettori che li formano fin dall’infanzia; anche nelle tragedie vi è la differenza tra il consigliere buono e cattivo. Alfieri riesce ad andare alla cavallerizza, scuola dove si impara a cavalcare —> altra liberazione. Fa il suo ingresso nel Primo Appartamento l’8 maggio 1763, educazione molto larga. Nel frattempo gli sono ricresciuti i capelli e spese molti soldi in vestiti, dopo essere stato costretto, per molti anni, a vestirsi con gli abiti richiesti dall’Accademia. Si crea un circoletto di amici, prova vergogna della sua ignoranza, molti dei libri che lesse erano francesi, fece alcuni estratti (riassunti) dai 36 volumi di “Storia Ecclesiastica” di Fleury, libri che gli fecero scadere i preti e le loro cose. Lettura maniacale de “Les Mille et une Nuit”, in francese. Descrizione delle corse a cavallo con i suoi amici; facevano finta di andare a caccia dove il servitore era la preda. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO OTTAVO, ozio totale. Contrarietà incontrate, e fortemente sopportate: Inizia con il desiderio di Alfieri di uscire, da solo e senza l’accompagnatore ajo (persona di fiducia incaricata dalla famiglia di curarsi di loro). La prima volta fu preso dal governatore; la seconda chiuso in casa e poi uscì da solo; è risolutissimo a continuare questa sua vita autonoma. Dichiarò in un suo arresto che, per farlo rimanere in casa dovevano Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 12 Vittorio Alfieri Secondo raggiro necessario per proseguire da solo il suo viaggio, a Napoli conosce il Ministro di Sardegna, cerca di ottenere il permesso per viaggiare da solo; il Ministro gli consigliò anche di iniziare a studiare politica per diventare un diplomatico. Secondo lui questa scelta lo avrebbe reso meno servo, rispetto alla carriera militare. Esplicita il disorientamento di un giovane diciottenne, lui, malinconico e solo anni dopo concepì che la sua infelicità proveniva dalla volontà di avere il cuore occupato da un degno amore e la mente occupata da un nobile lavoro; se una delle due manca, era incapace di esercitare l’altra. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO TERZO, proseguimento dei viaggi. Prima mia avarizia: Prima di andare a Venezia fa una tappa a Roma dove viene accolto dal Ministro di Sardegna, essendo lui cittadino piemontese ha bisogno di entrature, cercare dei rappresentanti del proprio stato. Alfieri ribadisce più volte in questi capitoli che lui è sempre stato un ottimo ascoltatore di sciocchezze. Quando va dal Ministro trova l’Eneide di Virgilio in folio (formato delle prime ristampe) aperto al sesto canto. Il Ministro iniziò ad intonare i versi e Alfieri, nonostante li avesse studiati non li capiva, evitò il confronto (vergogna per non aver inteso questi versi anche se il Ministro non gli aveva nemmeno chiesto il confronto, è tutto nell’animo di Alfieri). A Roma incontra il papa Clemente XIII e altri improntanti personaggi a cui lui deve fare il bacio del piede (simbolo di sudditanza). Avviene il terzo raggiro, dove conosce un nuovo sentimento: avarizia. Serve per ottenere, dalla corte di Torino, un permesso per viaggiare almeno un altro anno verso la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda. Il suo curatore gli comunica di aver ottenuto il permesso e gli accreditò 1500 zecchini, nel primo viaggio gli diede 1200 (ad Alfieri non bastano, ha paura di fare brutte figure), non fece nessuna querela al curatore (per paura che gli ritiri il permesso) e decide di vivere in economia in Italia per poi unirli agli altri = avarizia. Non spese per le curiosità di Roma e non diede il salario a Elia. Arriva verso Maggio a Venezia, si imbarcò con delle ballerine bellissime (il lavoro della ballerina veniva associato a quello della prostituta). L’inusitata località gli riempì il cuore di diletto, subentra comunque la noia (“solissimo senza uscir di casa”), quasi un comportamento depressivo. A distanza di anni si rende conto che questo tipo di affetti che lo assediano a seconda del peso dell’aria, avveniva soprattutto in primavera; aveva più inventiva durante l’inverno; materialità = la natura ha effetti sull’uomo, estende l’analisi a tutti gli uomini di animo sottile e sensibile. Questa consapevolezza ha una ricaduta positiva sulla vergogna, questi momenti di improduttività non dipendono da sé. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO QUARTO, fine del viaggio d’Italia; e mio primo arrivo a Parigi: Alfieri a Venezia non ha visitato nemmeno l’Arsenale, preso dall’ozio e dalla volontà di visitare l’Europa. Da Venezia si ferma a Padova e si dispiacque di non aver conosciuto i professori tra cui Melchiorre Cesarotti, interlocutore delle tragedie di Alfieri. Si reca a Genova per imbarcarsi; non cerca le compagnie ma vuole stare il più possibile da solo, è reticente alla socialità, spiega questo atteggiamento: fierezza (orgoglio, tace anche quando è invitato a parlare), tendenza invincibile a non voler veder visi nuovi (si porta appresso questo atteggiamento tutta la vita; quando torna con la Duchessa a Firenze non tollera visite). A Genova incontro il Cavaliere Carlo Negroni, passò gran parte della sua vita a Parigi, gli racconta la sua esperienza ma Alfieri non gli presta attenzione. Viene raccontato il tragitto in modo romanzesco “parea a me d’andare all’Indie”, gran voglia e frenesia di arrivare a Parigi. Arriva a Marsiglia e evidenzia il suo carattere taciturno, anche quando era a tavola non voleva parlare con nessuno. Inizia a raccontare di una Francia chiacchierona, e fa di contorcano alla monarchia assoluta di Francia, l’Inghilterra che lui contrappone. Va in Francia soprattutto per l’interesse del teatro, ricorda con un piccolo flashback le esperienze nei teatri torinesi in cui si presentavano gli attori francesi Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 15 Vittorio Alfieri dove venivano presentate le principali tragedie. Ci dice che all’epoca preferiva la commedia alla tragedia. Spiega, in un passaggio, la ragione della sua indifferenza verso la tragedia: atti e scene inutili (tanti personaggi); versi cantilenati e rime scontate —>lui cerca di evitare queste caratteristiche nelle sue tragedie. Per lui non devono esserci distrazioni. Aggiunge un divertimento che trova a Marsiglia: il bagno al mare. La solitudine che lo accompagna nel mare infinito dove il confine mare-cielo è labile. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO QUINTO, primo soggiorno in Parigi: Arriva a Parigi. Il cielo è nuvolosa e pieno di nebbie in agosto. L’impatto è molto negativo “dolorosa impressione”; “fetente cloaca”. Non da possibilità di un ribaltamento di questa impressione negativa, vorrebbe subito ripartire; nessuna particolarità di Parigi riusciva a convincerlo. Descrive il clima parigino, i palazzi, la città = sempre influenzato dall’atmosfera. Viene condotto nei circoli e gioca ad azzardo per la prima volta. [1768] Prima di partire per Londra va a Versailles, viene condotto a corte (anche se sono tutte uguali per lui, questa è molto più grande). Sapeva che il Re non era solito a parlare ai forestieri comuni, rimane comunque infastidito dal contegno, la freddezza del Re Luigi XV il quale era impassibile a tutti questi uomini che gli si presentavano; neanche un gigante avrebbe la stessa reazione se una formica si presentasse a lui. Utilizza l’espressione “contegno giovesco” alludendo al maggiore fra gli dei dell’Olimpo, Giove. Fatta una preghiera ai suoi prelati il Re si avviò alla cappella. Tutti questi episodi citati portano al commento di Alfieri di ciò che accade dopo il 1789. Riflessione sul trattamento per il re e i cortigiani dopo la Rivoluzione Francese, ironizza sia sulla fine di essi e critica chi ha preso il potere, i Re plebei, che instaureranno una tirannide dopo la Rivoluzione. Non sa chi sia peggio dei due. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO SESTO, viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo intoppo amoroso: Nel 1768-1769, anni in cui Alfieri è ancora giovane ma si avvia verso l’età adulta. Parte da Parigi a Gennaio, accompagnato da un cavaliere poco più grande di lui, cugino dell’Ambasciatore di Parigi. L’apprezzamento dell’Inghilterra viene presentata accanto al disprezzo nei confronti della Francia “quanto mi era spiaciuto Parigi tanto mi piacque subito e l’Inghilterra, massimamente”. Inizia a descrivere ciò che vede e fa una prima osservazione positiva di Londra e di tutta l’Inghilterra: si respira il benessere universale che si può respirare tutti i giorni sull’isola, sia per la cultura che per il commercio. L’economia infatti è sempre collegata alla forma di governo (monarchia costituzionale). L’Inghilterra è un fortunato e libero paese; governo in cui il modello da lui prediletto, quello repubblicano, si va a realizzare nella monarchia costituzionale, unico erede della repubblica antica. Tra tutte le altre forme di governo (diramazione della pubblica felicità) è quello inglese ad essere il migliore, l’organizzazione è ottima e negli altri governi c’è il dispotismo illuminato. Ci immette subito nel vortice del gran mondo, era più facile per gli stranieri essere introdotti nelle case di nobili, nei salotti, anche lui viene introdotto in questi ambienti grazie al Principe di Masserano, decide di fare il cocchiere. Gira l’Inghilterra e conclude dicendo che gli piace l’Inghilterra ma non gli inglesi. Il clima e la malinconia sono facilmente dimenticabili grazie alle bellezze dell’Inghilterra soprattutto l’equitativo governo, con una costituzione e governato da leggi; senza si ha il dispotismo. Ammira la libertà e l’individualità, grazie alla tutela del corpo sociale c’è sempre un rispetto sulla libertà individuale, l’attenzione si sposta sulle persone e sulla creatività (bisogna sempre considerarlo all’interno di uno specifico contesto). Si era appena conclusa la guerra dei 7 anni, contro il fronte francese. Il modello inglese viene messo in crisi da quello americano, migliore del primo, in quanto ancora più vicino alla repubblica antica. (Anglomania, moda per ammirazione dell’Inghilterra). Anche Alfieri tende verso la novità, scrisse l’ode “L’America libera” per poi tornare all’ammirazione dell’Inghilterra. “Misogallo”, dopo il 1789 critica la Repubblica che è nata in Francia, nata nel terrore e nel sangue. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 16 Vittorio Alfieri Continua il viaggio all’Aia, Olanda; conosce la signorina che “mi toccò vivissimamente nel cuore”. Dice che il suo cuore è così aperto da esserci spazio anche per l’amicizia. Amicizia che stringe con Don Iosé d’Acunha, Ministro di Portogallo in Olanda. Fondamentale sia per l’importanza politica che per la sua istruzione. Spinse Alfieri a studiare la letteratura italiana in modo più profondo, gli regalerà un libro di Niccolò Machiavelli, autore diverso perchè con la lettura del “Principe” si sviluppa una lettura obliqua: chi legge dalla parte del principe e chi contro. La sua amata dell’Aia era dovuta poi partire, lascia una lettera all’ambasciatore, recapitata ad Alfieri ed egli sente un senso di malessere in quanto lei dovette andare per ricongiungersi al marito. Soffre talmente tanto da voler morire, chiama il chirurgo per fargli prelevare il sangue, si toglie poi la fasciatura per far fuoriuscire il sangue, vuole morire. Elia lo salva. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO SETTIMO, ripartiamo per un mezz’anno, mi do agli studj filosofici: Decide di tornare in Italia, dalla sorella a Torino, ma prima si ferma a Ginevra. Luogo di stampa ed edizioni clandestine, opere censurate. Tra questi Montesquieu, Rousseau, Helvetius e altri. Tornato a Torino lui leggeva e basta, soprattutto Montesquieu. Il suo autore preferito, tra cui anche quello di Jacopo Ortis fu Plutarco. Leggere le vite parallele degli antichi gli permette di sentirsi libero in un secolo dove tutto è censurato. Sempre in villeggiatura, il cognato, marito di Giulia, gli organizza le nozze che poi non avverranno. Alfieri avrebbe potuto arricchirsi ma questa donna sceglie poi un altro pretendente, sia per il suo bene che per il bene di Alfieri; se fosse rimasto accanto a questa donna non si sarebbe avvicinato alla poesia. Rinuncia alla carriera diplomatica. Inizia poi la seconda fase dei viaggi in Europa. