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VITA E OPERE VITTORIO ALFIERI, Dispense di Letteratura Italiana

Opere dettagliate di vittorio alfieri come DELLA TIRANNIDE, DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 03/09/2022

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vanessa-pace-1 🇮🇹

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7 documenti

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Scarica VITA E OPERE VITTORIO ALFIERI e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI PRESENTAZONE DELL’AUTORE Vittorio Alfieri nacque il 16 gennaio 1749 ad Asti e morì a Firenze l’8 ottobre 1803. Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche. Nato ad Asti, dunque, da famiglia nobile, dal 1758 al 1766 frequenta l’Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi d’Europa, con risultati mediocri (nell’autobiografia di questi anni l’Alfieri parlerà come di anni di “ingabbiamento” e di “ineducazione”). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell’esercito regio ed è assegnato al reggimento provinciale di Asti. Da questo momento comincia una lunga serie di viaggi: Alfieri passa da un paese all’altro (e da un amore all’altro) senza requie, visita prima l’Italia e poi l’Inghilterra, la Francia, la Prussia, l’Olanda, la Scandinavia. Questo continuo vagabondare termina nel 1775, l’anno della “conversione” alla letteratura: l’Alfieri torna a Torino, completa una prima tragedia, Cleopatra, e si dedica furiosamente allo studio. Il successo della rappresentazione di Cleopatra lo sprona a dedicarsi alla carriera di scrittore tragico; negli anni successivi scriverà le sue maggiori tragedie: Antigone, Filippo, Oreste, Saul, Maria Stuarda, Mirra, tra le altre. La tragedia è la forma artistica da lui prescelta perché la più adatta a rappresentare la sua concezione della vita basata sullo scontro tra oppressi ed oppressori, tra uomini eroici e tiranni, i quali non vanno intesi come simboli del potere assolutistico o di qualsiasi altro regime realmente esistente, ma rappresentano invece tutti quei limiti che impediscono la piena realizzazione dell’individualità umana. La libertà, che è il motivo trainante delle tragedie dell’Alfieri, non è una libertà politica, ma una libertà esistenziale. Risulta perciò chiaro come mai l’Alfieri scelga sempre personaggi già famosi, mitici, (Antigone, Saul, Bruto) per le sue opere e appare anche evidente la sua lontananza da quel “dramma borghese” che grazie a Diderot e Lessing trionfava in tutta Europa. Nel 1777 avviene un incontro fondamentale per la vita dell’Alfieri, conosce infatti Luisa Stolberg, contessa d’Albany, praticamente separata dal marito Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra. Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue irrequietezze amorose. L’anno successivo fa dono alla sorella di tutti i suoi beni, mantenendo per sé solo una rendita annua e dopo vari soggiorni si trasferisce a Firenze e poi a Siena, per apprendere l’uso del toscano che, per lui piemontese e perciò familiare all’uso del suo dialetto e del francese, era stata una lingua morta imparata sui libri. Gli anni che vanno dal 1775 al 1790 sono i più operosi della sua vita: oltre alle tragedie compone trattati (Della tirannide e Del principe e delle lettere) e la gran parte delle Rime. Nel 1786 si stabilisce con la fedele contessa a Parigi, dove assiste alla rivoluzione e la celebra in un’ode alla caduta della Bastiglia, Parigi sbastigliato. Gli sviluppi della rivoluzione però, probabilmente orientati verso forme troppo democratiche per l’Alfieri, lo deludono, come lo spaventano le manifestazioni della plebe, che non corrisponde certo al popolo da lui sognato nelle tragedie e nei trattati. Così fugge da Parigi nel 1792 e comincia, dopo la venuta dei francesi in Italia nel 1796, un’opera dai toni decisamente antifrancesi, il Misogallo. Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione delle Satire, di sei commedie, della seconda parte della Vita e di traduzioni dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli cinquantaquattro anni, muore assistito dalla Stolberg. La salma si trova nella chiesa di Santa Croce a Firenze.  All’interno di una narrazione si possono avere 3 tipi di focalizzazione: 1. FOCALIZZAZONE 0: Il narratore non si pone alcuna limitazione durante la narrazione; sa più di qualsiasi personaggio, e può addirittura intervenire con commenti. Il Narratore è Onnisciente 2. FOCALIZZAZIONE INTERNA: Il narratore presenta il racconto dalla prospettiva di un dato personaggio, si limita a raccontare solo ciò che il personaggio sta percependo. Narratore soggettivo 3. FOCALIZZAZIONE ESTERNA: Il narratore è esterno e sa meno dei personaggi, registra i fatti senza i fatti mentre accadono senza commentarli. Narratore è nascosto. L'anno successivo viene promosso alla cosiddetta Umanità, ovvero l'anno dedicato agli studi umanistici. Alfieri racconta di aver passato lunghe ore nella traduzione di Virgilio e di altre opere latine. Quello che lo sprona negli studi è, ancora una volta, la competitività con gli altri studenti. In particolare c'è uno studente bravo come o forse più di lui, con il quale si sente fortemente in gara. Tuttavia, questa ragazzo è bello e intelligente, e Alfieri in quanto amante del bello non può odiarlo veramente. Il ragazzo diventa anzi suo complice in alcune avventure giovanili. Per esempio Alfieri racconta di essersi procurato un'opera di Ariosto divisa in tre volumi. È certo di non averla né comprata, né rubata, bensì di aver barattato i libri con le sue porzioni di pollo della domenica. Il pollo è infatti la moneta con cui nel collegio i ragazzi si scambiano la merce per così dire scottante: l'opera stessa dell'Ariosto è per i due giovinetti un libro pieno di frasi oscure, quasi proibito, e una volta ritrovato dagli inservienti viene sequestrato e consegnato al rettore della scuola. GIOVINEZZA, CAPITOLO PRIMO: Primo viaggio. Milano, Firenze, Roma.  “partii per quel tanto sospirato viaggio.” Alfieri parla del suo primo viaggio in Italia con due amici. Con loro ci sono anche tre servitori, un aio (precettore) e anche Francesco Elia, un anziano ed esperto servitore del suo defunto zio.  “La prima stazione fu di circa quindici giorni in Milano. Avendo io già visto Genova due anni prima, ed essendo abituato al bellissimo locale di Torino, la topografia milanese non mi dovea, né potea piacer niente” La prima tappa del viaggio è Milano, che ad Alfieri non piace (svogliato e ignorante) in quanto molto più disordinata di Torino. Alla biblioteca ambrosiana gli viene dato anche un manoscritto di Petrarca, che però Alfieri riconosce di non aver punto apprezzato. Proseguono poi tra Parma e Mantova, due città che vengono visitate solo di sfuggita. La prima lunga tappa è Firenze dove trova interessante solo la tomba di Michelangelo perché capisce che i grandi avevano lasciato qualcosa di concreto dietro. Alfieri si vergogna perché, nonostante sia nella patria del toscano, preferisce imparare l'inglese (idea della ricchezza inglese vs. Italia morta) e inoltre continua a voler utilizzare la ridicola u alla francese di Torino. Crede sempre più nella sua perfezionata ignoranza in quanto parlava/pensava/leggeva sempre in francese ( -> misogallo). Il viaggio prosegue poi con brevi tappe a Lucca, Pisa, e Livorno: quest'ultima è la città che più piace all'autore, sia per la somiglianza con Torino, sia per il mare che per lui sempre un elemento affascinante. Si ferma anche a Siena e gli piace perché vera e parte per Roma, città di cui Alfieri apprezza molto poco, ad eccezione di alcuni elementi architettonici (San Pietro), forse per l'influenza dello zio architetto. L'autore rammenta come lo stupore dei suoi amici stranieri verso le meraviglie dell'Italia sia molto maggiori del suo (“Bisognava uscir dall’Italia per conoscere e apprezzar gli italiani”) Solo dopo i lunghi soggiorni all'estero ha saputo poi valorizzare l'Italia e gli italiani, e anche capito l'entusiasmo degli stranieri per ciò che vedevano sulla penisola. ADOLESCENZA, CAPITOLO SECONDO: Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dall’aio. Il viaggio prosegue verso Napoli. Nel tragitto Francesco Elia (viene portato da Alfieri come esempio di uomo coraggioso e con spirito) si rompe un braccio, e acquista ancora più ammirazione da parte di Alfieri in quanto riesce a risolvere da solo e prontamente anche questa situazione. A Napoli Alfieri si trova a disagio come in tutti gli altri luoghi in cui si è trovato in precedenza: egli riconosce infatti di ammirare di più il percorso fatto verso una meta e il fatto di essere lontano da casa rispetto a quanto visita. Tutti i viaggi non lo portano a nulla ma rimane insoddisfatto e malinconico. In questo momento Alfieri ha diciotto anni, e ancora non sa davvero cosa fare della sua vita; durante la visita alla corte napoletana gli viene consigliato di diventare un diplomatico; l'idea lo lusinga, ma non si mette mai veramente a tentare quella carriera. Allo stesso modo, non cerca nessun legame né amichevole, né amoroso, in quanto capisce che il suo solo interesse in quel momento è esplorare e rimanere il più possibile lontano da casa. C'è poi la riflessione sul carattere personale: l'autore riconosce di essere una persona che non fa il male di proposito, ed anche molto volenterosa, ma di avere sempre un disagio legato al fatto di non avere né un amore né uno scopo nella vita. Il capitolo si conclude con la partenza di Alfieri verso Venezia con Francesco Elia, mentre il suo precettore e gli amici restano a Napoli per tutto carnevale. Si libera dell'aio perché gli urtava la dipendenza da qualcuno. Egli viveva non conoscendosi, nessun impulso deciso a parte la malinconia, non sapendo quel che desiderava.  “Obbedendo ciecamente alla natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente; e soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch'era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da un qualche nobile lavoro; e ogniqualvolta l'una delle due cose mi mancò, io rimasi incapace dell'altra, e sazio e infastidito e oltre ogni dire angustiato.” Ci informa che la sua infelicità era causata dalla necessità di avere il cuore occupato dal degno amore e la mente del nobile lavoratore. VIRILITA’, CAPITOLO NONO Alfieri ci dice che tornato a Roma riprende i suoi studi (ovvero le sue opere ancora incompiute) -TERMINO’ DI VERSEGGIARE IL POLINCE -PROSEGUI’ L’ANTIGONE, LA VIRGINIA, L’AGAMENNONE, L’ORESTE, I PAZZI, IL GARZIA, IL TOLEMONE e per ultimo FILIPPO (quarta volta che provava a scriverlo). -COMPOSE LE LODI DELL’AMERICA LIBERA, durante le quali si mise a leggere le lodi di FILICAIA (poeta dell’epoca) e dopo ciò scrisse le sue 4 in 7 giorni ed anche se con piccoli cambiamenti sono poi rimaste come io le ho concepite.  “Tanta è la differenza (almeno per la mia penna) che passa tra il verseggiare in rima liricamente, o il far versi sciolti di dialogo”. Per lui c’è molta differenza tra il verseggiare e lo scrivere versi sciolti Nel 1782 si rese conto che avrebbe potuto concludere le sue tragedie (dato che erano già a buon punto), si ripromise di non superare le 12 tragedie ma non ci riuscì e così un giorno si trovò a leggere la MEROPE DI SCIPIONE MAFFEI, per capire se ne avrebbe tratto beneficio e si rese conto di quanta povertà teatrale ci fosse in Italia.  “E immediatamente mi si mostrò quasi un lampo altra tragedia dello stesso nome e fatto, assai piú semplice e calda e incalzante di quella.” Decise di scriverne una uguale ma più semplice e coinvolgente di quella precedente e dice che se fosse venuta veramente bene lo avrebbero potuto decidere solo coloro che sarebbero venuti dopo di lui e dunque i lettori. Continua a parlare della merope che non gli diede pace tanto da farla riscrivere ben 3 volte. Continua parlando del SAULLE e doveva essere l’ultima delle sue tragedie, la scrisse poiché in quell’anno era così pieno di fantasia che ne avrebbe potute fare altre 2.ù  “nello stendere la Merope e il Saulle mi facea tanto ribrezzo l'eccedere il numero che avea fissato, ch'io promisi a me stesso di non le verseggiare” Ribadisce di essersi prefissato un numero di versi da dover seguire sia per il SAULLE che MEROPE ma ciò fu invano poiché non ci riuscì. Composte le sue tragedie era felice di averle finite ma non soddisfatto di alcune, ma nonostante ciò riuscì ad esser felice poiché durante quell’anno ebbe moltissima fantasia da scriverne ben 14 e dunque fece un viaggio verso TERNI per vedere la cascata della quale aveva sentito parlare. Inizia a parlare della sua amata e di quanto ella pensasse che fosse un grande uomo ma anche se lui non si reputava tale cercava di diventarlo per lei. FINIRE DI LEGGERE CAPITOLO DECIMONONO Alfieri vive un periodo difficile e di tensione, in quanto con la Rivoluzione francese vede in pericolo sia i privilegi dei nobili, sia la sua pensione depositata presso il regno di Francia. Nel frattempo le tragedie vengono distribuite in Italia, dove hanno un certo successo; Alfieri spiega però ancora una volta di aver scritto poco e lentamente preferendo scrivere sempre il vero, che scrivere di più solo per avere maggior gloria e maggiori guadagni.  “Fu dunque immensa la mia soddisfazione, quando pure arrivò quel giorno, in cui finite, imballate, e spedite sí in Italia che altrove, furono le tanto sudate tragedie.” Lo stile deve essere rapido, conciso, essenziale. Le battute sono in prevalenza brevi, vi è la ricerca di estrema concisione. Nella Vita egli spiega che l’elaborazione di ogni tragedia si articolare in tre momenti fondamentali:  Ideare: consiste nell’ideare il soggetto della tragedia, nel distribuirlo schematicamente, in forma riassuntiva, in atti e in scene e nel fissare il numero dei personaggi, seguendo l’ispirazione;  Stendere: consiste nello scrivere per intero i dialoghi in prosa;  Verseggiare: significa stendere i dialoghi in versi, Alfieri usa l’endecasillabo sciolto, che con lui si afferma come il verso tragico per eccellenza. PARAFRASI ATTO V SCENA I Ecco l’ora è giunta. Agamennone giace immerso nel sonno...E non aprirà mai più gli occhi alla luce vitale! Questa mia destra, già a lui data come prova del mio casto amore e della mia fedeltà, sta ora per dare a lui la morte. Ho giurato tanto? Si, purtroppo, mi conviene agire... Devo andare. Il piede, il cuore, la mia mano... tremo tutta: Ahi me! Che ho promesso? Ah, vile, che sto facendo? Oh, come svanisce il coraggio in me, allo sparire di Egisto! Vedo solo l’immensa atrocità del mio orribile delitto. Io sola vedo l’ombra sanguinante di Atride... Ahi, vista! Invano ti attribuisco i delitti. Ah, no, tu non ami Cassandra!: ami solo me, più di quanto non merito. Non hai commesso alcun delitto al mondo che quello di essere mio consorte. Atride, oh, cielo! Tu, dalle braccia di un sonno sicuro, passi in braccio alla morte, per mano mia? Dove mi nascondo poi?... Oh, tradimento! Posso mai più sperare pace?...Quale vita orrenda di rimorsi, di lacrime e di rabbia! Lo stesso Egisto, si Egisto, come oserà giacere al fianco di una sposa parricida, in un letto sporco di sangue, e non tremare per sé? Lontano da me, ferro odioso, strumento orribile di ogni mio danno e del mio disonore. Perderò l’amante e la vita