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Vita e opere di Van Gogh con confronto con Antonio Ligabue, Appunti di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche

Vi è una descrizione dettagliata della vita, del pensiero artistico e delle opere principali di Vincent Van Gogh. É presente una biografia di colui che viene chiamato il “Van Gogh” italiano, ovvero Antonio Ligabue.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 12/12/2020

Melissa0126
Melissa0126 🇮🇹

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9 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vita e opere di Van Gogh con confronto con Antonio Ligabue e più Appunti in PDF di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche solo su Docsity! Van Gogh (1853-1890) Vincent Van Gogh (1853-1890), pittore olandese, rappresenta il prototipo più famoso di artista maledetto, che identifica completamente la sua arte con la sua vita, vivendo l’una e l’altra con profonda drammaticità; di artista che vive la sua breve vita tormentato da enormi angosce ed ansie esistenziali, al punto di concludere tragicamente la sua vita suicidandosi. La consapevolezza di essere incompreso, l’ansia di capire se stesso e di trovare i modi attraverso cui esprimere la propria interiorità, la ricerca di un ben definito ruolo umano e professionale seguite dai suoi numerosi insuccessi, dai rifiuti, dall’isolamento, lo fecero piombare prima in una profonda depressione e, in un secondo tempo, lo condussero in una profonda alienazione mentale che gli procurava tremende crisi durante le quali perdeva ogni contatto con la realtà e che, ultimamente aggravatasi, lo portò al suicidio in un giorno di luglio del 1890. Nel luglio 1880, Van Gogh scriveva al fratello Theo, anche amico e confidente, più giovane di lui di quattro anni: <<Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c'è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c'è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe e dice a se stesso: "gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata", e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. "Ecco un fannullone" dice un altro uccello che passa di là, "quello è come uno che vive di rendita". Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Accessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. "Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!". Quel tipo di fannullone è come quell'uccello fannullone. E gli uomini si trovano spesso nell'impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile… Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede "Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l'eternità?". Sai tu ciò che fa sparire questa prigione?>> Vincent Van Gogh si sentì sempre un prigioniero (come l’uccellino della lettera), tuttavia a momenti di morte interiore si alternavano in lui anche periodi di esaltazione, di spensieratezza o di serenità in un bilanciamento di sentimenti e di sensazioni dell’equilibrio molto precario: “Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo”. Anche nei momenti di calma, spesso solo apparente, Van Gogh continuava a rimuginare sulla sua condizione (alla quale si ribellava), ma nessuno poteva accorgersene, così come nessuno capiva la smania di libertà dell’uccellino in gabbia che appariva calmo e spesso cinguettante. Lui non era compreso dalla società di quel periodo infatti tutte le sue opere sono rivolte alla generazione futura. Van Gogh nacque a Groot Zundert (Olanda) il 30 marzo 1853 da una modesta famiglia nella quale il padre era un rigido pastore protestante. I sui studi furono sempre molto incostanti e, nel 1880 divenne predicatore, vivendo in villaggi di minatori a Borinage, una regione mineraria del Belgio meridionale. Qui, prese talmente a cuore le sorti dei lavoratori, anche in occasione di scioperi, da essere considerato dalle gerarchie ecclesiastiche socialmente pericoloso (viveva troppo da povero tra i poveri). Fu quindi licenziato. Crebbe la sua crisi interiore che lo portò a vivere una vita sempre più tormentata. In questo periodo, era il 1880 e Van Gogh aveva solo 27 anni, iniziò a dipingere. La sua attività di pittore è durata solo dieci anni, essendo egli morto a 37 anni nel 1890. Nel 1880 si recò a