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO OTTAVO, secondo viaggio, peer la Germania, la Danimarca e la Svezia: Nel 1769 parte per Vienna. Subentra una nuova malinconia riflessiva e dolcissima. Cita subito dopo un autore: Montaigne, scrisse questi “Saggi” che sono delle meditazioni profonde sulla vita, lusingavano la sua ignoranza e pigrizia, non era necessario leggerli dall’inizio per comprenderli, poteva leggere anche soltanto due pagine e apprezzarlo ugualmente. Permane la difficoltà a leggere citazioni latine, si rimanda alla primitiva ignoranza. Vienna gli ricorda molto Torino per l’architettura. Si sposta a Budapest. A Vienna Alfieri viene invitato a casa di Metastasio dove ogni sera si organizzavano salotti letterari, si sente ignorante rispetto agli altri. Ricordo della genuflessioncella (atto fisino di prestarsi ai piedi) e commento della Musa appigionata (Musa di Metastasio, non compone liberamente) rifiuta di incontrare quest’uomo per questo motivo. Capitolo VIII ripercorre i luoghi e le simbologie del potere e legittimazione, cosa non accettabile per Alfieri. Continua il viaggio a Praga, Dresda, Berlino e incontra Federico II di Prussia, non è per nulla contento, anzi prova indignazione. Arriva in Danimarca dove trova un governo più equilibrato, certa somiglianza con l’Olanda. Qui incontra il Ministro di Napoli, era pisano e lui ascolta con piacere il dialetto toscano. Rimane molto in casa leggendo De Montaigne e Plutarco e le volte che usciva andava in slitta. Si sposta poi a Stoccolma dove incontra un paesaggio che, “mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi”. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO NONO, proseguimento di viaggi. Russia, Prussia di bel nuovo, Spa, Olanda e Inghilterra: Lascia Stoccolma in direzione della Finlandia e di Pietroburgo. La Svezia gli piacque molto, con il suo paesaggio ruvido e il vasto silenzio che la fa sembrare fuori dal globo. Si raccorda al primo capitolo perchè, quando arriva a Pietroburgo alla fine del 1770, definisce barbari mascherati da europei, i russi. Viene nominato un nuovo personaggio Caterina II di Prussia, il suo titolo di sovrana illuminata si consolida con la morte del marito Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 17 Vittorio Alfieri trattenere Alfieri non capendo il perché del gesto. Elia saltò su Alfieri ma lui gli scivolò di sotto sfoderando la spada. L’orologiaio trattiene entrambi con gli occhi della locanda puntati addosso. Una zuffa tragicomica. Elia disse di non essersi accorto dei capelli e Alfieri, ora, si sente vergognosissimo e dice che meriterebbe pure di essere ammazzato. [1772] La cosa più importante di Lisbona è l’amicizia che stringe con l’abate Tommaso di Caluso, lo spinge a diventare un poeta. Ha un aspetto teatrale e magnifico quasi quanto Genova, nel 1755 Lisbona viene colpita da un forte terremoto; anche da lotte politiche. Tommaso Valperga di Caluso, uomo di grande cultura, fratello minore del Ministro in Portogallo. Alleggerisce la vergogna che tormenta Alfieri per gran parte della vita, l’ignoranza. Con Caluso succede qualcosa di diverso rispetto al rapporto che Alfieri aveva avuto con chiunque altro. Gli lesse di Alessandro Guidi, ruolo importante nell’Arcadia e nella poesia italiana, letto anche da Goethe. Alfieri lo definisce come il Montaigne vivo, è per lui il filosofo per eccellenza. Questa è un’amicizia che lo fa uscire dal suo torpore, dal suo ozio. Dopo il Portogallo passa nuovamente per la Spagna e rientra a Torino il 5 maggio 1772. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO DECIMOTERZO, poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di poesia: Alfieri da un lato è contro la tirannide, dall’altro lui ha vissuto in un contesto di tiranni e nobili e finalmente arriva alla ragione della sua vita: scrivere. Rinuncia alla nobiltà e alla sua famiglia per dedicarsi alla scrittura e a una vita di indipendenze. La verità è che lui può scrivere in quanto aristocratico, una persona meno abbiente deve per forza affidarsi a una corte, come Metastasio. Fa una piccola descrizione di sé, 23 anni. [1773] Torna a Torino, arricchito dai viaggi condotti. Prende un appartamento in piazza San Carlo, Alfieri riunisce delle persone in casa sua dove stabilisce una società permanente, una piccola “massoneria”, che mira a ricalcare i riti massonici a cui si doveva assistere per entrare nella società. Oltre a un confronto tra questi giovani vi erano anche delle improvvisazioni e si componeva. Tra questi giovani, tutti ben nati ossia nobili, Alfieri ammette che non avrebbe potuto primeggiare su questi in quanto in loggia sono tutti uguali. Fa un parallelo tra la repubblica e il circolo, la sorte vuole la massoneria. Come compongono i giovani? Si era stabilito un ceppo nella cui spaccatura si inserivano dei foglietti anonimi e il presidente li leggeva ad alta voce. Tutti gli scritti erano in francese e di natura satirica. Alfieri scrisse un foglietto che sembrava il Giudizio Universale, “Esquisse du jugement universel” dove Dio chiedeva alle anime un pieno conto di sé stesse, dipingevano i loro caratteri. Questo piacque molto perchè potevano in qualche modo essere riconosciuti con dei veri personaggi torinesi, critica alla nobiltà e ai potenti dell’epoca. Si apre davanti ai suoi occhi la possibilità di scrivere, ma come ogni cosa che parte da zero, gli mancavano i mezzi. Tornato così a Torino si sente ostacolato da tante cose nella sua vita. Giudica le sue velleità di divenire autore. Ritorna la metafora del vegetale. Cade poi nella terza rete amorosa. Da questa nuova esperienza lui esce con una nuova frenetica voglia del fare e del sapere. Il cambiamento radicale avviene dalla fine della terza epoca. Questo intreccio con Gabriella Falletti di Villafalletto impedirà ad Alfieri di suicidarsi a 24 anni. Distinta di nascita, sposata e molto libertina, più grande di 10 anni di Alfieri. La noia porta a intrattenere questo intreccio dal 1773 al Febbraio del 1775. Da un’amicizia iniziò a innamorarsi profondamente di lei lasciando ai margini gli amici e persino i cavalli. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO DECIMOQUARTO, malattia e ravvedimento: Con la Falletti fa la vita da cicisbeo, una sorta di escort non pagato in quanto ricco o nobile. Frequente nel Settecento, ricoperto anche dalle donne solitamente per spiare gli uomini politici. La relazione che intrattiene è caratterizzata da dolori, litigi, allontanamenti. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 20 Vittorio Alfieri Racconta di un suo malessere portato dalla malattia allo stomaco che lo fece digiunare per 5 giorni, al 6 riuscì a mangiare qualcosa. Stesse talmente male a tal punto di desiderare la morte. [1774] Risorto dalla malattia dovete, tristemente, tornare alle catene amorose. In questo anno la donna si ammala e lui, ai piedi di questa donna costretta al silenzio, inizia a schiccherare una scena di una tragedia o commedia per superare la noia. Era da 6 anni che non scriveva una parola italiana. Inizia a scrivere la tragedia “Cleopatra” in italiano. Inserisce anche delle testimonianze di ciò che sta scrivendo come il fatto che, finalmente, riuscì a scrivere in versi. Il soggetto fu preso dalla stanza della donna, guardando degli arazzi. Quando guarisce la donna deposita l’opera sotto il cuscino della donna dov’era solita sedersi, come se stesse aspettando la maturazione di un qualcosa. L’anno dopo riprese la stesura. L’amore per la Falletti lo fa scrivere, era una relazione sia positiva che negativa perchè gli procurava dolori. Usa il pretesto di un litigio per allontanarsi da lei ma poi ritornerà pentendosene. Alfieri è attratto da una forza superiore che lo riporta dalle donne amate, sente il pentimento, la viltà e il dolore muoversi nel petto. Le vuole chiedere scusa per la sua fuga. Elia, che nel frattempo era stato a Torino, da il messaggio ad Alfieri che può rivedere la donna. Le chiede come il permesso di poter viaggiare, un viaggio che doveva essere di un anno ma che durò 6 settimane. Arriva a Milano, evidenzia un contrasto, come allungarlo o abbreviarlo anche senza dire quando sarebbe tornato. Arriva fino a Firenze dove rimane per 2 giorni, si sposta a Livorno dove Alfieri, ricevendo le lettere della Signora, decide di tornare, 18 giorni dopo la partenza. Malinconia e avvilimento. I bollori della sua compressa rabbia arrivano allo stremo fino al 1775, la pressione della sua rabbia lo portò a scrivere il suo primo sonetto. ———————————————————————————————————————- CAPITOLO DECIMOQUINTO, liberazione vera. Primo sonetto: Si parla di una vera liberazione, dalla situazione amorosa con la Falletti, e il primo sonetto. Troviamo una diversificazione delle scritture, accanto al racconto autobiografico di Alfieri vengono situate delle testimonianze (sonetto, due lettere e altre opere). La conversione letteraria al proposito della quale sente l’esigenza di inserire testimonianza che giustificano la volontà di diventare poeta. Rinuncia a questa donna e al rapporto problematico; accanto a ciò ci sono degli esempi di costrizione al non cedere all’amore, li spiega attraverso dei flashback. Disciplina e costrizioni: taglio della treccia. Atto rituale che porta a un cambiamento che si riflette sul fisico, sul corpo, un cambiamento rigenerativo —> ossia quello della scrittura del primo sonetto. Decide di confrontarsi con Paciaudi, riprende la “Cleopatra”, la elabora e la fa leggere ai suoi amici. Un altro stratagemma è di mascherarsi da Apollo, componimenti accompagnati dalla musica che fanno parte della tradizione popolare. Utilizza questo stratagemma che lo pone in una situazione di vergogna pubblica, si presenta attraverso una caricatura. Alfieri, dopo aver rotto la relazione amorosa, scrive un biglietto a un suo amico che non vede da molto tempo. All’interno c’è un patto stretto con sé stesso e in allegato la sua lunga treccia rossa, come pegno. Alfieri a farsi vedere senza capelli provava vergogna, si auto mette in una situazione di non uscire, (distrazione dallo studio che gli da vitalità). Nei suoi primi 15 giorni di costrizione a casa, presa come una fase di depurazione, ha in realtà una crisi di astinenza. Ogni tanto esce a cavalcare nei luoghi solitari fino al Marzo del 1775. Nel momento in cui l’assillazione del pensiero amoroso viene meno riesce a Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 21 Vittorio Alfieri scrivere un saggio in 14 rime (SONETTO) inviato a Padre Paciaudi, lo allega alla Vita per testimoniare il suo inizio di Alfieri Autore. SONETTO: prima di amarti, donna, avevo respinto i sentimenti. Il sentimento non era né vivo, né morto. Occhi pieni di pianto, fissa Alfieri (come se guardasse se stesso) e poi “Stolto, che dissi?” Che cos’hai scritto, rivolgi l’attenzione non a questa sofferenza portata dall’amore ma alla virtù. Contrasto tra passione amorosa, che Alfieri è riuscito a vincere, e la virtù per la nuova identità di questo autore. La lettera mandata a Paciaudi gli permette una digressione. Paciaudi gli aveva suggerito di leggere la “Cleopatra” del cardinal Delfino (autore di tragedie del 600, ha scritto molte tragedie, molte delle quali vennero pubblicate il secolo dopo). Paciaudi glielo consegna convinto che potesse costituire il modello per un giovane che si affacciava la prima volta al genere letterario. Alfieri glielo riconsegna considerandolo inferiore alla sua e agli affetti. Inizia a studiare molti poeti e lui stesso si accorge che il sonetto non era poi così buono, Paciaudi gli diede incoraggiamenti non veri, ciò lo fa maturare e gli fa scattare quell’agonismo che è di fare sempre meglio per ricevere lodi veritiere. Prima di lasciare la casa della Falletti recupera la Cleopatra e ora riprende la scrittura, definendo la prima versione “Cleopatraccia”. All’interno delle altre epoche si vede il confronto con gli altri, in questa fase dice espressamente che non si vergogna di chiedere aiuto agli amici italiani dal momento che lui aveva trascurato la lingua italiana per molto tempo, ammette che altro persone possano essere più formate di lui. L’espediente di farsi legare alla sedia racchiude queste strategie di autocostrizione, significa poter lavorare e dedicare tempo alle attività di studio, per non cadere in quel carcere delle passioni amorose. Anzi chi lo andava a visitare non si rendeva nemmeno conto della sedia per il grande mantellone che lo copriva. LETTERA DEL PADRE PACIAUDI: prima fonte esterna oltre la voce di Alfieri. Dice che vorrebbe che evitasse Petrarca che è finito ad amare Laura come tutti gli uomini (in modo più carnale). Cita la Cleopatra che gli manda con tutte le ultime aggiunte. Gli rimanda i volumi di Plutarci e presto lo raggiungerà a casa sua per partecipare al circolo di letterati. Questo inserto crea una giustificazione ad iniziare a definirsi poeta. Un altro metodo per definirsi poeta, usa la mascherata in cui si veste da Apollo, utilizza lo stratagemma per mettersi in imbarazzo, supera così la vergogna. Apollo che è il dio della poesia viene scelto per mostrarsi in maniera parodica. Si inietta quello che per lui è il veleno: l’esposizione pubblica. Finisce la “Cleopatra” e viene messa in scena a Torino il 15-16 giugno 1775. Riporta delle appendici sia