insieme: ma non avverrà che un tale eroe cada da me ucciso. Vivi onore della Grecia, terrore dell’Asia, vivi per la gloria, vivi per i figli cari e... per una consorte migliore. Ma , questi passi silenziosi? Chi viene in queste stanze, di notte?... Egisto?... Ahi me, sono perduta! SCENA EMBLEMATICA, nel testo di Alfieri Egisto spinge Clitemnestra all’uccisione di Agamennone, mentre nel testo greco è lui che si macchia del delitto. Alfieri ha voluto evidenziare la crisi che investe il personaggio della donna. Della Tirannide E’ stato scritto nel 1777, a 28 anni, è un uomo che porta a vanti le proprie idee. Già dalla struttura del testo si può notare la chiarezza di tutto il testo per riuscire a comunicare il proprio pensiero. Il testo si apre con un sonetto e si chiude con un sonetto. Della tirannide fa parte delle opere politiche di Alfieri, inizialmente Alfieri si preoccupa di definire la tirannide identificandola con ogni tipo di monarchia che pone il sovrano al di sopra delle leggi. Conduce una critica contro l'ideale settecentesco del dispotismo illuminato poiché secondo Alfieri le tirannidi moderate belando la brutalità del potere tendono ad addormentare i popoli quindi sono preferibili le tirannidi estreme, quelle oppressive perché con i loro abusi suscitano il malcontento dell'uomo libero provocando così l'insurrezione del popolo e portandolo alla conquista della libertà stessa. Lo scrittore voi passa a camminare le basi su cui si appoggia il potere tirannico: -1 la nobiltà che è uno strumento nelle mani del despota, -2 la cassata militare mediante la quale i sudditi sono oppressi -3 la Casata sacerdotale che educa i civili a servire con obbedienza il despota L'uomo libero per non farsi contaminare potrà ritirarsi dalla vita sociale tenendosi in una solitudine totale e potrà fare due azioni ovvero ricorrere al gesto del suicidio oppure uccidere il tiranno andando anche in questo caso incontro alla morte. Nel pensiero di Alfieri Due figure ovvero il tiranno è l'uomo libero apparentemente diverse ma Infondo simili tra loro in quanto entrambe vogliono l'affermazione della loro individualità per questo oltre che nei confronti dell'uomo libero si può cogliere una ammirazione da parte di Alfieri anche per il despota che pure nella sua negatività incarna perfettamente azione di una volontà possente assoluta e illimitata SCRITTURA: Scrittura democratica, linguaggio chiaro ed esplicito, fondamentale per la verità che vuole far percepire, uno degli obbiettivi di Alfieri è quello di arrivare, mandare un messaggio, non è una scrittura aulica, metaforica o ricca di immagini. ALLA LIBERTA’ L’incipit del libro è dedicato a quello che è l’opposto della tirannide, ovvero la libertà. Egli esordisce sottolineando come i libri si dedicassero alle persone potenti (soprattutto tra 500-600), perché nella dedica a quell’illustre, se accettata potevano trarne dei vantaggi, come avere protezione. Alfieri mette in evidenza la contraddizione della libertà di scrittura di un autore, tutti spesso inneggiano alla libertà, volontà di scrivere, ma semplicemente andando a cercare lustre protezione da un mercede, o anche semplicemente osannando delle famiglie, cadono appunto nella contraddizione della libertà di scrittura. “Non è meraviglia che tu (libertà) disdegni di volgere l’attenzione a coloro che in realtà ti imbellettano le verità, perché il loro obiettivo è in fondo l’adulazione”. Egli afferma che gli altri fanno ciò, ma che lui in realtà non parla a nessuna persona illustre, a nessun principe, ma parla alla libertà, dedica i suoi fogli a essa. Alfieri sottolinea che andrà a spiegare quei pensieri che dentro lo agitano, e di sviluppare quelle verità che la ragione gli svela, egli vuole sprigionare quei pensieri che fin dalla tenera età racchiude nel suo petto. Questo