Bruxelles e studiò anatomia e seguì corsi di disegno prospettico. A l’Aia, prese lezioni di pittura. Nel 1883 convinto dal fratello, si trasferì nel nord dell’Olanda, dove dipinge la dura vita dei contadini. Intanto sviluppava un intenso legame con il fratello Theo, che molto lo sostenne nella sua attività artistica anche da un punto di vista economico. Nei dieci anni che ha fatto il pittore Van Gogh è riuscito solo una volta a vendere un suo quadro. all'ottimizzazione degli intenti di Van Gogh che, nell'estate del 1888, cercava di risparmiare sul colore e sulla tela per poterne disporre in abbondanza quando si fosse concretizzato il suo desiderio di creare una comunità di artisti sotto il sole caldo del Meridione. MANGIATORI DI PATATE: Il primo capolavoro eseguito da Vincent Van Gogh fu I mangiatori di patate, dipinto nel 1885 quando il pittore si trova nella piccola città di Nuenen, nella regione del Brabante meridionale dove il padre dell’artista svolgeva la propria attività pastorale. Qui gli abitanti sono soprattutto contadini ed agricoltori, e le condizioni di vita sono pessime. La vita è scandita unicamente dal duro lavoro e le ricompense sono minime. Colpito da questa situazione, Vincent decide di far conoscere a tutti l’angosciante difficoltà in cui vivono i contadini di Nuenen, mostrando uno dei momenti più importanti e nel contempo, più intimi: la cena. Nella scena viene ritratta una cena a base di patate di una famiglia del luogo, tutti raccolti attorno ad una tavola grande abbastanza da permettere a tutti i membri della famiglia di sedersi. Nella parte centrale della tela di Vincent Van Gogh i mangiatori di patate, c’è una piccola luce ad olio che rende la scena meno oscura, permettendoci di apprezzare da vicino i dettagli ed i duri lineamenti dei vari protagonisti. Ognuno di loro ha un’espressione triste e provata soprattutto dal duro lavoro nei campi: Vincent però, non si limita a rappresentare i protagonisti stanchi, anzi, esalta ancor di più questa loro fatica rendendo le loro espressioni ancora più dure, quasi al limite del grottesco. Il bel chiaroscuro che c’è in questo quadro dimostra che Van Gogh, fin dall’inizio della propria carriera già conosceva gli elementi basilari dello stile di altri pittori, come ad esempio di Rembrandt, un pittore olandese del ‘600 al quale si richiama ripetutamente in molte delle sue opere. La piccola stanzetta in cui sono seduti i protagonisti è scarsamente illuminata dalla piccola lampada, ma se guardi con attenzione il piatto di patate a cui l’uomo si sta avvicinando, il suo colore è acceso e molto luminoso, quasi come se fosse questa la fonte di luce dell’opera e l’oggetto più importante attorno a cui ruotano i protagonisti (patate che hanno seminato e raccolto gli stessi protagonisti del quadro). Sulla destra, una donna, in posizione curva e visibilmente stanca, sta versando del caffè per tutti gli altri, mentre accanto a lei (a sinistra) c’è suo marito, il nonno della famiglia. L’unica di cui non si vede il volto è la bambina; non è un particolare di poco conto: prima ti ho detto che le espressioni di ogni protagonista è stata esageratamente esaltata, rendendo i volti delle donne e degli uomini quasi irriconoscibili. Vincent, non mostrandoci (e non modificando) la faccia della bambina è quasi come se volesse “salvarla” da questa vita di stenti e di difficoltà, non capacitandosi di come una ragazza così giovane potesse avere davanti a se un percorso estremamente duro. Il pittore dipinge questa scena utilizzando i colori della terra, ovvero il marrone, il nero, il giallo e delle tonalità simili (monocromatico= Caratterizzato dall'impiego o dalla presenza di colori simili), donando al quadro un “sapore” rustico e nel contempo triste e duro. L’unica eccezione viene fatta per la camicia blu indossata dall’uomo sulla sinistra, che illuminata dalla lampada, risalta rispetto ai vestiti marroni degli altri membri della famiglia. La semplice armonia dell’interno con la messa a nudo della povertà, mostra un Van Gogh compassionevole e disposto ad affrontare i temi sociali più impressionanti, pronto a descrivere pittoricamente la vita aspra e dura dei contadini così come, un tempo, aveva condiviso le fatiche e la sorte dei miniatori. Lo stesso dipinto