della prima stesura della Cleopatra, fino alle Cleopatra II, cui si aggiunge la lettera di risposta del padre Paciaudi. Egli disse che non era contento della sua poesia, ha ancora molti problemi linguistici e di costruzione dei versi, gli da molti consigli sul come migliorare la lingua italiana. L’unica cosa che manca all’opera, secondo Paciaudi, è la proprietà della lingua tutto il resto è corretto, gli fa un complimento indiretto. Introduzione di un nuovo personaggio: Agostino Tana (autore di tragedie, scrisse molto), al quale chiede un parere delle sue opere. Il loro rapporto è complicato in quanto Agostino non ebbe mai lo stesso successo di Alfieri (invidia). Queste osservazioni non vengono inserite nella Vita forse proprio per le loro avversità che i commenti troppo pungenti. Alla fine della Cleopatra III, aggiunge nell’appendice la lettera del conte Agostino Tana “Aristarco all’autore” riferito all’autore del periodico “Frusta Letteraria”, Giuseppe Baretti sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue; conosciuta sopratutto per i toni accesi e critici con cui l’autore espresse le sue opinioni nei confronti di numerosi letterati. Tana, dalle prime righe della lettera, si mostra molto differente da Paciaudi. Al Teatro Carignano, dopo la rappresentazione della Cleopatra, si rappresenta una farsetta, scritta da lui, chiamata “I poeti”. Questa farsetta contiene le sciocchezze di uno Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 22 Vittorio Alfieri ———————————————————————————————————————— CAPITOLO TERZO, ostinazione negli studj più ingrati: Torna a Torino, verseggia “L’Antigone”, incontra altri letterati importanti. Torna a Torino per vari motivi (mancanza dei cavalli e mancata organizzazione per un soggiorno più lungo, non sicuramente perché presumeva di essersi “intoscanito abbastanza”) e incontra anche l’abate Tommaso di Caluso. Inizia a confrontarsi con i suoi amici della società letteraria Sampaolina, e qui legge l’Antigone, gli amici gli dicono che la trama andava bene ma lo stile era da rivedere. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO QUARTO, secondo viaggio letterario in Toscana, macchiato di stolida pompa cavallina. Amicizia contratta col Gandellini. Lavori fatti o ideati in Siena: Torna in Toscana. Per ripartire ha bisogno del consueto permesso, anche per questo motivo prese la decisione di rinunciare alla piemontesità, ciò gli permetterà di essere un uomo libero. Ritorna in Toscana, passando da Genova (viaggio rocambolesco e molto romanzato). Si ferma a Sarzana e gli viene prestato un libro, le storie di Tito Livio, che lui legge e trova i soggetti molto sublimi. Questa lettura lo spinse alla stesura della tragedia “Virginia”, affronta la Roma Repubblicana; viene rappresentata nel triennio giacobino in Italia. Si sofferma sulla tecnica di ideare-stendere-verseggiare, descrive e commenta il suo metodo. Questi tre respiri con cui ha dato l’essere delle sue tragedie gli hanno procurato un beneficio di tempo in quanto se una tragedia nasce male non potrà migliorare. Ideare: distribuire soggetti nelle scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, fare l’estratto delle scene; stendere: riempire le scene abbozzate con dialoghi in prosa; verseggiare: rivedere le cose scritte di primo getto e renderli leggibili. Accanto alla scrittura del Filippo parla di altre tragedie o non concluse o con poco successo come : Carlo I; Romeo e Giulietta (dice che non avrebbe mai letto Shakespeare ma lo fece, con molte difficoltà nella lettura). Ammette che, nonostante gli errori che nota e quelli che gli sfuggono nelle sue tragedie hanno il pregio di essere state scritte di getto. Dice che la sua digressioncella sul suo metodo è sminuita e dice che forse potrebbe non essere utile o forse potrebbe illuminare qualcuno. Arrivato a Pisa, si sposta a Siena, dove si parla meglio e ci sono meno forestieri. É qui che conosce Francesco Gori Gandellini a cui poi dedicherà Fa amicizia con lui per una somiglianza nei loro caratteri, lo stesso vedere e sentire, nonostante le diverse circostanze: Gori Gandellini è figlio di artigiani a differenza di Alfieri ma lui apprezza che, nonostante non sia nobile, ha il suo forte sentire, è un uomo libero che non si piega al potere. Cade nell’oscurità pur di non cadere ai piedi dei principi. Questo comportamento non gli permetterà mai di vivere come letterario, lo stesso Alfieri gli dedica “La virtù sconosciuta” che ha come unico obiettivo di rendergli omaggio. Grazie a lui riesce a reperire nuove letture, conoscenze, lo stimola. Alfieri ci tiene ad essere stimato da lui, “mi posi a lavorare con un ardore assai maggiore di prima”. Alfieri ebbe da lui l’idea di mettere in tragedia la Congiura de’ Pazzi, accaduta nel 1478 contro i Medici e Gori gli consiglia di trovarla nel Machiavelli, consigliato questa volta da un uomo più colto (l’altro era D’Acunha). La tirannide la scrive di getto dopo aver letto le due opere di Machiavelli, inizia qui a parlare di tirannide e il suo modo di porsi come autore anti-tirannico Fa un’osservazione sui suoi amici dicendo che non ne ha avuti molti ma tutti buoni e stimabili: cercava un reciproco sfogo delle umane debolezze affinché il senno e l’amorevolezza dell’amico attenuasse le sue. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO QUINTO, degno amore mi allaccia per sempre finalmente: Continua con la stesura delle tragedie “Virginia”, “Agamennone”, “Oreste”. Era indeciso se stendere l’ultima o meno in quanto, durante l’inverno a Torino scoprì una tragedia di Voltaire, una delle migliori, chiamata “Oreste”, Gori gli consigliò di stenderlo comunque Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 25 Vittorio Alfieri senza confrontare la versione francese. Ad ottobre va a Firenze e conosce Luisa di Stolberg-Gedern. Viene descritta come una giovane donna di circa 25 anni, occhi nerissimi, pelle candidissima e biondi capelli, propensione alle belle arti e alle lettere e un’indole d’oro. Sente una sensazione diversa rispetto ai primi tre amori, passione del cuore e dell’intelletto. Era sposata con l’anziano Carlo Eduardo Stuart, conte d’Albany (infatti Luisa D’Albany) pretendente al trono d’Inghilterra ma alcolizzato e violento. Avverrà la loro separazione legalmente. Alfieri convivrà con lei fino alla morte. ————————————————————————————————————-———- CAPITOLO SESTO, donazione intera di tutto il mio alla sorella. Seconda avarizia: [1778] racconta della sua decisione di lasciare il Piemonte, stanco delle catene delle sue servitù. Non sempre otteneva il permesso di poter uscire dal confine, un cittadino comune infatti non doveva aver bisogno dei permessi, erano esclusivamente per gli impiegati dello stato. Motivi della sua volontà di spiemontizzarsi: 1) Non riesce più a piegarsi per chiedere il permesso di spostarsi tra gli stati; 2) I suoi scritti continuavano a crescere, avverte il controsenso tra ciò che scrive e lui chi è, la sua cittadinanza (come può scrivere la tirannide e la virginia se lui stesso è suddito di uno stato come quello piemontese); 3) Problema di pubblicazione e stampa a Torino; 4) L’amore che si era ormai impadronito di lui. L’uncia soluzione è quella di spiemontizzarsi. Fa un appunto sulla legge piemontese: non si possono stampare libri senza revisione e consenso, si andava incontro a una fustigazione pubblica; i vassalli non potevano essere autori. Sceglie di diventare autore e utilizza la parola: disvallassarsi, regalare il su patrimonio vivendo solo della sua poesia. Per ottenere ciò doveva chiedere al cognato, marito di Giulia, di parlare con il sovrano, solo allora potrà essere libero. Dice che il Re fu quasi contento di perderlo come cittadino e Alfieri fu altrettanto contento di ritrovare sé stesso. Nel 1778 il Re acconsente il suo volere. Alfieri si definisce con una topica: conviveva con il gigante e il nano; pur volendo disvallassarsi andava in giro con una divisa militare Sarda, solo per estetica. Elia, che era rimasto a Torino a vendere dei cimeli di Alfieri, sembra scomparire per 3 settimane, Alfieri si sente tradito. Ciò verrà poi smentito. Spese molti soldi in libri che divorò, quasi senza goderseli. I suoi scritti nel frattempo vengono abbandonati, preso dai movimenti burocratici. Il problema della lingua si presenta nuovamente, con la D’Albany parla il francese e le chiede di imparare l’italiano. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO SETTIMO, caldi studj in Firenze: Arriva nuovamente il periodo delle sue malattie cicliche a chi era soggetto. Tre opere caratterizzano il soggiorno fiorentino del 1778-1779: Congiura de’ pazzi, Del principe e delle lettere, Don Garzia. Le sue giornate sono tormentate dalle lamentele della contessa per i suoi dispiaceri domestici. Ciò prelude il suo inserimento nel convento. Ritorna sull’importanza dei suoi due amici tra cui Caluso che viene a Firenze per sentire la lingua toscana e per passare del tempo con Alfieri. Il confronto con l’abate lo aiuta e lo stimola alla lettura nuova e questo nuovamente lo indirizza verso l’analisi del verso sciolto. Cerca, attraverso la lettera di Virgilio, di trasferire l’armonia dell’autore nelle sue tragedie. Non vuole essere un imitatore ma avere il suo modo, cercare il suo stile. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO OTTAVO, accidente, per cui di nuovo rivedo Napoli, e Roma, dove mi fisso: Racconta la vicenda della separazione dalla contessa. É importante vedere come il suo senso di protezione verso la donna “donna mia” era forte. Racconta di come vuole salvarla dalla tirannia del matrimonio. Questo matrimonio era molto importante, sia per Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 26 Vittorio Alfieri l’appartenenza alla famiglia Stuart che alla possibilità di salire sul trono. Alfieri dice che la salva dal tirannico ubriacone. La donna va in convento a Firenze, portata dal marito; si sposta poi a Roma perchè li si trovava il cognato. Lui nel 1781 si sposta a Roma. Sposta la sua narrazione verso Caluso che era tornato a Torino, è solo. Per vedere l’amata deve piegarsi al potere, benché vi avesse preso distanza. Raggiunge poi Napoli, descritta come una bella città ma il suo pensiero rimane sulla donna. La tristezza lo distoglie persino dalla scrittura che viene momentaneamente sospesa. Alla fine di Marzo aveva ottenuto la licenza da parte del Papa di poter uscire dal monastero e di rimanere nella casa del marito ma separata da egli. Alfieri voleva tornare a Roma, lo farà il 12 Maggio. Lui fa di tutto per allontanarsi da lei ma alla fine si piegherà avvicinandosi a lei. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO NONO, studj ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime tragedie: Torna a Roma e alle quattordici tragedie che Alfieri conclude a scrivere. Sembrerebbe che il numero 14 possa essere collegato al numero dei cavalli posseduti. I suoi piaceri non a caso sono 1) La contessa; 2) Il voler diventare poeta; 3) I cavalli. Il soggiorno a Roma è importante sia per la conclusione di alcune sue tragedie ma anche per l’inizio di altre e per la continua lavorazione sul Filippo. Parla, in un suo scritto, della guerra americana per la sua indipendenza dalle colonie inglesi in Ode all’ ”America Libera” trae ispirazione da Vincenzo da Filicaia, poeta italiano molto importante che aveva affrontato la poesia eroica. Il periodo romano è un periodo in cui elabora anche la “Merope”, scritta molto velocemente. Tenta di riscrivere la Merope di Maffei, lodato come il restauratore della tragedia in Italia, la sua Merope era stata rappresentata a Verona e Venezia da una compagnia di comici che riscosse molto successo. La velocità con la quale viene scritta consente ad Alfieri di avere un bel tesoretto di tragedie da poter pubblicare. Alfieri fa capire come lavora: le corregge pensando già di poterle poi pubblicare e stampare. Governa tutto il processo autoriale sono alla pubblicazione. Dalla prima edizione che pubblica capisce poi l’importanza di monitorare la stampa, cosa che farà con la seconda edizione pubblicata delle sue tragedie, la Didot. La pubblicazione delle tragedie è una meta ma ricerca ancora il confronto con gli altri. A Roma riesce a inserirsi in una dimensione semi pubblica in cui compare un pubblico. Questa lettura è simile al teatro, le persone che lo ascoltano sono gli spettatori. Ogni volta che 12-15 persone si troveranno riunite si effettuerà un evento teatrale. L’ascoltatore non poteva cambiare il suo viso o inchiodare il suo sedere sulle sedie: questo vuol dire che Alfieri trova uno specchio sociologico e sociale della reazione del pubblico per correggere le sue tragedie. Queste letture pubbliche diventano importanti in quanto, scrutando i visi del pubblico, riesce ad avvertire quali passaggi funzionano e quali no. Notava un’attenzione per i primi 3 atti, dopo si riflette l’ansia per come va a finire e da qui proviene la rapidità degli ultimi due atti. Gli uomini letterati davano consigli sulle locuzioni, verso e regole della scrittura. Gli uomini di mondo davano consigli sui caratteri. L’esposizione pubblica delle tragedie poteva portare però al ridicolo (riconnesso alla vergogna). Infine dice una cosa importante: un forestiero (lui) tra gente non sempre amica lo metteva spesso in ridicolo; il ridicolo non riguarda solo le letture ma anche la recita e poi la stampa. Il sentimento che lo accompagna è la paura dell’esposizione pubblica della critica, residuo di quei segni primitivi delle altre epoche. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMO, recita dell’Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione dolorosissima. Viaggio per la Lombardia: L’Antigone viene rappresentata da una compagnia di attori dilettanti al palazzo dell’ambasciatore di Spagna a Roma, Grimaldi. Partecipano i più importanti rappresentanti Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 27 Vittorio Alfieri che gli amori incestuosi non fossero materia da tragedia. Ma quando lesse la vicenda di Mirra presente nella “Metamorfosi” di Ovidio, commosso decide di trattare questa storia. L’amor di gloria investe nuovamente Alfieri che è tornato con l’amante e anche alla scrittura. Questa stesura delle tragedie viene interrotta dalle lettere che annunciano la malattia di Gori e dopo soli 6 giorni di malattia, la sua morte, Alfieri dice che se non fosse stato con l’amata nel momento della notizia non avrebbe reagito allo stesso modo. Il dolore prende anche la contessa che conosceva quel valorosissimo uomo. Accanto all’accaduto vi è la nuova separazione dall’amata, ben più dolorosa delle altre. Decide quindi di spostarsi a Siena e poi a Pisa. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMOQUINTO, soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Trajano ed altre cose: [1784] La Stolberg si sposta a Bologna ma Alfieri rimane a Pisa. L’unico sollievo di quell’inverno furono le lettere dell’amata e i cavalli. Alfieri legge e studia a Pisa, inizia a comporre nuove opere: dalla lettura di Plinio (autore di Epistole e del Panegirico a Traiano). Alfieri nota la differenza tra Plinio delle epistole e Plinio del Panegirico, sente così un moto di indignazione. Era doppiamente indignato perchè nelle epistole non è così adulatorio come nell’altro. “Plinio mio se tu eri davvero l’amico, e l’emulo, e l’ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a Traiano” si mise a scrivere (un suo panegirico). Tacito è il modello (lui assume la posizione di Tacito), Plinio è l’antimodello. In questa fase della vita riprende la traduzioni iniziate nella prima fase della vita. Parallelamente recupera vecchi scritti tra cui il trattato “Del principe e delle lettere” iniziato a scrivere in Toscana, ripreso a Roma e poi in questa fase. C’è un flashback che ricorda la pubblicazione del terzo tomo delle tragedie e chiede un parere da Cesarotti, che gli dice di prendere esempio dalle sue traduzioni su Voltaire. Questa lettera, con le note di Alfieri verrà inserita nel Giornale di Pisa, “Giornale dei Letterati”, ulteriore esposizione pubblica di Alfieri, la maggior esperienza di Cesarotti rispetto ad Alfieri diventa cosa pubblica. Vi è anche un riferimento alle critiche che gli vengono fatte dicendo che “noi autori massimamente, che sempre abbiamo fra le mani e tavolozza e pennello per dipingere altrui, ma non mai lo specchio per ben rimirarci noi stessi e conoscerci". Rimane a Pisa fino al 1785 e visita altre città tra cui l’Alsazia. A Pisa assiste al Gioco del Ponte, una finta battaglia sul ponte di Messo. Il Panegirico è un componimento di carattere encomiastico, pronunciato in pubblico per esaltare i meriti di un personaggio, una città o un popolo. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMOSESTO, secondo viaggio in Alsazia, dove mi fisso. Ideativi, e stesi i due Bruti, e l’Abele. Studi caldamente ripigliati: Incontra qui, in Alsazia, la sua amata e non vuole più tornare in Italia. La contessa riparte per Parigi e Alfieri rimane solo ma questa separazione è uno dolorosa perchè sa con certezza di rivederla in estate. Si dedica alla scrittura, finisce le tragedie iniziate e finisce il libro “Del principe e delle lettere” 3 libri conclusi nel 1786. Si dedica poi alla scrittura de “Della virtù sconosciuta”, dedicata all’amico Gori. Distese anche “Abele” una tramelogedia (termine da lui cognato per indicare l’ibrido di una tragedia con caratteri melodrammatici), recupero del tema biblico. In una lettera ricevuta dal Luisa D’Albany gli comunica che aveva visto il “Bruto” di Voltaire in teatro e ciò genera in lui una competizione tale da iniziare la stesura dei “Bruti”. Critica Voltaire perchè nato plebeo e che, pur avendo scritto due tragedie di tema repubblicano, si continua a firmare “Voltaire Gentiluomo ordinario del Re”. Dalle 14 tragedie si arriva a 19 benché si fosse ripromesso di non fare più tragedie, dopo questa stesura rinnovò il suo giuramento con Apollo. Al momento di grande creatività segue un momento di malattia della gotta (simile all’artrite). Quando la sua amata lo raggiunse si riprese e partirono per Parigi. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 30 Vittorio Alfieri ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMOSETTIMO, viaggio a Parigi. Ritorno in Alsazia, dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa di tutte le diciannove tragedie. Malattia fierissima in Alsazia, dove l’amico Caluso era venuto per passare l’estate con noi: Nel 1787 va a Parigi con la Contessa. Qui stringe l’accordo per l’edizione Didot con un editore straniero. Il periodo è caratterizzato da una frenetica lettura delle sue tragedie. Verseggia il “Bruto Primo” e legge a un francese, suo conoscente e molto intelligente (gli chiese pure dei consigli per il “Filippo”), la “Sofonisba”, il francese lo osserva senza battere ciglio, così che Alfieri si autocritico fino a non riuscire a finire di leggerlo e addirittura gettare l’opera nel fuoco. Alfieri non riesce a decifrare i sentimenti del suo giudice ascoltatore e così va in paranoia. In realtà l’amico la stava apprezzando tanto che, una volta gettata nel fuoco, questo corre a recuperarla. Questo episodio viene ricollegato all’episodio di Madrid contro Elia, quando lo aveva picchiato. Questa tragedia verrà aggiunta all’edizione Didot, ridotta e verseggiata. Finalmente pubblica le sue tragedie, si accorda con Didot Maggiore il quale aveva pubblicato tante opere, era esperto in materia. Inizia subito a stampare nel maggio del 1787. Non pubblica solo le tragedie ma anche gli apparati critici e i pareri. Differentemente dall’edizione senese, l’edizione parigina ha grandi differenze: - Segue tutto l’iter: stampa, edizione, pubblicazione, distribuzione. Tanto da dire ai suoi amici in Italia di firmare le sottoscrizioni (all’epoca non era garantito il successo e la stampa dei libri, così le sottoscrizioni servivano ad assicurarsi che qualcuno le avrebbe comprate). Diventa un imprenditore a tutti gli effetti; - Aggiunge degli apparati critici (partenti) che vanno ad integrarsi a tutta l’opera. Nell’edizione Didot tutto è studiato con coerenza, nella struttura. C’è un forte autobiografismo, tanto che nella lettera di risposta a Calzabigi lui parla di sé in terza persona (forte senso autobiografico che porterà poi alla scrittura de “La Vita” e journous, un diario personale). Gli apparati critici fanno quindi da collante per tutta l’opera. Il capitolo si conclude con l’incontro con Caluso, a Ginevra insieme alla contessa. Sarebbe poi andato a Colmar e lascia una lettera ad Alfieri. All’interno proponeva una donna in sposa ad Alfieri, spinto dalla madre di Alfieri a consegnargliela. Questo matrimonio combinato generò riso in Alfieri. L’incontro con Caluso crea l’occasione di confronto su questioni molto importanti, dibattono sul fatto che Voltaire e Rousseau avevano modo di muoversi erranti perchè il francese era conosciuto in tutta Italia, Alfieri non ha la stessa fortuna, avendo già in base dei problemi con la lingua italiana. Lui non scriveva per lavoro ma solo per amore dell’arte e per mero sfogo. C’è un intervento più politico in quanto scrivere per gli italiani è più difficile; gli italiani conoscono meglio i classici francesi di quelli italiani. La sua è una totale dedizione. Dice che è facile leggere e applaudire delle opere straniere per un popolo di stolti, e preferisce la lingua italiana nonostante le tante difficoltà. In Italia è dunque praticamente più difficile perchè tutta l’Italia è disgregata, non c’è una centralità che invece è presente negli altri stati come Francia e Inghilterra. Caluso si fece male e a ciò seguì il all’essere di Alfieri che lo portò a pensare di morire. Da una parte era addolorato all’idea di lasciare le due persone da lui più amate ma dall’altra era confortato all’idea di morire libero e con due persone vicine. Si riprese a stento ma per 4 mesi rimase indebolito a tal punto da non emozionarsi alla visione delle tragedie stampate, tanto che vorrà ristampare le prime tre. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMOTTAVO, soggiorno di tre e più anni in Parigi. Stampa di tutte le tragedie. Stampa nel tempo stesso di molte altre opere in Kehl: Visita alla stamperia di Kehl, stamperia straniera stabilita dal Signor di Beaumarchais (scrittore delle commedie “Il barbiere di Siviglia” e “Le nozze di Figaro”) con i caratteri di Baskerville, ne rimane talmente affasciato da decidere di voler stampare qua le sue tragedie rimanenti, con maggiore libertà di stampa. Stampa le opere che non sono Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 31 Vittorio Alfieri tragedie ma quelle con carattere marcatamente politico. Si lamenta della censura dicendo che lui non porterà mai sui testi offese a individui o costumi. Lascia alla stamperia “L’America Libera”. Ammira la stamperia di Kehl e il lavoro che conducevano in quanto confronta gli incisori Didot che gli hanno fatto fare “sangue verde” (cattivo), spendere soldi per ogni minima modifica. La stampa con la Kehl, gli prese quasi 3 anni. Ritorna a Parigi dove si trasferisce a Montparnasse. Tutti i cavalli nel 1788 lo raggiunsero a Parigi. Qua arriva la notizia che il marito di Luisa Stolberg morì e lei ne soffrì. Scrive l’ode “Parigi Bastigliato”. Appena iniziano i moti rivoluzionari Alfieri è quasi entusiasta della Rivoluzione. Ma con il passare dei mesi rivedrà la sua posizione in quanto le motivazioni politiche si mescolano con quelle autobiografiche. Dal ’89 al ’92 Alfieri e Luisa vivono il terrore parigino. Il suo antifrancesismo di natura politica e culturale riflette un rapporto antitetico con la Francia che caratterizza anche la cultura italiana di quegli anni. La paura si riflette anche sulla stampa delle sue opere con la possibilità di essere associato ai rivoluzionari, in quanto scritti molto rivoluzionari con tratti in cui giustificava la violenza per abbattere il tiranno. Questi scritti avrebbero fatto di lui il paladino della Rivoluzione stessa. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO DECIMONONO, principio dei tumulti di Francia, i quali turbandomi in più maniere, di autori mi trasformano in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno: Appena le opere sono stampate e concluse in un primo momento ferme a Kehl poi le manda in Italia. Ha un’idea dei rivoluzionari che associa ai pazzi, quella classe medio- borghese, da cui poi verrà Bonaparte. L’idea di questi uomini è discriminatoria, il punto di base nobile di Alfieri non deve essere dimenticata intanto ha un pensiero da elitario e giudica i rivoluzionari anche e soprattutto per i ceti sociali di appartenenza. Si vede una volontà testamentaria, la sensazione della morte si fa sempre più presente. L’aver tristi presentimenti e l’autoriconoscimento di aver fatto qualcosa in questi 14 anni, è per questo che inizia a scrivere la sua vita e termina questo “squarcio” il 27 Maggio del 1790, all’età di 41 anni. Fa una sorta di patto con sé stesso, "riprenderò queste mie ciarle quando avrò compiuto 60 anni”. Progetta addirittura una quinta epoca che però non scriverà. Apre una nuova possibilità: se lui morirà, cosa già verosimile, lascia a Caluso una sorta di testamento sul da farsi con questo scritto. Se vuole pubblicarlo così com’è si noterà l’impeto della fretta e veracità di Alfieri, se lo modificherà di aggiungere il tempo e il luogo della sua morte. Se deve essere pubblicato diversamente da come lui l’ha scritto lo prega di abbreviarlo, i fatti devono rimanere invariati ma stilisticamente può essere più breve. Certo se ci saranno delle abbreviazioni lui stesso lo avrebbe potuto fare ma ha voluto inserire minuziosamente gli episodi perchè utili per capire la sua vita. Ciò che lui mira a fare è faresi conoscere e conoscere il lettore attraverso una chiacchierata. La data indica la trascrizione della prima parte della Vita, Firenze del 2 maggio 1803, redazione definitiva della vita, aggiunta quando Alfieri rivede la vita. PARTE SECONDA, più trascurata perchè si ammala e sta morendo. Nel Proemietto (nuovo inizio) tredici anni dopo, quando si trova a Firenze, rilegge tutto ciò che ha scritto a Parigi sulla sua vita, fino all’età di 41 anni, ricopia tutta la prima parte dando molta attenzione allo stile. Vuole scrivere ciò che ha fatto in questi tredici anni. Invecchiando molto dice che questa sarà molto più breve e anche l’ultima. CAPITOLO VIGESIMO, finita interamente la prima mandata delle stampe, mi do a tradurre Virgilio e Terenzio; e con qual fine il facessi: [1790] Si trova a Parigi, inizia a tradurre dei pezzi dell’Eneide, e di Terenzio. Finisce l’ “Abele” e scrive dei sonetti. Questo suo misogallismo di dimostra anche nella poetica, parte di questi sonetti andranno a finire nel “Misogallo” a cui lui inizia lavorare scrivendo questi versi francesi dando poi una struttura compiuta successivamente e altre parti Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 32 Vittorio Alfieri che ci riporta all’inizio, sul finire della sua vita ci da conteggio del suo modo sistematico di studiare: lunedì e martedì Sacra Scrittura; mercoledì e giovedì Omero, venerdì, sabato e domenica Pindaro. Tutto impuntato a imparare il greco, almeno quanto il latino. In preparazione all’invasione francese a Firenze (avvenuta poi il 25 marzo del ’99), preparò i libri, per non perderli un’altra volta, e li mandò in una villa fuori città, a Montughi. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO VIGESIMOTTAVO, occupazioni in villa. Uscita dei Francesi, ritorno nostro in Firenze. Lettere del Colli. Dolore mio nell’udire la ristampa prepararsi a Parigi delle mie opere di Kehl, non mai pubblicate: Rimane in questa villa per un certo periodo, spaventato dei possibili arresti. Continuava a studiare nonostante gli arrivassero notizie di molti arresti in città. Ritornano a Firenze gli Austriaci e lui stesso rientra a Firenze, dove continua il suo metodo di studi con maggior speranza. Quell’anno ricevette una lettera del Marchese Colli, suo nipote, volle incontrarlo ma Alfieri negò in quanto si era unito al servizio dei Francesi. In questo capitolo vi sono diverse digressioni come l’incontro con il sovrano Piemontese, diverso dagli altri, Alfieri in questo caso prova una certa voglia di servirlo, gli rimanevano pochi sudditi. Racconta anche l’episodio del libraio Molini di Parigi, gli capita tra le mani un manifesto in cui comincia la stampa delle sue opere nell’anno 1800. Alfieri denuncia la scomparsa dei libri accusando Ginguené e pubblica un Contromanifesti per confessare che i suoi libri erano stati rubati. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO VIGESIMONONO, seconda invasione. Insistenza nojosa del General letterato. Pace tal quale, per cui mi scemano d’alquanto le angustie. Sei commedie ideate ad un parto: [1800] Seconda invasione francese con un episodio, mentre è vicino a Firenze il generale francese, Miollis, lo vuole incontrare a tutti i costi ma lui evita l’incontro. Fa un commento sul Piemonte che era stato occupato dai francesi e racconta un evento a cui è costretto dire di no, associazione dell’Accademia delle Scienze di Torino. Iscrivono Alfieri e mettono il suo nome nella lista di associati (tipo filo-francese), Alfieri dice nuovamente di no, testimonianza di questo suo solido posizionamento contro i francesi. Incarica Caluso di farsi mediatore, la lettera che gli arriva nemmeno l’aveva letta ma aveva paura di essere associato a queste persone. L’unica arma per scagliarsi contro i francesi è la letteratura, inizia a stendere 6 commedie, di cui 4 commedie andrebbero lette come commedia unica, “L’Uno”, “I Pochi”, “I Troppi”, “L’Antidoto”. Tetralogia domenica che fa riferimento alle forme di governo, monarchia, oligarchia, democrazia e monarchia costituzionale. Aggiunge poi “La Finestrina” e “Il Divorzio”, attualizza il presente. Non sono state scritte per deride ed emendare l’uomo, ma la commedia doveva dare la possibilità allo spettatore di leggere attraverso le rappresentazioni l’uomo a un livello universale. Era convinto che la commedia doveva parlare in ogni tempo. E soprattutto superare il dramma urbano. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO TRIGESIMO: Si arriva alla “sedicente pace”, trattati di Lunéville, parla anche di Bonapoarte. Perdita di un nipote, il Conte di Cumiana, muore a soli 30 anni. Si ritorna a una semi normalità in Italia, ritornano ai loro averi e comprano i cavalli, accanto Alfieri prosegue nel limare le commedie. Si ammala poi gravemente, il primo segnale avviene nel 1802, Caluso lo va a trovare e i due si confrontano sulle volontà di Alfieri. ———————————————————————————————————————— CAPITOLO TRIGESIMOPRIMO: Nel 1803 le sue condizioni di salute peggiorano ma questa stessa malattia lo spinge sempre più a terminare le opere iniziate. L’ansia lo spinge a non voler lasciare le opere e incompiute. Un testo che tradurrà dopo i 60 anni sarà “Della Vecchiaia” di Cicerone, opera legata a lui e alla compagna. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 35 Vittorio Alfieri Abbiamo tre linee direttrici, i propositi, le ciance e i manoscritti. Ma soprattutto fra riferimento all’Alfieri personaggio. “Rimbambinare” rimbambire e ritornare bambino. Dopo l’apprendimento del greco, decide i farsi fare questa collana, con 23 poeti antichi e moderni e pendente da essa un cammeo (pietra intagliata in bassorilievo) rappresentante Omero con insieme due versi. Dopo averla fatta controllare a Caluso, per evitare errori, chiede di essere inserito o meno. Saranno poi i posteri a decidere se lui possa essere inserito o meno, anche se lui dice di meritarsi l’ingresso. Trascrizione “Forse inventava Alfieri un Ordine vero Nel farsi ei stesso Calavier di Omero”. La lettera di Caluso, rispetta le volontà dell’Alfieri e della D’Albany, la scrive basandosi su dei racconti, dalla lettura della Vita e di aver detto alla contessa di pubblicare questa opera. Si evidenzia come Alfieri si fosse dipinto con tanta fedeltà e naturalezza lasciando una figura di sé scolpita, colorata e parlante. Caluso è interessato a comunicarci che Alfieri non ha ricevuto l’estrema unzione ma nella sua ultima parte della vita si era riconciliato con la religione —> Caluso aveva paura che questo scritto potesse essere oggetto di censura, anche solo la minima possibilità di accusa di ateismo la evita in questo modo, per discolpare Alfieri da accuse dalle quali lui non poteva difendersi. Dall’autobiografia si passa a una biografia “Stava adunque a quel tempo il Conte Alfieri”, si racconta la lunga malattia di Alfieri, muore l’8 ottobre. Fu sepolto a Santa Croce, presso l’Altare dello Spirito Santo, realizzato da Canova. Alfieri e la contessa si erano raccomandati che finché non si fosse conclusa non potesse essere letta se non a scelti personaggi, tra cui anche Foscolo. Caluso pone alla fine della vita il contravveleno per i motivi simili a quelli della religione. Contravveleno: quella di sommo e quella d’irreprensibile. Tutto questo atteggiamento che si può condannare in Alfieri è scusabile perchè è un eccesso del troppo zelo. Di quella virtù eccessiva che è l’amor di patria. Discorso molto ambiguo, Caluso gioca molto su quelli che sono i tratti peculiari della coerenza alfieriana. Lo condanna e lo scusa nello stesso momento. Nuova firma il 21 luglio 1804. ANALISI TRAGEDIE Il metodo che elabora in dalla stesura della “Cleopatra” è la divisione in 3 sospiri: - Ideare, buttare giù l’idea; - Stendere, abbozzare in prosa; - Verseggiare, trasformare l’abbozzo da prosa in versi. Rime irregolari, residui melodrammatici. Il verso endecasillabo non è morbido, ma fratto e spezzettato. Utilizza l’endecasillabo spezzato formato dall’unione del quinario e del settenario (5+7). Non usa un grande bagaglio di parole ma delle parole ricorrenti, in esse stesse spesso sta tutto il significato della tragedia. Tratto distintivo che utilizza: BREVITAS, non dilungarsi Battute ricchissime, domande, esclamazioni, puntini. Labor limae continuo, ossia limatura minuzia nella scelta delle parole. Alfieri elimina i cori, il personaggio del confidente (andava contro la verosimiglianza), vi è quindi una diminuzione progressiva del numero di personaggi. FILIPPO, dal 1775-1776 iniziò a scriverlo, nel corso di 14 anni fece 4 stesure. Con Filippo forma il primo volume delle tragedie, pubblicate nel 1783 presso un editore di Siena, divise in più tomi. Le prime due nel 1783 e una nel 1785. Dopo la pubblicazione riceve molte critiche, ciò comporta molti ritocchi da parte sua, come quella parigina dell’88-89. Con il passare del tempo assume maggior consapevolezza e le pubblica alla prima stesura. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 36 Vittorio Alfieri Trama: racconto storiografico dell’abate San Real del 1672 “Dom Carlos”. Parla di Filippo II di Spagna, monarca e soggetto storico-moderno del ‘500 e suo figlio Carlo. Una fonte che addensa la storia è la leggenda nera, diffusa dalla parte protestante (la Spagna è cattolica), del tiranno cristiano come despota, il figlio invece è l’eroe che rispecchia la schiera di innocenti che pagano l’oppressione del tiranno. Filippo è il mostro e Carlo la vittima innocente. Secondo la leggenda è Carlo ad aver cospirato contro Filippo, fomentando la ribellione quindi appoggiando i protestanti segretamente. La colpa di Carlo non è solo il parricidio, aver tradito il padre ma anche l’essere protestante. L’opera dell’abate pone luce sulla discussione del despota illuminato; secondo Alfieri, un despota illuminato, dovrebbe rinunciare al suo potere. Alfieri racconta di Filippo in modo umano, non come un mostro. Carlo muore poi nel castello a 23 anni ingozzandosi di cibo, presenta un aspetto deforme e una condotta deplorevole: non possiede un’immagine virtuosa. Ambientazione, reggia di Madrid. La Reggia è associata al luogo del potere ma anche luogo dell’abuso di esso. Viene utilizzata l’immagine della prigione, Carlo è l’uomo in trappola e Filippo è quello assetato di potere Personaggi, i personaggi sono 6 e basati su personaggi realmente esistiti. Filippo II, Re di Spagna. Carlo d’Austria o don Carlos, figlio di Filippo II e Maria Emanuela di Portogallo. Isabella di Valois è la sposa di Carlo ma inizialmente promessa a Filippo, per ragioni di opportunità politica e necessità di un matrimonio combinato sottrae la sposa al figlio. Carlo non ama Isabella è un matrimonio di pura convenienza, Filippo odia il figlio Carlo. Figlia di Caterina de’ Medici e re di Francia Enrico II. Gomez, più fido consigliere, ricopre la parte del consigliere malvagio. Corte come luogo di corruzione Perez, più fedele amico di Carlo, il loro rapporto fa emergere il tema dell’amicizia, molto importante nella tragedia. Vi è quindi da un lato il consigliere malvagio (corte è il luogo di corruzione); dall’altro i consiglieri fedeli i quali non agiscono sul monarca ma si riferiscono ai virtuosi innocenti. ATTO I, subentra Isabella che vuole fuggire dall’amore falso di Filippo. La prima descrizione di Carlo la abbiamo tramite le parole di Isabella. Ella ama Carlo ma deve nascondere questo sentimento al padre, Filippo. Simbolo del suo amore —> PIANTO. La parola ricorrente e importante nella tragedia è FUGA. Isabella sul finale si pone allo stesso livello di Carlo. Appare abbastanza ingenua, intenta a cercare le giustificazioni nei confronti di Filippo. Carlo diventa sempre più esplicito, odia il padre. Viene sottolineata la comparazione della corte con la prigione. Lei stessa è obbligata ad odiare Carlo anche se in realtà lo ama, l’unica soluzione che le rimane è consigliargli la fuga, di dimenticarsi di lei. Vr 60 in poi, secondo Carlo, Filippo non è a conoscenza della sua colpa (il suo amore per Isabella), Carlo spiega a Isabella il suo destino di morte e lei è in pena. I due prendono strade diverse. VR 143 “Il solo, ond’io son reo, nol sa”=accusato di molti delitti (ribellione, tradimento parricidio), l’unico di cui non sospetta è l’amore di Isabella. Compare nella scena IV, l’amico di Carlo, Perez, amico virtuoso, affianca prima Carlo e poi Isabella. Tema dell’amicizia tra i due molto importante nella tragedia. Chiede a Carlo perchè tace, Carlo gli fa capire che dentro una reggia il nome amico non può esistere, accusa Perez di seguire la “mobil turba” ossia i cortigiani che cambiano fazione in base a ciò che conviene. Gli confida inoltre il sentimento di odio verso il padre. Perez vuole intervenire dicendo a Filippo quello che Carlo pensa, ovvero di non essere colpevole. Viene evidenziata la predestinazione a un destino non lieve di Carlo. Carlo sottolinea che la corte gli ha donato un amico fedele, Perez, cosa che il padre non ha. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 37 Vittorio Alfieri eroica. Carlo le dice di seguire il suo esempio, si punta la lama ma la coppa contenente il veleno viene tolta dalle mani di Isabella. Filippo la farà vivere sola e piangente, pena ancora più grande. Quando Isabella supererà la morte di Carlo, allora li Filippo la ucciderà. Ella prende il pugnale e si ferisce : eroico gesto “Di me vedi e di tuo figlio morir, ambo innocenti, ed ambo per mano tua”. Filippo ha uno spiraglio di umanità, non è un tiranno a tutto tondo, Filippo si chiede se ora è davvero felice, nella prima versione della tragedia la domanda non c’era, viene aggiunto per un finale aperto. ———————————————————————————————————————— Francesco Saverio Gaetani, subito dopo la pubblicazione del primo volume delle tragedie scrive una lettera che la pubblica nel 1783 in un giornale in modo anonimo. Fino a quando Alfieri non pubblica le tragedie, il giudizio che viene dato sulla sua opera è legato anche al giudizio sulla sua persona, con la loro pubblicazione però l’attenzione viene riportata sul testo letterario. Da qui viene giudicato come un autore, non più solo come uomo, la loro pubblicazione è un vero e proprio spartiacque. Un avvenimento importane riguarda il 1779-1782, fa un viaggio a Londra dove conosce e si innamora di una donna, sposata con uno Stuart, Luisa Stolberg D’Albany. (Marito molto dedito all’alcool con carattere violento). L’edizione senese fa riferimento ad Alfieri uomo, dopo il 1783 i critici fanno riferimento ad ALFIERI AUTORE, libertino, viaggiatore. I critici arrivano con le nuove edizioni, le prime infatti erano solo lette dai dotti. In questi anni ha influenze francesi, cultura anfibia piemontese, ha bisogno di una cultura diversa, si sposta in Toscana dove conosce figure determinanti per la sua carriera e la vita. A Siena crea intorno a sé quell’insieme di amicizie che aveva creato anche a Torino nel ’72: una piccola società letteraria con cui confrontarsi. Una di queste è Francesco Gori Gandellini, non nobile. La loro amicizia è talmente profonda da dedicargli una sua opera “La virtù sconosciuta” per la sua morte. Nell’epoca quarta, capitolo quarto, della Vita viene citato il suo ritratto. Alfieri lo ammira e lo stima, un uomo dotato di virtù e morale antica, virtù ormai scomparsa nella modernità. I due si rispecchiano l’uno nell’altro, nonostante i diversi natali. Il tema dell’amicizia nasce anche grazie a questa sua figura. Quando Gori entra nella sua vita si forma come un triangolo di sodali tra Alfieri, Luisa e Gori. Quest’ultimo incarna la figura del letterato virtuoso anche se non ha mai pubblicato un suo scritto (la virtù sconosciuta, nessuno conoscerà mai l’animo dell’amico). Il periodo toscano per Alfieri fu di grande fervore, inizia a scrivere con più costanza, questo periodo viene da lui definito come un “balsamo” epoca IV, capitolo V del “La Vita”. Nel 1778 lascia definitivamente il Piemonte anche per la durezza della censura delle opere stampate. L’unica alternativa di Alfieri è quella di “Spiemontizzarsi” allontanarsi per raggirare la censura. Le opere a cui Alfieri si dedica durante il periodo toscano sono opere che riguardano questioni politiche importanti “Della tirannide” e “Del principi e delle lettere”, il primo contro la tirannide e il secondo contro i sovrani illuminati, temi che nessuno trattava in quanto delicati. Il dispotismo illuminato era molto diffuso in Europa, sono illuminati in quanto promuovono il pubblico bene con le riforme, ad Alfieri non piace in quanto se un sovrano è realmente illuminato rinuncia al potere. La Toscana, molto più libera per la stampa era lo scenario più adatto per poter esprimere queste idee molto forti e radicali. Nello stesso periodo scrive delle tragedie “La congiura dei pazzi”, “Don Garcia”, “Maria Stuarda”, non presenti nell’edizione del 1783 in quanto troppo politiche. Alfieri si allinea con il pensiero dei repubblicani, i suoi amici gli consigliano di leggere opere di Machiavelli e altri testi politici che costituiscono la base per scrivere queste tragedie. Scrive anche “L’Oreste”, “Virginia”, riprende temi classici e opere classiche romane repubblicane. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 40 Vittorio Alfieri Dal ’78 all’80 a Firenze incontra Luisa D’Albany e il legame che si crea con la città è così forte da ritornarci e starci fino alla sua morte. Accanto ai libri messi a sua disposizione da grande importanza alla lettura della Bibbia, gli episodi biblici sono alla base del Saul. Studia le 3 forme di governo a lui contemporaneo: Roma con la repubblica, democrazia ateniese, forme costituzionali (presenti nella Bibbia) che si basano sulla legge divina, Dio da l’incarico al Re. PERIODO ROMANO, si sposta da Firenze a Roma, si trasferisce per stare più vicino a Luisa D’Albany che nel frattempo era stata rinchiusa in un monastero. Cambiano i temi trattati, passa dalla modernità a temi dell’antichità. Decide di scrivere una nuova edizione delle tragedie, dove inserisce i PARERI, discorsi autocritici impregnati di valori antichi romani. Sta a Roma due anni (in questi anni muore Metastasio), per colmare il vuoto lasciato dalla morte di Metastasio, entra nell’Arcadia. Negli anni romani giravano all’interno dell’arcadia anche temi politici, non solo poesie e canzonette. Per i letterati dell’epoca i punti di riferimento erano la rivoluzione inglese del 1600 e la rivoluzione americana degli anni ’70 del 1700. Quest’ultima è significativa perchè in America non ci sono più i principi, non c’è la monarchia ma vi è un altro tipo di politica. Alfieri scrive “Odi all’America libera”, poesie. In Arcadia si discuteva su un nuovo tipo di tragedia, tutti si aspettavano, con il suo bagaglio culturale e di numero di tragedie scritte, che fosse lui a riportare un nuovo modo di scrivere, un modo che si diversificasse dal modo francese. Roma è il luogo del volto pubblico per lo scrittore, le sue tragedie vengono lette a voce alta e “L’Antigone” viene rappresentata il 20 novembre 1782, l’ambasciatore di Spagna Grimaldi decide di mettere in scena nel suo palazzo questa tragedia. Alfieri fu chiamato il “Nuovo Sofocle”. Il “Saul” viene letto in Arcadia nel 1783, recita nel serbatoio dell’accademia. (recitare= leggere a voce alta). La stampa era l’unico modo per far girare un’opera e la voce diventa uno strumento. Roma costituisce un vero e proprio laboratorio di scrittura, scrive infatti due possibili finali dell’Antigone, una in cui mostra la morte in scena che genera un effetto enorme, e un’altra con la morte raccontata. Il Saul lo scrisse di fretta, l’ideazione e la scrittura avvenne quasi simultaneamente. (Maria Pozzelli diede nel suo salotto la “Merope” di Scipione Maffei e Alfieri entrò subito in competizione, decise di scrivere la sua Merope.) Per scrivere il Saul, aveva una conoscenza ampia della Bibbia, l’edizione degli anni ’80 viene dedicata a Caluso che è grande conoscitore e studioso del testo. La figura preminente in questo caso non è la vittima innocente, ma il principe buono, ovvero David, che si è eletto principe, secondo una base biblica e altre fonti religiose. David è il cognato di Saul, c’è un problema di successione in cui il re deve essere eletto dal popolo. Ci sono degli elementi nella tragedia di critica nella casta sacerdotale. Questo re viene raccontato come preso dalla follia, in cui si possono vedere le stesse posizioni di Alfieri. Quindi anche una storia tratta dalla storia ebraica poteva avere una valenza politica al pari dei temi della storia moderna e poteva porre interrogativi anche su temi come il dispotismo. Nel frattempo a Roma lavora anche sul trattato politico Del principe e delle lettere e nel frattempo anche a delle tragedie. Lo stato pontificio non avrebbe mai stampato le opere di Alfieri, lui stesso tolse alcune delle tragedie più politiche, la versione viene stampata in Toscana. Il suo fu un tentativo di stampa, perchè essa non viene bene. Il titolo di questa edizione, la prima, fu “Tragedie di Vittorio Alfieri”, 1783-1785, senza riferimento alla sua nobiltà. Normalmente quando un nobile pubblicava delle opere lo citava, Alfieri dedica di non scrivere la sua nobiltà, non solo rinuncia alla sua origine, il Piemonte, ma anche alla sua eredità. Vorrebbe vivere del suo mestiere. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 41 Vittorio Alfieri Merope, Filippo e Saul sono simili nella struttura, il Saul inizia con un lungo discorso di un personaggio, il Saul viene nominato spesso nel I Atto, ma appare solo nel II Atto. (Alcuni versi si trovano nell’Ortis). ———————————————————————————————————————— SAUL, dedica che l’autore fa a Tommaso Valperga di Caluso (grande amico di Alfieri, come uomo dotto ed ebreo). Quando Alfieri dedica l’opera con l’edizione Didot editore parigino (’88-’89), seconda edizione, nella stessa dedica fa riferimento a Gori a cui aveva già dedicato l’Antigone. Steso e Verseggiato nel 1782. Aveva offerto a Papa Pio Vi la dedica dell’opera per ottenere protezione contro la crescente pressione del cardinale di York nei confronti della sua relazione con la D’Albany. Ma il papa rifiutò. Nel secondo Settecento si sviluppa un vero e proprio apprezzamento verso il Vecchio Testamento come espressione di un mondo arcaico. L’attingere al Vecchio Testamento permette l’esplorazione di una poesia descrittiva fantastica e lirica. La dedicatoria fa cogliere un tratto di alfieri, le dediche solitamente sono indirizzate a grandi principi, nobili; lui le dedica a degli amici, diventa una prassi. Si lega alla scrittura “Del principe e delle lettere”, spiega come deve essere lo scrittore libero = non sottomettersi ai potenti, una dedica a un principe o un re avrebbe significato un prostituire la sua arte. Il Saul si lega alle caratteristiche dei titani precedenti (il rapporto Saul-David può ricordare quello tra Filippo-Carlo + entrata in scena del protagonista nel II Atto + a differenza del Filippo, qui i personaggi hanno una vita indipendente, Abner non è complice come Gomez). L’eroe tragico Saul non è il portatore dei valori ufficiali della tragedia, rappresentati invece da David, pio guerriero che si sottomette al volere di Dio in cambio di sostegno e protezione. Rinunciò allo sfruttamento del filone religioso verso la predilezione del razionalismo, in un secolo di verosimiglianza come quello. Alfieri decise di eliminare l’evocazione dell’ombra di Samuele, presente nella stesura in prosa, con il delirio del Saul. Personaggi: Saul è il primo re degli ebrei; Gionata figlio di Saul; Micol figlia di Saul e moglie di David; David genero e successore di Saul per volere di Dio; Abner cugino di Saul, comandante dell’esercito ebraico (esercito in guerra contro i Filistei). Ambientazione: si trovano a Gelboè, contrafforti nord occidentali della montagna Efraim in Palestina. Richiamo frequente della notte come forte minaccia per il tiranno = discesa del suo potere. ATTO I, David è il primo personaggio che compare. Saul ha perso il lume da tempo, come se fosse stato posseduto da uno spirito malvagio (vr 17). Pur non comparendo sappiamo che Saul è fuori di senno. David sin da subito chiama la morte, rimanda a un antefatto in cui Saul odiava così tanto David da aver già tentato di ucciderlo. Si introduce subito il tema dell’odio, David definisce Saul disconoscente in quanto egli aveva combattuto per il suo regno e per gli ebrei e nonostante ciò era stato cacciato e quasi ucciso. David sin da subito mette attenzione sul fatto che era stato cacciato da Saul ma sarà lui stesso a dargli la morte. Vi è il problema politico della successione se per via ereditaria o di sangue? Saul è pieno di flashback. Scena II arriva Gionata, figlio di Saul, amico di David (anche qua tema dell’amicizia). I due dopo qualche battuta si riconoscono, Gionata riconosce la sua voce, si ha una sorta di riconoscimento. Conosciamo il pregresso non dal coro ne dal prologo ma dai dialoghi dei personaggi scopriamo cose che sono successe prima. Gionata chiede come ha fatto a tornare, se non ha paura. Dice che lui ha visto la battaglia e vittima ingiusta dell’ira di Saul (come Carlo per Filippo), viene affermato lo statuto eroico di David, ha un richiamo verso la patria che, nonostante lui sia stato cacciato, è in pericolo; sente il richiamo di tornare. Gionata lo chiama “L’eletto di Dio” ciò genera invidia nel Saul che percepisce la sua vecchiaia e la giovinezza di David (giovane vs vecchio). C’è la perplessità