libretto concepito da lui prima di ogni altra opera, che ha disteso in gioventù e che non ripudierà in età matura, pensa di pubblicarlo come ultima opera. Alfieri evidenzia come sia inizio e fine questo libro, è spinta motoria a produrre, a spingerlo è il coraggio e il furore. Fatta questa dichiarazione comincia a tenere quella scrittura argomentativa con cui ha dichiarato di descrivere. USANZA: Si dedicava il libro ad una persona illustre perché TRAMITE LA DEDICA SI AVEVA PROTEZIONE, alfieri non fa ciò, non ha bisogno di protezione. DOPO L’INCIPIT INIZIA AD UTILIZZARE LA SCRITTURA DEMOCRATICA E CHIARA. Prima definisce il tiranno (capitolo 1), poi la tirannide (capitolo 2) non si ferma a definire l’uomo, ma ovunque ci sia qualunque tipo di governo che però ha un potere ovvero quello di infrangere le leggi ecco lì ce la tirannide…fare le leggi e poi infrangerle è tirannia. Il buon governo è quello che impone le leggi e che sia coerente con le stesse. DEVO ESSERE COERENTE E NON DEVO FARLE INFRANGERE. CAPITOLO 1- COSA SIA IL TIRANNO TIRANNO era il nome con cui i greci definivano coloro che noi chiamiamo re. Col tempo divenne un nome che suscitava sgomento e ripugnanza, quindi ai tempi nostri i principi nominati tiranno si offendono di ciò. C’è una forte confusione di nomi e idee, che ha posto una forte differenza tra noi e gli antichi es. CAPITOLO 2: Cosa sia la tirannide. Si deve chiamare tirannide qualsiasi governo in cui chi è proposto all’esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, impedirle, sospenderle o anche soltanto deluderle, con la sicurezza di non essere punito. Chiunque ha una forza effettiva che basti a fare ciò è tiranno, ogni società che lo ammette è tirannide, ogni popolo che lo sopporta è schiavo. Non è che il buon governo è nel fare le leggi, ma nel farle rispettare, nell’essere coerente. Prosegue con una distinzione tra le varie situazioni in Europa, e trattando la monarchia. Egli dice che monarchie o è il governo di uno solo e allora è tirannide, o è il governo di molti che può fare o disfare le leggi, ma ciò ci porta comunque alla tirannide. Capitolo NONO: Delle tirannidi antiche, paragonate colle moderne. Alfieri analizzando quello che è successo in precedenza, in realtà comincia ad aprire gli occhi verso un’attualità. Per aprire gli occhi al lettore, egli dice che non bisogna immaginare che oggi ci sia un tiranno e una tirannide visibile, dichiarata, ma c’è una tirannide che vive della possibilità di infrangere le leggi. In questo modo sottolinea come le tirannidi assumano forme più subdole man mano che si evolve la società. C’è sempre una milizia, un esercito che fa rispettare la volontà del tiranno, ciò si ha sia nel passato che nella tirannide moderna anche se in modo subdolo. Alfieri evidenzia come ad oggi sia evidente quella che era la tirannia del passato, ma sottolinea come poteva non esserlo però per i romani, perché erano educati nel sangue, ci erano cresciuti dentro. Verso la fine del capitolo egli dice che se non riconosco la tirannia come tale, difficilmente La volontà di tutti mantiene da sola la tirannide dunque, l’esercizio di un potere non esisterebbe senza la volontà del popolo, il tiranno non ci sarebbe senza la popolazione. Così come può mantenere la tirannide con il consenso la può anche distruggere. Perché un popolo decide di assecondare un regime tirannico? C’è la mancanza di un’alternativa quindi di un governo diverso, ecco è lì che un popolo può ribellarsi. Ma c’è bisogno di consapevolezza per far ciò, ma per Alfieri la popolazione nel suo insieme non avrebbe mai reagito per modificarne la struttura (non pensa che ci possa essere un evento come la Rivoluzione francese). Alfieri non mette in discussione i tiranni europei (che gli perdonano ciò che ha detto) poichè in fondo alfieri parla contro la