rifletteva secondo l’artista un criterio di bellezza aderente al soggetto trattato, in base al quale la pittura deve esprimere anche con violenza le caratteristiche di quello che rappresenta, magari anche deformando la realtà. Van Gogh scrive al fratello: “Un contadino è più vero coi suoi abiti di fustagno tra i campi che quando va a messa la domenica con una sorta di abito da società.” (il quadro chiude la prima fase dell’artista). AUTORITRATTI: Il trasferimento a Parigi nel 1886 (inizia la seconda fase) e l’impatto con gli impressionisti e divisionisti rivelarono all’artista un mondo fatto soprattutto da colori e luce. L’istintiva empatia con i divisionisti fu la basa del nuovo modo di dipingere dell’artista olandese. Per Van Gogh gli autoritratti diventano un’occasione per sperimentare la prospettiva e la rappresentazione del proprio riflesso allo specchio, infatti, ciò che appare come la parte destra del suo volto è, in realtà, il lato sinistro come si presenta guardandosi allo specchio. Questi quadri non gli servirono soltanto come esercizio pittorico ma, al contrario, cercò di imprimere nella tela tutto il proprio malessere, cogliendo ogni volta diversi lati di sé e della propria personalità. Quindi, il celebrare la propria immagine e il proprio corpo non è più un modo per elevare la propria figura, ma è un esercizio terapeutico ed è proprio questa la migliore spiegazione per comprendere il perché di una serie così fitta di autorappresentazioni. L’Autoritratto con cappello di feltro, realizzato nell’estate 1887, è uno dei venti autoritratti che Van Gogh dipinse nel suo breve soggiorno parigino, avvenuto tra il 1886 e il 1887. Sembra che proprio durante questo periodo l’artista abbia affrontato questo tema per la prima volta, data la mancanza di autoritratti precedenti. In questo dipinto Van Gogh si ritrae con gli abiti di un tipico parigino: cappello, giacca e cravatta e con uno sguardo severo e attento che sembra essere proiettato su qualcosa che si trova davanti a sé. Dipinse questo quadro appena dopo l’incontro con gli impressionisti, che gli permise di avvicinarsi ad alcune nuove tecniche, come il divisionismo di Seurat che in questa opera riprende con alcune riformulazioni. A questo periodo risale inoltre, lo schiarimento della tavolozza e, quindi, il superamento del “periodo olandese”, caratterizzato da una gamma di colori scuri e terrosi, e l’apertura di una nuova fase in cui il colore comincia ad emergere fino ad affermarsi come protagonista dell’opera. I caratteristici colpi di pennello sono molto veloci e sicuri e determinano accostamenti decisi del colore. Le pennellate di Van Gogh sembrano dotate di vita propria, assumono direzione diverse dando un effetto dinamico e di consistenza ruvida. La fissità dello sguardo e l’apparente calma, comunicata dallo sguardo e dall’espressione del viso, contrastano con l’agitazione e il movimento delle pennellate. La voglia di sperimentare su di sé si può ulteriormente evincere dall’ Autoritratto dedicato a Paul Gaugin, realizzato nel 1888 ad Arles, durante la convivenza con il suo amico artista. In questo dipinto il suo volto è rappresentato con tratti somatici orientali, l’assenza di capelli rimanda all’essenzialità monacale e lo sfondo verde acceso si ricollega volutamente alle stampe giapponesi a cui Van Gogh si ispirava. Gli autoritatti in cui si scorge il bisogno ancora più profondo di introspezione sono quelli dipinti a Saint-Rémy, durante il suo periodo di reclusione, quando l’artista sceglie di rappresentare se stesso in mancanza di altri modelli. In questi dipinti Van Gogh pone al centro il suo sguardo intento a cercare quello dell’osservatore, sono gli occhi che rispecchiano l’anima di un uomo al quale è stata apposta sole appaiono confusi. Il cipresso è quasi l'aspirazione all'infinito, la forza della pace cercata, specchio dell'anima di Van Gogh. Il paesaggio, a prima vista idilliaco e riconciliante, in effetti parla anche un'altra lingua, quella potente delle visioni romantiche di una natura terribilmente grandiosa già cantata da Caspar David Friedrich. Le colline azzurre nella notte, trattate con linee ondulate e parallele, non hanno più il rassicurante aspetto di rilievi pettinati dal vento, indorati e scaldati dal