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Vittorio alfieri, Appunti di Italiano

Appunti/ Riassunto su Vittorio Alfieri e le sue opere principali

Tipologia: Appunti

2014/2015
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Caricato il 17/02/2015

SteveL
SteveL 🇮🇹

4.4

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Scarica Vittorio alfieri e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI Biografia  Il conte Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749 da una delle famiglie più ricche e nobili dello stato piemontese. Il padre muore nello stes-so anno, la madre, vedova con già due figli, lo partorirà in seconde nozze; quindi si risposerà per la terza volta con un lontano parente del secondo marito, da cui nacquero altri cinque figli. Il conte Vitto-rio viene affidato ad uno zio tutore.  Alcuni leggono in queste tortuose vicende familiari (rapporto con i fratellastri, difficoltà relazionali con il patrigno e la madre) lo spirito ribelle ed individualistico, nonché l’ispirazione tragica, del nostro autore.  Dopo esser stato educato per i primi rudimenti da un precettore pri-vato, a nove anni viene mandato all’Accademia militare di Torino, dove i nobili venivano istruiti nelle scienze e nell’arte cavalleresca, diventando ufficiali. Sono anni che più tardi Alfieri giudicherà nega-tivamente; intanto, in modo autonomo si avvicina ai classici italiani e francesi.  Alla morte dello zio Alfieri eredita una notevole fortuna. Uscito por-tainsegne dall’Accademia militare, nel 1766 chiede la dispensa al Re, Carlo Emanuele III, per compiere un viaggio in Italia; al ritorno chiede una seconda dispensa per un viaggio in Europa, l’anno se-guente. E’ un periodo di dissolutezze, ma anche di forte sprovincia-lizzazione, in cui l’autore astigiano se da una parte prende atto della chiusura intellettuale del Piemonte, dall’altra radicalizza il suo indi-vidualismo e il suo senso di inappagata insoddisfazione.  Alla fine di questo secondo viaggio torna in Piemonte, dalla sorella Giulia, dove legge i contemporanei autori francesi, ma soprattutto Le vite parallele di Plutarco, che lo esalteranno. Nel 1769 inizia un ter-zo periodo di viaggi per l’Europa che lo porteranno fino in Russia; durante questo viaggio vivrà un’appassionante storia d’amore, che finirà con un duello.  Nel 1772 si stabilisce a Torino, ponendo fine ad una vita errabonda in cui si mescolava la sua irrequietezza e la sua insoddisfazione. Si circonda di amici intellettuali e comincia a scrivere qualche prosa in francese.  Mentre assiste un’amante ammalata, quasi casualmente, scrive in ita-liano (di cui, però, non ha gran possesso) una tragedia, Cleopatra, che viene rappresentata a Torino con grande successo. Ciò lo spinge-rà a voler diventare tragediografo, figura che, nella letteratura italia-na, non aveva mai avuto esponenti di spicco, e per far ciò studierà con grande impegno e sforzo i classici italiani e latini, che dovranno offrirgli quella base linguistica e retorica che lui, parlante francese, non possedeva.  Si reca in Toscana, dapprima a Firenze e poi a Siena, dove viene in-trodotto nei salotti letterari in cui si discute di illuminismo. Da que-sta esperienza nascerà il trattato Della tirannide (1777). In quello stesso anno incontra la contessa D’Albany (moglie di un pretende al-la corona inglese) che diventerà la sua compagna per la vita.  Dona tutti i beni ereditati alla sorella Giulia, cosa che gli permette di pubblicare senza censura (infatti per lui, nobile piemontese, non era concesso divulgare opere senza l’approvazione regale). Si trasferisce quindi a Firenze, nel 1778, dove scrive nuove tragedie e il trattato Del principe e delle lettere.  Si reca dal 1783 al 1785 a Roma, dove studia con agio e passione e dove, intanto , si va affermando il gusto neoclassico. Scoperto l’amo-re “adultero” con la D’Albany, deve abbandonare la città eterna e inizia un pellegrinaggio culturale che lo porterà a visitare le tombe dei grandi, Ravenna, Arquà, e a Milano, dove incontrerà Parini.  Quindi si reca di nuovo in Francia dove si ricongiungerà con la con-tessa d’Albany, ormai separata dal marito. Assiste a Parigi allo scop-pio della Rivoluzione: ne è entusiasta. Ma nel 1792, per la piega che i fatti stanno prendendo. è costretto a fuggire, maturando una forte critica verso gli esiti rivoluzionari.  Dopo queste esperienze il poeta si rifugia un’altra volta a Firenze, sempre più chiuso e disilluso, maturando una sfiducia nella storia che lo condurrà su posizioni conservatrici. Nella città fiorentina si dedicherà allo studio della lingua greca, non cessando tuttavia né a scrivere né a correggere le sue opere.  