tirannide ma non contro i tiranni dato che è consapevole che il popolo non si ribellerà. “Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato” Secondo alfieri la rivoluzione contro la tirannide non è possibile ma si può avere la rivolta contro il tiranno (rivolta personale del singolo) TITANISMO, ATTEGGIAMENTO SECONDO IL QUALE UN SINGOLO DIVENTA GIGANTE E COME FARE, BISOGNA STUDIARE E TRAMITE CIO’ DIVENTA CONSAPEVOLE. Questo privato cittadino illuminato ovvero consapevole, se il tiranno gli fa u torto reagisce col ferro dunque uccide il tiranno TIRANNICIDIO, ciò avviene quando la persona riceve un torto o quando il tiranno facendo un torto alla collettività automaticamente lo fa al singolo. “lo spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide”, ma paradossalmente quando si uccide il tiranno, la tirannide diviene più forte, quindi il nuovo tiranno sapendo che il vecchio è stato ucciso avvierà un regno ancor più duro del precedente e farà maggior attenzione. Nel tentativo di uccidere le tirannide essa si è rafforzata. ALFIERI, LA FUNZIONE DEL TEATRO E L’AGAMENNONE Nel 1783 dopo la pubblicazione di alcune tragedie di Alfi8eri nasce una polemica con Daniele de’ Calzabigi. Le tragedie di Alfieri sono in prosa. Quando pubblica le tragedie crea scompiglio, no vengono apprezzate Nel 1783 i due si scrivono, Calzabigi scrive una lettere e alfieri risponde: i punti di questa polemica sono  FRAZIONAMENTO DELL’ITALIA, MANCANZA DI UNO STATO E DI UNA LINGUA  TEATRO ASSERVITO AI PRINCIPATI  ASSENZA DI UN TEATRO TRAGICO E MONOPOLIO DEL TEATRO MUSICALE  MANCANZA DI PROFESSIONALITA’ TRA GLI ATTORI  DISEDUCAZIONE DEL PUBBLICO  SACRALITA’ DEL REATRO E SUO RUOLO SOCIALE La Lettera del 1783 che Calzabigi indirizzò ad Alfieri, essa rappresenta il primo scritto critico sulle prime quattro tragedie pubblicate – Filippo, Polinice, Antigone e Virginia – e con la quale il livornese manifesta sia un disprezzo, ma anche la propria gratitudine al poeta per aver risollevato le sorti del teatro italiano, da sempre incapace di competere con quello francese e inglese. Alfieri riprende il teatro greco, la tragedia greca che era un rito sacro, che doveva svolgersi in un certo modo. Il teatro doveva anche rispondere a esigenze religiose, nella società greca diventa quindi un punto di riferimento. Calzabigi mette in evidenza come il frazionamento dell’Italia non fa sì che ci possa essere un teatro nazionale, inoltre ciò genera competizione tra le varie fazioni. Rimprovera ad Alfieri uno stile ostico, il verso della tragedia deve accarezzare l’orecchio, mentre lo stile di Alfieri è spezzato, ha spesso ripetizioni. (Alfieri si contrappone allo stile melodico, tipico del teatro musicale). Risposte Alfieri. Alfieri afferma che il teatro deve insegnare agli uomini ad essere liberi, forti, amanti della patria, conoscitori dei propri diritti ecc.… il teatro quindi secondo questa concezione fornisce modelli ed educa. Tale era il teatro ad Atene, ma se il teatro è posto sotto l’ombra di un qualsiasi principe, ciò non può farlo. Negli anni in cui si dedicherà alla commedia, cambierà parere e diventerà sarcastico, soprattutto non ha fiducia nel popolo italiano che lo vede addormentato. In particolare le descrive “Piani stravolti, intralciati, personaggi inutili, versi deboli, concetti giganteschi o infantili… il tutto corredato da descrizioni di paragoni fuori luogo… A QUESTA LETTERA PROVOCATORIA ALFIERI RISPONDE…La necessità di un teatro stabile espressa da Calzabigi, portò Alfieri, nella sua Risposta, ad indagare la funzione stessa del teatro, la quale altro non era se non quella di formare uomini liberi, gli uomini devono imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, amanti della patria e consapevoli dei loro diritti.
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