sole (come in Renoir), ma sembrano minacciose acque dilavanti, di cui le curve de- gli ulivi sono le frange più avanzate e ribollenti. E il cielo, con occhiute stelle più o meno splendenti, pare percorso da pericolose e aggressive palle di fuoco trascinate nella corrente densa dello spazio, che si modella in onde titaniche e vorticose, come rispondendo a un'implacabile necessità. Loevgren ritiene che questa pittura rappresenti una sorta di assorbimento dell’artista da parte del cielo stellato, come se fosse una scena apocalittica; inoltre aggiunge che Van Gogh abbia potuto ispirarsi per questo quadro, ad uno dei sogni di San Giuseppe narrati nel libro della Genesi, nel Vecchio Testamento. Rimanendo sempre in tema di ispirazioni, c’è chi ritiene che Van Gogh abbia potuto attingere ai testi di Victor Hugo e di Jules Verne per dare vita a questa scena, richiamandosi a loro in particolare per una possibile vita ultraterrena su stelle o pianeti. Questo gruppo di stelle in movimento dipinte da Van Gogh, sono perfette per rappresentare il cosmo come un “essere vivente”; inoltre, questa accezione sinuosa che si percepisce in tutta la scena da quasi la sensazione che tutto sia in movimento. Le stelle sono le protagoniste indiscusse di questo capolavoro. Se ne sono accorti anche alcuni studiosi di astronomia, i quali hanno ipotizzato che questi “turbini” nell’aria possano rappresentare il vento, o, per essere più precisi, il Maestrale che soffiava spesso in Provenza, proprio dove si trovava Vincent. molti critici hanno pensato che la scena notturna con queste stelle giganti e luci forti possa essere stata “partorita” dai “blackout” mentali di cui Vincent soffriva periodicamente. Sono stati proprio questi “vuoti” a portarlo a vedere una scena molto lontana della realtà, ottenendo capolavoro senza precedenti. Guarda con attenzione i colori che il pittore usa. Le tonalità sono dure, violenti ed il contrasto è una situazione costantemente accentuata in questo lavoro. Le stelle, con colori caldi, sembrano quasi staccarsi dall’azzurro, il blu ed il violetto che caratterizza il cielo notturno. Sono proprio i colori caldi come il giallo, l’arancione ed il bianco a dare un “sapore” diverso a tutta la notte, mostrando colori completamente nuovi e molto lontani dai quadri di altri artisti contemporanei di Van Gogh. Le stelle, guardandole con calma sembrano quasi delle boe gettate in un gigantesco oceano notturno, in cui ci può quasi aggrappare. CAMPO DI GRANO E VOLO DI CORVI: questa tela è stata realizzata nel mese di luglio del 1890, proprio nelle ultime settimane di vita del pittore. Il progetto della tela di Van Gogh campo di grano con corvi, prima di raggiungere questo straordinario aspetto, ha richiesto molto tempo e studi da parte del pittore. È proprio in una lettera del 10 luglio 1890 indirizzata a Theo (e a sua moglie Jo Bonger) che Vincent scrive di aver completato 3 grandi tele dopo essere andato via da Parigi, il 6 Luglio (si era fermato nella grande città per fare visita proprio a suo fratello: “Ritornato qui mi sono sentito molto triste, e sento pesare su di me la tempesta che minaccia. […] Di solito cerco di essere di buon umore, ma anche la mia vita è attaccata ad un filo ed […] ho temuto di avervi spaventato di essere un peso per voi, ma la lettera di Jo mi dimostra chiaramente che capite che sono in pensiero ed in pena proprio come voi. […] Tornato qui, mi sono rimesso al lavoro, però il pennello mi cadeva quasi di mano, e sapendo ciò che volevo ho dipinto ancora 3 grandi quadri. Sono delle immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento assolutamente imbarazzato nel tentare di esprimere tristezza, e un’estrema solitudine.” Nella parte superiore della scena c’è un cielo nuvolo, inquietante e pronto a trasformarsi in una tempesta, in cui uno stormo di corvi sta volando in cerchio, sovrastando il grande campo di grano; la luminosità del cielo d’un azzurro profondo (occupa 1/3 della tela) e all’oro del grano (2/3) stanno per soccombere, vinti da un colore scuro che inesorabilmente li offusca e li copre. Uno strano senso di solitudine avvolge tutta la scena, e questo “disagio” è enfatizzato dal grande sentiero che si trova al centro del quadro. Questa strada, però, sembra non arrivare