del cuore umano, quando parla nella tragedia del parere. Questa perplessità Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 42 Vittorio Alfieri (Dio ha le orecchie di ferro). Viene introdotto in maniera sempre più pressante l’arrivo di David finché Abner non chiede a Saul di ritirarsi nelle sue stanze. Scena III, la scena inizia con l’entrata di David che risponde ad Abner con “La innocenza tranne” entrando in scena si nomina già innocente. Entra David e si sottomette subito a Saul, disposto a farsi tagliare la testa. Vr 218, tutte le battaglie conseguite da David sono battaglie che Dio voleva che vincesse. Diversamente da Saul la cui voce di Dio è lontana. David gli dice che si mette a disposizione per vincere il nemico per poi essere pronto a morire (al comando di Saul Abner ucciderà David). Fa come esempio parallelo la storia di Abramo e Isacco, e si racconta come Isacco e Saul può fare qualsiasi cosa come Abramo per Isacco. Saul riconosce il suo coraggio, è molto colpito, ma aggiunge un elemento: Saul vede David come nemico, ambizioso della corona e quindi trasferisce su David la paura della perdita del potere. Accusa David di essersi innalzato sopra di lui e di averlo disprezzato indossando i suoi abiti e rubandogli la luce “ti vestir mia luce”. David incolpa Abner di aver messo in cattiva luce se stesso agli occhi di Saul, ha insinuato questa idea nella sua anima, a volte cede ma ritorna perchè ha messo delle radici profonde. David viene raccontato come un traditore da Abner. Vr 306, ricordi dell’esilio, David si difende facendo riferimento a una prova di fedeltà che lui ha dato al Re. Nel passato ha avuto l’occasione di uccidere Saul e senza che nessuno lo fermasse non l’ha fatto. Prova che non cospira alle sue spalle e quindi non è un traditore. Mentre Saul dormiva, David avrebbe potuto ucciderlo e quindi salvarsi. Accusa anche Abner che in quel momento non era li a proteggerlo, ha mancato il suo dovere. Qui Saul sembra quasi convinto da David. ATTO III, scontro tra David e Abner. Abner parla di strategie di guerra e David le condivide. Scena molto dettagliata dal vr 17- 44, piano strategico molto dettagliato. David riconosce la preparazione del suo nemico e vi è un rimbalzo di chi deve stare a capo, è comunque un colloquio sereno. Scena II, David riserva dei dubbi su Abner e continua a non fidarsi di lui, ha paura che stia tramando qualcosa. David inizia a sospettare che Abner lo voglia mettere a capo dell’esercito così Saul potrebbe intendere questa mossa come atto di superiorità di David Scena III, Micol racconta all’amato di aver incontrato Saul e averlo visto diverso, mutato. Non è più ben disposto come lo era prima, lo ha visto preoccupato, non più ben disposto. L’unica preoccupazione di David è quella di vincere e allo stesso tempo di fuggire poiché Saul ordinerà la sua morte (il destino di David è quello di essere un fuggitivo e di non avere eredi). Micol si rifiuta di lasciare David. Vr 124- 128, Micol ha paura che la vittoria della battaglia possa essere rovinata da Abner e si comprende, nuovamente, che Saul ha mutato l’atteggiamento verso David. Scena IV, Saul entra, salutato dai figli, ma inizia il DELIRIO, non riconosce le persone, nemmeno i figli. Il gioco della luce e delle ombre è fondamentale in queste tragedie. Saul sembra come aver venduto la sua anima a Satana, Micol infatti dice che dovrebbe essere felice di vedere David. Inizia un interrogatorio di Saul nei confronti di David che è intimorito, gli chiede se ama la casa e la sua famiglia, David gli risponde di si. David fa un atto di modestia, come risposta non gli dice di essere coraggioso ma di non essere un vile, e nomina Dio per glorificarlo. Saul sovrappone l’immagine fantasmatica di Samuele a quella di David che insinua che la spada che ha non è quella che lui stesso gli ha dato e ha come risposta che quella spada è quella di Golia, campanello d’allarme per Saul che dice che quella spada dovrebbe essere nella tomba di Golia. David conferma che doveva essere così, ma quando lui fu costretto a scappare tra morte e pericolo, fu costretto a scendere nel tabernacolo di Golia e prendere la spada, dopo averla chiesta al sacerdote. Il sacerdote è Achimelec ( sacerdote del santuario di Nob, città santa degli ebrei) e Saul delira di rabbia. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 45 Vittorio Alfieri Vr 225, Saul si definisce vecchio cadente, non si fida di nessuno anzi insinua che anche i figli vogliano la corona. Si sente accerchiato, tradito e arriva a chiedere la morte; Micol cerca di rasserenarlo finché Gionata introduce la nuova qualità di David: essere un CANTORE, capace di suonare e cantare in base a una melodia intonata creando effetti gioiosi nell’anima del Re, a portarlo alla ragione. Da qui cambia il sistema metrico della tragedia ENDECASILLABO —> TERZINE, quasi come un melodramma di Metastasio, come fosse metateatro perchè David mette in scena una poesia cantata della tipica poesia ebraica dove ogni pezzo è a sé e corrisponde a un metro differente. Quando David inizia a cantare nel vr 247, Alfieri inserisce una didascalia, delle note. c’è sempre l’idea ricorrente che sia Dio a cantare per mezzo di David. La nota ci comunica che chi recita queste parti debba essere un cantore per evitare gorgheggi altrimenti ogni stanza cantata dovrà essere seguita da una breve musica (attenzione alla resa scenica). David inizia a cantare, usa termini in un climax ascendente e nomina tanti altri elementi biblici, Saul sembra nostalgico ma il suo animo è sempre accompagnato da questa DUALITÀ. Vr 394 David fa una specie di visione e commette un errore cantando di sé stesso. Saul chiede chi è che si sta vantando. David gli dice “Misero re”, Micol gli intima di scappare perché la decisione di uccidere David è ormai stata presa. ATTO IV, 3 nuclei principali: Saul pretende che venga rintracciato David, Saul è sempre in preda alla perplessità (oscillante tra sentimenti contrastanti); si manifesta il problema della successione al trono; fa una comparsa il sacerdote Achimelec. Questo atto è fondamentale per comprendere il tratto politico della tragedia. Scena I, Micol dice a Gionata di aver nascosto David; Scena II, Saul chiede di trovare David, si intensifica il delirio, il re lo vuole uccidere; Scena III, Gionata prende le difese di David e subentra il tema della successione tra lui e il padre, dicendo a Gionata che se David muore sarà lui l’erede. Gionata mostra la fedeltà nei confronti di David e ammette che egli è superiore a lui in tutto, anche nel governare. In più è Dio ad averlo scelto come futuro Re. Saul ritorna su un argomento introdotto inizialmente da Abner, l’uso strumentale di David da parte dei sacerdoti. Nel vr 42 Saul spiega i travagliati rapporti con David. Anche se a un certo punto si sente un sentimento d’amore ma viene poi ricoperto da un sentimento feroce, lo vuole morto. Questi sono elementi apparentemente antitetici, da un lato lo vuole uccidere e dall’altro lo disarma. Prova dei sentimenti contrastanti: inferiorità nei suoi confronti e voglia di vederlo morto. Interpreta questa sensazione come una punizione della man sovrana, di Dio “Ora inizio a conoscerti tremenda mano”. Seguono delle interrogative in cui Saul si chiede le ragioni del suo sentimento, se lui non ha mai offeso Dio questa deve essere una punizione dei sacerdoti, disgiunge il rapporto di sacerdote come portatore della voce divina. “Implacabil veglio”, si riferisce o a sé stesso o a Samuele, dice che David è strumento di Samuele e dubita che l’olio di Dio versato sulla nemica testa (la testa di David) non sia stato versato da Samuele. Gionata risponde che è seguace della ragione, ma dovrebbe essere offeso più lui di Saul in quanto il sacerdote ha scelto David e non Gionata che non è il figlio. Risposta provocatoria orche lui è molto amico di David, se lui non si lamenta perchè dovrebbe farlo qualcun altro? Dio ha scelto il più degno e superiore come successore. Anche Samuele, vecchio e vicino alla morte, non si sarebbe curato di tale faccenda se non mosso dalla voce di Dio. Vr 95, questi versi rappresentano l’importanza della politica nel Saul, il padre che uccide il figlio, i fratelli si uccidono, dinamiche di vendetta e gelosia nella storia, nella vita e nella stessa Bibbia. Non importa se c’è amore o virtù, gira attorno a un fatto politico. Gionata dice che ne le minacce ne le preghiere possono placare l’ira di Dio, l’uomo è inerme di fronte ad esso (Dio del Vecchio Testamento). Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 46 Vittorio Alfieri Scena IV, arrivo di Achimelec, Abner è incaricato di trovare e uccidere David. Era nascosto nella tribù dei Beniamiti, la stessa di Saul e gli chiede la ragione della sua presenza, sospetta. Saul sembra riconoscerlo, di far parte di uno di quei sacerdoti menzogneri e superbi dei profeti di Rama. Achimelec evidenzia che lui è rimasto fedele a Dio, a differenza di Saul. Quest’ultimo tratta il sacerdote come un traditore. Ricorda chi è veramente David a Saul che sembra averlo dimenticato, con una serie di interrogative spiega chi è veramente David. Anzi anche Achimelec è colpevole di aver consegnato a David la spada. Viene messo nel discorso Agag, sovrano degli Amaleciti, sconfitto da Saul e racconta che lo stesso Samuele ha fatto trucidare un re vinto, inerme nel modo più orribile (con la spada nel petto 3 volte). Il rimprovero è un qualcosa di antico, nelle battaglie non è sempre necessario uccidere chi si è vinto, lo si portava nella città; i sacerdoti inoltre accoglievano molti giovani, come David, macchiati di superbia nei confronti del re. Achimelec riconduce Saul al suo stato di mortale, con i piedi per terra “Chi è Re se non Dio. Re sei sulla terra”. La sua vita dipende dalla volontà divina, lui tornerà allo stato di polvere ; “Trema Saul”, sa che la vendetta di Dio sta per arrivare sulla terra. Lo ripete “Trema Saul” alla morte ti spinge costui. Achimelec getta la colpa del delirio di Saul su Abner che lo ha reso un bambino, una marionetta. La casa di Saul è fondata sul niente, non ha fondamento ed è previsto che crolli. Saul risponde a queste battute dicendo che non è un bravo profeta in quanto sta per morire, ordina di uccidere Achimelec. Saul estende la sua vendetta ai figli di Achimelec, quest’ultimo, morente predice la morte di Abner, che morirà non di ostile spada, non in battaglia, lascia un alone di mistero. Achimelec ha svolto la sua funzione ovvero di comunicare a Saul che la verità è Dio, e lui ha scelto David. Scena V, Gionata cerca di chiamare Saul di ritornare sui suoi passi, ma nulla vale. Si ha un delirio di Saul che dice ai figli che lo tradiscono, il re rimane così solo, ammettendo la sua fragilità e le sue paranoie. ATTO V, David e Micol di incontrano e si salutano, lei gli propone la fuga, non pensa alla guerra, ne alla vittoria contro i filistei, ma vuole solo scappare con l’amato per vivere insieme. Vr 13, “Io vo’ restar”, David non vuole scappare ma Micol le annuncia la morte di Achimelec, come esempio del delirio di Saul, anzi se David combattesse sarebbero i suoi stessi compagni a ucciderlo. Micol pensa alla morte del padre, se fosse così non ci sarebbero problemi nello stare con David; dopo si smentisce dicendo che può continuare a vivere con un padre così crudele a patto di stare con l’amato. David da un lato è addolorato di lasciare la battaglia ma dall’altro ammette che sarebbe meglio non scendere in campo. David scappa senza Micol, esce di scena, sembra un’uscita da codardo, dice a Micol di rimanere con il padre consolandolo nel suo dolore e delirio. Ricorda infatti che prima di essere moglie è figlia. Appena arriverà in salvo le farà arrivare notizia per poi ricongiungersi, le prega di restare. Scena II, Alfieri scrive i dubbi di Micol, punti di sospensione, interrogative, esclamative, frasi interrotte. “Del crudo padre al fianco più non rimango”, decide di seguire David, ma poi si convince del contrario, se segue David lo uccideranno. Viene distratta da dei rumori che provengono dal campo, ha dei dubbi che la sua famiglia sia in pericolo, l’idea di pericolo è sempre più vicina. Scena III, entra Saul che è totalmente impazzito, viene seguito da dei fantasmi, confonde la figlia con il morto sacerdote Samuele, ombra adirata. Inizia a desiderare di morire, è cosciente del delirio. Micol lo tranquillizza, Saul chiede al fantasma di Samuele di togliergli la corona e indossarla, è lui stesso ad averla posata sul capo del Re. Vuole morire, liberato dal potere della corona. Micol si rende conto del crescente delirio del padre, continua a parlare Micol come se fosse Samuele chiedendogli Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 47 Vittorio Alfieri regno e della convenienza del loro matrimonio. Il