in nessuna direzione, e guardando anche i corvi che stanno poco più sopra, si ha la sensazione che si siano persi e che non stiano volando in tutte le direzioni, amplificando il senso di smarrimento. Questo volo di corvi (disegnati a forma d W), però, merita un’attenzione in più: guardando con più attenzione sembra quasi che si stiano man mano allontanando, portando con loro la negatività a cui tradizionalmente alludono (Turner, la sera del diluvio). Il ruolo dei corvi, quindi è molto più importante di quanto si possa pensare, ed in questo campo di grano con corvi Van Gogh, possono avere due significati diversi: o, come da tradizione, simboleggiano la morte, oppure, come in casi più rari, rappresentano la resurrezione (Van Gogh era molto religioso). L’ambiguità è uno degli elementi che ha contribuito a rendere quest’opera uno dei capolavori più celebri nella sterminata produzione dei quadri dell’artista olandese. Il campo di grano Van Gogh lo innalza (quasi) a ruolo di protagonista assoluto di tutta la tela, a tal punto da occupare i due terzi di tutta la superficie pittorica, e così vasto, sembra quasi in un mare in tempesta. Per molti questo lavoro racchiude un immenso senso di tristezza mescolato all’involontaria consapevolezza da parte di Vincent, della sua prossima morte. Il grande sentiero nel quadro è realizzato con un rosso, marrone e un verde. Si tratta di due colori molto importanti e che secondo alcuni esperti ricordano uno spezzone del romanzo “Il pellegrinaggio del cristiano” di John Bunyan. Nel libro di Bunyan, il protagonista è un pellegrino che parte per un lungo viaggio con destinazione la Città Eterna. Lo strano sentiero dipinto da Van Gogh assomiglia molto alla parte del racconto in cui il pellegrino, stanco e privo di speranze a causa del lungo cammino che è ancora ben lontano dalla fine, decide comunque di non mollare, perché sa che al termine di questo lungo viaggio, troverà la Città Eterna. Tornando ad analizzare il sentiero si può notare che non ci sia soltanto uno viale, ma che sia suddiviso in diversi sentieri più piccoli, i quali sono diretti ai due lati opposti del quadro. Molto probabilmente, più che dei veri sentieri da percorrere, queste strade terrose rappresentano i vari ostacoli mentali che Vincent ha dovuto affrontare nel corso della sua vita, cominciando dalla difficile e violenta litigata con Gauguin, fino a giungere al successivo ricovero all’ospedale psichiatrico di Saint-Remy. La grande strada centrale, è evidentemente diversa dagli altri sentieri minori, ma Antonio Ligabue nacque a Zurigo, in Svizzera, il 18 dicembre del 1899 da Maria Elisabetta Costa, originaria di Cencenighe Agordino (provincia di Belluno, Italia) e venne registrato all'anagrafe con il cognome della madre. Il 18 gennaio 1901 la madre si sposò con Bonfiglio Laccabue, che il 10 marzo successivo riconobbe il bambino dandogli il proprio cognome. Antonio, però, divenuto adulto, preferì essere chiamato Ligabue (presumibilmente per l'odio che nutriva verso Bonfiglio, da lui considerato come l'uxoricida della madre Elisabetta, morta tragicamente nel 1913 insieme a tre fratelli in seguito a un'intossicazione alimentare[2]). Già da piccolo Ligabue non visse mai con la sua vera famiglia: infatti, sin dal settembre del 1900, venne affidato a Johannes Valentin Göbel ed Elise Hanselmann, una coppia senza figli di svizzeri tedeschi, che l'artista considerò sempre come i propri genitori; in particolare, con Elise l'artista ebbe un legame profondo, sebbene travagliato. A causa delle disagiate condizioni economiche e culturali della famiglia adottiva, furono costretti a continui spostamenti dovuti alla precarietà del lavoro. Quindi, l'infanzia del giovane Antonio fu caratterizzata da grandi disagi, ai quali si univano le malattie di cui era affetto (il rachitismo e il gozzo), condizioni che risultarono nella compromissione dello sviluppo fisico, mentale e psichico del futuro artista. Il carattere difficile e instabile gli reca molti problemi di socializzazione e le difficoltà negli studi lo portarono a cambiare scuola varie volte: prima a San Gallo, poi a Tablat e infine a Marbach. Da quest'ultimo istituto, tuttavia, venne espulso dopo soli due anni, nel maggio del 1915, per cattiva condotta.[1] Nell'istituto, in ogni caso, Ligabue impara a leggere con una certa velocità, e pur non essendo capace in matematica e in ortografia, trova costante sollievo nel disegno. Ritornato nuovamente dalla famiglia adottiva, si trasferirono successivamente a Staad, dove condusse una vita piuttosto errabonda, lavorando saltuariamente come bracciante agricolo. Tra il gennaio e l'aprile del 1917, dopo una violenta crisi nervosa, fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico a Pfäfers. Dimesso, tornò nuovamente dalla famiglia adottiva, trasferitasi a Romanshorn, soggiornandovi però per brevi periodi, alternando i suoi rientri a casa con peregrinazioni senza meta, durante le quali lavorava come contadino o accudiva animali nelle fattorie. Nel 1919, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite, su denuncia della stessa, venne espulso dalla Svizzera. Venne inviato in Italia e il 9 agosto giunse a Gualtieri, luogo d'origine del padre Bonfiglio Laccabue. Tuttavia, non sapendo una parola di italiano, fuggì nel tentativo di rientrare in Svizzera, ma venne trovato e ricondotto a Gualtieri, dove visse grazie all'aiuto dell'Ospizio di mendicità Carri. Successivamente continuò, come faceva in Svizzera, a praticare una vita nomade, lavorando saltuariamente come manovale o bracciante presso le rive del Po. Proprio in quel periodo incominciò a dipingere. L'espressione artistica, infatti, dava sollievo alle sue ansie, mitigava le sue ossessioni e riempiva la sua solitudine. Ma fu solo nel 1928 che, grazie all'incontro con Renato Marino Mazzacurati, che ne comprese l'arte genuina e gli insegnò l'uso dei colori a olio, Ligabue giunse alla scelta di dedicarsi completamente alla pittura e alla scultura. Nel 1937 fu ricoverato nell'ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, a causa dei suoi stati maniaco-depressivi, che sfociavano talvolta in attacchi violenti autolesionistici o contro altri; in quest'ospedale ci tornerà altre due volte, dal 23 marzo 1940 al 16 maggio 1941 e dal 13 febbraio 1945 al 6 dicembre 1948. Dopo la sua seconda permanenza in ospedale, venne fatto dimettere dallo scultore Andrea Mozzali, che lo ospitò a casa sua a Guastalla. Durante la seconda guerra mondiale, fece da interprete alle truppe tedesche. Nel 1945, per aver percosso con una bottiglia un militare tedesco, dovette rientrare un'altra e ultima volta all'ospedale di Reggio Emilia. Uscito dall'ospedale, soggiornò alternativamente presso il ricovero di mendicità Carri di Gualtieri o in casa di amici. Sul finire degli anni quaranta, andò crescendo l'interesse della critica nei confronti delle sue opere. Nel 1957, Severo Boschi, firma de Il Resto del Carlino, e il fotocronista Aldo Ferrari gli fecero visita a Gualtieri: ne scaturì un servizio sul quotidiano con immagini tuttora celebri. Negli anni cinquanta ebbe inizio il periodo più prolifico per l'artista e, dopo la sua presenza in mostre collettive, presero avvio anche le prime mostre personali. Nel 1955, infatti, tenne la sua prima mostra personale a Gonzaga, in occasione della Fiera Millenaria. Nel 1961, invece, si procedette all'allestimento dell'esposizione alla Galleria La Barcaccia di Roma, che ne segna la consacrazione nazionale. Il 18 novembre 1962 l'artista fu colpito da una emiparesi e, dopo essere stato curato in diversi ospedali, trovò nuovamente ospitalità presso il ricovero Carri di Gualtieri, dove morì il 27 maggio 1965. Istintivo, selvaggio, folle: Antonio Ligabue era capace di trasportare i suoi demoni sulla tela, creando opere potenti, dall’immediato impatto visivo. Spesso si trattava di animali nell’attimo primo di lanciarsi sulla preda, a volte erano in lotta tra loro. Altro tema frequente nella poetica dell’artista è quello dell’autoritratto, che colpisce per la profondità dello sguardo con cui Ligabue rappresenta se stesso. Oltre che pittore, Antonio Ligabue è stato anche un bravissimo scultore. Creava le sue opere con l’argilla del Po, che masticava per renderla malleabile. Le prime opere purtroppo sono andate perdute, perché l’artista non era solito sottoporle al processo di cottura che le avrebbe rese più resistenti. Oggi, da molte delle sue opere sono state ottenute fusioni in bronzo, per preservarle dal tempo. Il 1961 fu