padre pensa che annullare il matrimonio significherebbe rompere un pazzo di nozze, Pereo e il padre potrebbero sdegnarsi e muovere guerra, ma la figlia conta di più. Tra le ragioni di stato e l’affetto naturale, preferisce la seconda. Ciniro commissiona la moglie di dire a Mirra che preferisce che non si sposi pur di vederla infelice. Il Re andrà da Pereo per capire i suoi sentimenti, tutti vogliono arrivare alla felicità di Mirra. [tema dell’amore nelle tragedie Settecentesche, si formalizza l’amore come amore e dovere o anche nel melodramma metastasiano. Anche in questo caso vi è sempre un conflitto che non viene risolto in maniera tragica e funesta, ma risolto in modo pacifico. Nel caso di Alfieri viene eliminata questa preminenza della trattazione amorosa, o viene totalmente eliminata o trattazione originale di contrasto tra gli affetti, ma un contrasto tutto interno. ATTO II, Ciniro incontra Pereo, nel vr 27, Ciniro oltre a fare dei complimenti, dice che si rivolgerà a lui come se fosse suo figlio, gli chiede se è ricambiato. Egli risponde ma iniziano i punti di sospensione, io nulla celarti debbo. Riamarmi forse Mirra lo vorrebbe ma far non possa. In questa frase abbiamo tutto il contrasto di Mirra, vorrebbe riamarmi ma sembra che non possa. Non riesce a spiegarsi il contegno di Mirra, c’è un problema, oltre sl contegno, non si avvicina, non lo tocca, diventa pallida e non lo guarda mai. “Dubbi interrotti pochi accenti”, sono parole gelide, l’anima è sepolta in un dolore di doglia orrenda, quindi molto profonda. Una donna che si avvicina tremante, le cose che gli dice sono felice, gli occhi pieni di pianto: modi fisici per dimostrare che qualcuno non ama qualcun altro. Alcune volte gli dice che lo vuole come sposo ma il giorno dopo nega, soffre del fatto di non poter amare Pereo, per motivi più forti di lei. O si scioglie il patto o si ucciderà. Sono giunti entrambi al giorno delle nozze infelici ma per motivi diversi: lei perché è obbligata ad amarlo e lui perchè lei non l’ama. Anche Pereo ne soffre, Ciniro ha il dubbio che Mirra possa essersi pensata e che l’abbia scelto solo per i genitori. Anche Ciniro divide con Pereo il dolore di un innamorato, come padre. Alfieri sottolinea che se Mirra è infelice per colpa di Ciniro allora indirettamente fa riferimento al vero motivo: un amore incestuoso “S’ella infelice per mia cagion mi fosse!”. Pereo dice che Mirra, essendo il giorno delle nozze, deve decidere, accetterà le nozze cancellate e la sofferenza pur di vederla felice. Scena II, entra Mirra, preannunciata dal padre nella scena prima. Lei è riluttante di rimanere sola nella stanza con lui. Pereo le dice che vuole la verità e il motivo del suo dolore. “Disdegno e morte il tuo silenzio spira”, il tuo silenzio comunica sdegno e morte, mi rifiuti ma non osi dirlo. Pereo le dice che andrà via ma vuole capire la sua colpa. Lei dice che il suo troppo amore verso di me dipinge il mio dolore più grave di quello che è, tutto lo spinge oltre il vero. La risposta è raggelante, ascolta qualcosa che non le piace, frutto di fantasia e sta zitta, tanto non sono vere. Dice che è pronta a sposarsi. Mirra sembra accusare Pereo, dice che sue domande sulla tristezza di Mirra, senza capirne l’origine, non fanno altro che aumentare la tristezza stessa. Anzi la tristezza fa parte della natura. Pereo le comincia che può sentirsi disciolta dalla promessa di matrimonio, nonostante le risposte gelide di Mirra, Pereo da una risposta sentita. Nessuno la costringe a continuare le nozze, tranne una falsa vergogna. Lei è nemica di sé stessa. Mirra sta cercando di accusare Pereo, “ma come lieta io possa parea se tu non sei soddisfatto mai” hai sempre bisogno di una testimonianza del mio amore. Mirra dice a Pereo che la ragione risiede nel fatto che deve allontanarsi dai genitori sposandosi, quindi sposandosi deve andare a vivere con Pereo e forse non vederli mai più. Ignoto regno : Epiro. Inizia un’azione di occultamento, se tutti vanno alla ricerca delle ragioni del dolore di Mirra, il suo compito è quello di soppiantare le ricerche con altre ragioni false. Per questo dice che probabilmente il dolore è nel dover Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 50 Vittorio Alfieri andare via. Dice che ha scelto lui spontaneamente “io sopra tutti stimo te, nessun cosa potrei nasconde a te se prima non la nascondessi a me stessa”. L’unica soluzione è non parlare della sua tristezza, solo così passerà, gli dice tante cose ma mai che lo ama. Gli dice anche che è decisa a sposarsi e dopi andarsene. Pereo le chiede il perchè di tanta fretta dati che è una grande sofferenza per lei lasciare la patria. Pereo dice che non vuole essere strumento della sua morte ma preferirebbe essere motivo della sua stessa morte (effettivo destino di Pereo). Pereo dopo il colloquio con Mirra le propone un aut aut , o va dai suoi genitori per proporre un mezzo che possa sottrarla dalle nozze oppure se decide di rimanere con Pereo deciderà di morire e si ucciderà perchè non può stare con una donna che lo odia. Scena III, Pereo da un aut aut a Mirra. Questa scena è di preparazione della quarta scena che è il confronto tra Euriclea e Mirra. In questo dialogo c’è una sorta di meta teatralità in cui i personaggi, nascosti, vedono altri personaggi. Euriclea vede Mirra angosciata e oppressa (vr 233). Scena IV, Mirra si abbandona a un pianto contenuto con Euriclea, si abbandona ai suoi sentimenti. Vr 243, dopo che Euriclea le chiese se è ancora decisa delle nozze, Mirra da risposte ambigue, “se il dolore prima non mi ucciderà” questa consapevolezza implicita allude a qualcosa di sconosciuto. La motivazione di questo dolore sono le furie d’amore, le squarciano il petto ma sono furie d’amore= dee della vendetta e dei rimorsi, indicano il tormento amoroso nell’animo della protagonista. Tutto gira intorno all’ambiguità della parola amore. Inizia da qui il percorso di Mirra che le fa avvenire le parole degli altri personaggi riferite all’amore come un sospetto nei suoi confronti per questa sua innocente colpa, l’amore del padre. Fuoriesce così un elemento: Euriclea non ha detto in modo esplicito questa sua convinzione (delle furie amorose) a Cecri; Mirra ha paura che la madre possa scoprirlo. Inizia ad avvertire dei sospetti. Si fa sempre più riferimento all’episodio di Venere. Euriclea dice che l’unico dolore che può colpire una ragazza come Mirra è l’amore e se esso fosse solo amore ci sarebbe un rimedio; aveva fatto visita all’altare di Venere e pronunciato il suo nome per pregare che questo dolore scomparisse da lei. Mirra sempre più timorosa. Si sente inoltre abbandonata dagli dei avendo violato la condotta morale “abbandonata io son dai Numi; aperto è il mio petto all’Erinni” (dee della vendetta le quali avevano il compito di perseguitare chi si era reso colpevole di violazione dell’ordine morale, soprattutto nei rapporti familiari). È disperata a tal punto da chiedere a Euriclea nel vr 295 di darle la morte, per essere liberata dal dolore ma anche per poter morire innocente, dato che nessuno sa che è rea. La nutrice è sconvolta e Mirra lo interpreta come un gesto di mancato amore, le rinfaccia che da piccola le insegnava che l’uomo deve anteporre la morte all’infamia (morire con una degna reputazione). La scena si conclude nell’accettazione delle nozze e una fuga dagli occhi dei genitori. La richiesta d’aiuto permane e le chiede di accettare la sua scelta onorevole di sposare Pereo. ATTO III, colloquio tra i due sovrani che incarnano però il ruolo di buoni genitori, la madre teme il mancato amore di Mirra nei confronti dello sposo. Sposandolo corre in “infallibil morte”, anche qui ironia, la nomina della morte che sposandolo o meno avverrà. Entra Mirra e i genitori le chiedono cosa possono fare per togliere questo suo dolore. Cinico è aperto sia a rispettarla nel suo silenzio sia ad ascoltarla, cerca di facilitare le scelte della figlia, sono aperti a qualsiasi soluzione da lei proposta. Se vuole può non sposarsi, anche Pereo può sciogliere le nozze, anzi se questa scelta è fatta con un’analisi precisa si mostra ancora più intelligente. Viene enfatizzata l’innocenza di Mirra, in alcuni tratti i genitori si abbassano da figure genitoriali a sorelle e fratelli, alla pari di Mirra, per far si che sveli il suo malessere. Iniziano qui le domande inquietanti di Mirra, a sé stessa e ai genitori. Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 51 Vittorio Alfieri Cinico sostiene che Mirra stia usando un linguaggio diverso da quello del cuore, e Mirra si rivolge al padre chiamandolo signor, non padre. “a te non sono signor; padre son io”. L’”ultimo sforzo” che cita nel vr 164 è un auto incoraggiamento a dire la verità, cosa che non avviene perchè inizia a tremare, a star male. Mirra fa riferimento a questa sua non consapevolezza del suo dolore che l’ha colta prima della scelta del suo dolore, fa riferimento anche di un nume, Venere, che la possiede e tende a rimarcare un elemento esterno che rende Mirra colpevole e impotente. Spiega che è un dolore che va oltre il dolore naturale; la tristezza è cresciuta di giorno in giorno; ha il corpo debole contro questa forza; l’unico rimedio è la MORTE. Più il giorno delle nozze si avvicina più le furie dentro di lei si adiravano e quindi disse a Pereo di andarsene. Chi prova rabbia non è lei ma le furie che continuano a soggiogarla e renderla inerme, oggi lei si sposerà e questo giorno sarà il giorno di morte. Nozze = nozze di morte. Cinico dice che lei Pereo non lo ama quindi non deve sposarlo. Mirra dice che si non lo ama ma lo stima, non è colpa sua se non lo ama al pari di quanto lui ama Mirra. Vr 145 parla contemporaneamente di nozze e morte. Lei chiede se i genitori acconsentono il suo allontanamento dalla Reggia il giorno successivo, nel vr 155-156 Cecri capisce che qualcosa non va. Il destino la chiama nella Reggia in Epiro. Dal vr 190 viene inserita una premunizione funesta, “concedete che le vele Pereo meno dispieghi”. I genitori acconsentono e preparano le nozze. Scena III, Ciniro insiste l’inesistenza che assoggetta la figlia. Sembra essere posseduta da una forza sovrumana esterna. Cecri gli rivela una cosa mai detta prima: la vendetta di Venere. Vr 236, avendo spostato un marito meraviglioso e una figlia altrettanto meravigliosa non aveva fatto più sacrifici a Venere, aveva pure detto che le persone si recano a Cipro più per la bellezza di Mirra che per quella di Venere. Da quel giorno Mirra è stata scelta dalla dea. Ciniro la rimprovera dicendo che se solo glielo avesse detto, lui, da padre innocente, sarebbe andato a parlare con la dea per placarla. La decisione di Mirra di fuggire assume un significato per i genitori: fugge per allontanare la vendetta di Venere. Scena IV, Pereo vuole interrompere le nozze perchè convinto che condurranno Mirra alla morte. Il padre dice che la figlia ora è convinta e che lei stessa non è consapevole del suo dolore e che come dimostrazione del suo amore vuole andarsene il giorno dopo le nozze (vr 298). Pereo è incerto perchè questa partenza rende lui elemento e strumento della sua stessa morte ma è felice che ella non lo odi. Ciniro conferma che la cerimonia presto si farà, non davanti a tutta la città di Cipro ma all’interno della reggia. ATTO IV, atto delle nozze, subentra il coro e tutti i suoi innesti sono fatti per celebrare il matrimonio, hanno un significato totalmente diverso per Mirra, fanno accelerare il processo di catastrofe. Nella prima scena Euriclea e Mirra si salutano prima della sua partenza. Scena II, arriva Pereo che mostra gioia in quanto convinto che Mirra non lo odi. Mirra glielo conferma e questa partenza potrebbe farla tornare come quella di prima. Andare via da Cipro può farle bene perchè è proprio questo posto che è stato testimone del suo pianto e forse causa stessa del suo dolore. Pereo deve avere pietà del suo stato, non sarà lungo questo momento ma lui non deve mai nominare il suo passato e la sua vita qui. Pereo accetta e nel vr 81 dimostra il suo amore dedicando tutta la sua vita a lei, e al suo dolore perchè a ciò lei lo ha scelto. I due si concordato a tal punto che Mirra, nel vr 100, dice che potrà innamorarsi di lui non appena la sua sofferenza finirà, l’amore metterà le fiamme nel suo cuore, “Amor sue fiamme porrammi in coro, tosto che sgombro ei l’abbia dal pianto appieno”. Lo definisce pure liberatore “te sol liberator mio vero”. Scena III, sacerdoti, coro di fanciulli, donzelle e vecchi, i genitore, il popolo, Mirra, Pereo e Euriclea. Inizia a parlare Ciniro seguito poi dal coro (come nel Saul, ove il coro non cantasse precederà ad ogni stanza una breve sinfonia). Si fa riferimento alle divinità Alessia Arbinolo, Univ. “La Sapienza” 52
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