l’anno del successo, con una grande personale alla Galleria La Barcaccia di Roma che conquistò critici, artisti e giornalisti e lo resero noto al pubblico internazionale. L’anno dopo però venne colpito da una grave paresi. Ciò tuttavia non gli impedì di dipingere fino alla sua morte, avvenuta nel 1965. La pittura di Antonio Ligabue privilegia l'interiorità e le emozioni che agitano l'animo dell'artista con immagini spesso particolarmente inquietanti e violente in cui emergono ritratti di animali feroci colti nel momento di lotta. I suoi quadri appaiono sovente amari e spigolosi, semplici e disperati, una fusione di memoria e creatività in cui si può cogliere il tormento di un uomo che sembra compenetrarsi in quegli animali per trovare il riscatto da un'esistenza molto dura , priva di affetti e afflitta da una lancinante solitudine . Una solitudine devastante che lo Vedova nera: All’interno della foresta un leopardo assale una scimmia mentre una vedova nera cala sul corpo della fiera. Il leopardo solleva le zampe posteriori e apre la bocca mettendo in mostra le zanne affilate. Sotto di lui intanto la scimmia è riversa sulla schiena e cerca di rispondere all’aggressione assumendo un’espressione minacciosa. Mentre si compie la lotta un grosso ragno nero cala sulla groppa del felino proprio sopra la coda. Sul fondo a sinistra intorno ad uno specchio d’acqua fugge un gruppo di antilopi forse spaventate dai versi dei due animali. A destra, sotto gli alberi si scorge invece uno scheletro umano che giace tra le foglie. Intorno ai due animali la natura è verde e lussureggiante e i grossi tronchi sono coperti da fronde di varie specie di vegetazione. Nel cielo infine la luna gialla compare tra le nuvole e si specchia sull’acqua in basso. Antonio Ligabue realizzò molte opere con soggetti naturali, soprattutto animali in lotta. Alcuni dipinti raffigurano animali da cortile che l’artista osservava nel suo quotidiano come in Lotta di galli. Altre volte l’immaginazione dell’artista correva a terre lontane e nei suoi dipinti compaiono belve feroci come in Tigre con serpente. Spesso erano gli abitanti dei boschi padani come Aquila con volpe. Ligabue firmava le sue opere ma non le datava. Quindi non è possibile sapere con precisione in quale anno ogni suo dipinto è stato realizzato. Inoltre la sua vita isolata ed errabonda non ha permesso agli studiosi di documentare esattamente il suo cammino creativo. Vedova nera è però considerato un lavoro del 1951. Appartiene quindi agli anni di maggior successo dell’artista che morì nel 1965 all’età di 66 anni. Ligabue creava le sue opere senza progettare un disegno d’insieme. Infatti spesso iniziava dalla testa dell’animale per poi procedere aggiungendo le altre parti del corpo. L’artista completava quindi l’opera con dettagli ambientali che adeguava al soggetto dipinto. Le opere appartenenti al periodo più noto dell’artista presentano però caratteristiche simili. I soggetti principali sono rappresentati in primo piano e occupano una grande superficie del dipinto. Presentano poi colori saturi e squillanti. Infine le forme sono sottolineate da una linea di contorno e in profondità da singole pennellate che semplificano le forme. L’artista utilizzava impasti di colore ad olio che spesso mesticava con le dita. Inoltre dipingeva su supporti industriale come la faesite, pannelli in fibra di legno assemblati con resine sintetiche. In primo piano dominano tinte calde come i marroni del terreno, il giallo e l’arancione del leopardo. Sullo sfondo invece la foresta e il cielo sono resi con tinte fredde come il verde delle foglie e diverse sfumature di blu. La scena è ambientata all’interno di uno spazio raccolto della foresta. A destra si addensa una macchia di grandi alberi mentre a sinistra si apre un paesaggio lacustre. Il dipinto è di forma rettangolare mentre l’inquadratura racchiude gli animali nel paesaggio. La composizione è organizzata con linee orizzontali a partire dalla disposizione del corpo del leopardo Autoritratto con sciarpa rossa: Antonio Ligabue si è rappresentato di tre quarti con il busto orientato a destra dell’osservatore. Il viso rivela la sua età matura e la fronte è segnata da cinque evidenti e profonde rughe parallele. Le guance sono scavate e coperte da una leggera barba che si allunga sul mento e scende in basso. L’artista porta anche un paio di corti baffi. Gli occhi sono segnati da profonde borse ma lo sguardo è attento sebbene un poco malinconico. Al collo porta una sciarpa rossa che rientra all’interno della giacca scura. Dietro alla figura dell’artista si coglie un paesaggio con montagne lontane e alcune piante. Infine, in alto vola una grande uccello, forse un rapace. Antonio Ligabue dipinse più di trecento autoritratti e molti di questi si differenziano grazie ad un dettaglio che accompagna l’opera. Nel caso dell’Autoritratto con sciarpa rossa infatti è l’evidente indumento che caratterizza l’immagine. Gli autoritratti inoltre risalgono agli anni Quaranta del Novecento. Negli anni Cinquanta poi l’artista maturò uno stile più definito con il quale realizzò le sue raffigurazioni più celebri. L’Autoritratto con sciarpa rossa risale proprio al 1956 quando l’artista aveva ormai 57 anni. L’anno precedente, nel 1955 Ligabue riuscì ad esporre le sue opere nella prima personale allestita a Gonzaga. Antonio Ligabue è considerato il più importante esponente italiano Naif del Novecento. Ligabue fece sempre riferimento alla sua memoria visiva. Infatti nei suoi dipinti si trovano immagini tratte dai ricordi che risalgono anche alla sua infanzia. Inoltre ebbe modo di osservare opere di vari artisti e da queste trasse ispirazione. Nel suo stile spontaneo e immediato si colgono infatti riferimenti alle opere di Vincent van Gogh, a quelle dei Fauves e degli Espressionisti tedeschi . I suoi soggetti preferiti furono gli animali colti anche in situazioni di conflitto. Rappresentò però anche tranquille scene di lavoro nei campi. Nell’Autoritratto, opera degli anni cinquanta, lo stile di Ligabue è pienamente maturo. I colori sono brillanti, la figura in primo piano è dettagliata e racchiusa da un contorno nero che la stacca dall’ambiente. I particolari dello sfondo sono invece rappresentati attraverso macchie di colore e sono dipinti in modo sommario. Negli autoritratti, numerosi a partire dagli anni Quaranta del Novecento, la posa è quasi sempre la stessa. Inoltre gli occhi sono sempre ben descritti e posti in evidenza. L’uso abbondante del colore nero e la spigolosità dei tratti avvicinano il dipinto alle opere del periodo espressionista. L’Autoritratto di Ligabue è caratterizzato da colori brillanti e caldi. Spicca fra tutti il colore rosso della sciarpa messo in evidenza dal nero della giacca che la circonda. L’incarnato presente nella fascia centrale del dipinto è ripreso dalla natura gialla dello sfondo. Infine in alto prevalgono i colori freddi del cielo. È evidente l’uso massiccio del nero che produce un effetto drammatico e appesantisce il ritratto. La figura di Antonio Ligabue si staglia contro un paesaggio tratteggiato molto semplicemente. La spazio infatti è descritto tramite quinte frontali e bidimensionali sovrapposte. Dietro il busto dell’artista è presente una fascia occupata da steli di erbe alte. Quindi si coglie la sagoma scura delle colline. L’Autoritratto di Antonio Ligabue è rettangolare e orientato in verticale. L’inquadratura incornicia la figura dell’artista con un taglio tradizionalmente riservato al ritratto. Lotta di galli: Due grossi galli si affrontano all’interno di un pollaio. I due polli sono dipinti di profilo e i loro becchi si toccano minacciosi. Quello di sinistra combatte con il collo abbassato. Quello di destra invece attacca dall’alto. Tutti e due inoltre abbassano e allargano le ali e alzano la coda assumendo un aspetto imponente. A terra, in primo piano sono già presenti alcune penne accanto alla ciotola con i chicchi di mais. Intorno ai due contendenti però le galline beccano tranquille a terra. Alcune si trovano all’interno del pollaio, altre invece sono all’esterno, sul prato. Attraverso l’apertura ad arco infatti si vede l’esterno con la casa colonica. Si intravede così un’ampia strada sterrata e la cascina a destra. Altre case infine si allineano oltre il fieno color arancio. Antonio Ligabue nel corso della sua carriera artistica affrontò diversi temi. Negli anni trenta e quaranta dipinse scene di vita delle campagne padane. Inoltre fu attratto
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