Muore all’improvviso nel 1803; verrà seppellito a Santa Croce e la contessa D’Albany farà erigere in suo onore un sepolcro marmoreo, opera di Antonio Canova. Personalità e poetica Non si può comprendere appieno la personalità, e di conseguenza la poetica, di Vittorio Alfieri, se non la si inserisce nell’ambiente bigotto e retrivo dello Stato Sabaudo, e ancor più in un centro periferico come Asti. Qui egli matu-rò un forte senso di libertà, accompagnato da una volontà un po’ narcisistica d’affermazione. Bisogna tuttavia sottolineare come ogni forma ribellistica contro il potere non si traduca mai in lui in un vero e proprio progetto politi-co, ma si limita ad essere un’idea astratta, vaga, cui tende con tutte le forze, ma che mai potrebbe tradursi in realtà. Questo bisogno di libertà e di autoaf-fermazione si traduce nella sua gioventù nei numerosi viaggi, che mai lo ap-pagano e dove, ogni qual volta si presenta l’occasione, si scaglia contro ogni forma di servilismo. Tali atteggiamenti possono anche essere letti sotto l’in-fluenza illuministica: ma il suo carattere passionale ed irruento ne fanno una personalità certamente preromantica. In altre parole se l’opposizione che e-gli prova per i regimi assolutistici possono legarsi ad alcuni filosofi dei lu-mi, lo allontana da essi la sfiducia verso la “ragione” ottimisticamente intesa e la sfiducia verso ogni cambiamento: perciò Alfieri è lontanissimo dalle idee democratiche ed illuministiche. Egli predilige le azioni eroiche compiu-te dai grandi dell’età classica (si veda, a tal proposito, l’adorazione che egli nutre verso il libro di Plutarco). E’ evidente che tale personalità produca un’opera letteraria caratterizzata da un forte autobiografismo. Opere come la Vita, le Rime nonché alcune sue tragedie rimandano questa attenzione sul- l’io. Ciò si traduce, nei personaggi tragici in un’ansia di libertà, in una soli-tudine esasperata e nell’insofferenza verso ogni limite. Un altro elemento caratterizzante la poetica dell’Alfieri è il classicismo; se esso nell’Arcadia rappresentava una ricerca di eleganza e nell’Illuminismo una forma di razio-nalità, in lui diventa vagheggiamento delle grandi personalità eroiche del passato, a cui Alfieri aspirava. I trattati I principali trattati alfieriani sono due: Della tirannide e Del principe e delle lettere. Della tirannide è un testo diviso in due libri in cui sono teorizzati i principi fondamentali della tirannide: nel primo libro si affronta i vari modi in cui si struttura una tirannide, che si impone in qualsiasi forma laddove l’uomo vi-ve un’imposizione dogmatica; nel secondo libro si affronta il modo in cui opporsi a tale situazione; Alfieri sceglie opzioni estreme: l’isolamento sde-gnoso, l’omicidio o il suicidio. COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE Affermo dunque che quando un uomo che vive in uno stato tirannico e, me-diante la propria capacità intellettiva ne sente tutto il peso, ma per mancanza di forze proprie e altrui non può sconfiggerlo, deve allora un tal uomo, come prima cosa, star sempre lontano dal tiranno, dai suoi ministri, dagli infamanti onori che ci elargisce, dalle ingiuste cariche che ci offre, dai vizi, dalle lusin- ghe e dalle sue corruzioni, dalla casa, dal terreno e persino dall’aria che respi-ra e gli sta intorno. Soltanto in questa totale lontananza non mai esagerata, in questa sola lontananza un tal uomo può ricercare non la propria sicurezza, ma la piena stima di sé e la purezza della propria fama; entrambe in qualche mo-do contaminate, allorché si ci avvicini alla corrotta atmosfera delle corti. E’ chiaro nel breve brano qui proposto che l’atteggiamento alfieriano verso la tirannide, seppur mediato dall’ideologia illuminista, assuma caratteristi-che “apolitiche”: manca cioè un progetto, un qualcosa che possa mutare la situazione o migliorarla (come facevano gli intellettuali lombardi con Maria Teresa); in lui c’è solo uno sdegnoso allontanamento, un contrapporre la sua libertà assoluta con quella, altrettanto assoluta del tiranno. Tale concetto viene ribadita anche all’inizio del suo secondo trattato, pubbli-cato nel 1786, Del principe e delle lettere. Con quest’opera Alfieri indaga sul rapporto fra letteratura e potere. Essa è strutturata in tre libri: nel primo si analizza l’opportunità da parte del principe di proteggere le lettere, negan-dola decisamente; il secondo libro pone la questione in modo inverso, invi-tando gli scrittori a recidere ogni rapporto con l’assolutismo; nel terzo, dopo una rassegna di grandi autori del passato “liberi”, afferma che solo chi è li-bero da ogni preoccupazione economica può dedicarsi alla letteratura, in quanto “libero” da qualsiasi compromesso. COSA SIANO LE LETTERE In che consistono le vere lettere? E’ difficilissimo definir le con esattezza: ma sicuramente sono una cosa per niente confacente all’indole, capacità, occupa-zioni e desideri del principe: infatti nessun principe è mai stato un vero lette-rato, né lo può essere. Dunque, come può egli proteggere ragionevolmente e favorire una così nobile attività, di cui, non essendo esperto, assai diff icil- mente può giudicarla? E se non può essere giudice competente, come può ap-prezzarne il valore? Per giudizio dei suoi collaboratori. E di quale? Di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte che insegna attra-verso il diletto, e fanno commuovere, educare ed indir izzare le indoli degli uomini verso il bene, come mai il toccare intensamente le passioni, lo svi-luppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, l’allontanarlo dal male, l’am-plif icare le sue idee, il riempirlo d’amore e contrappone la realtà esterna, vista sempre come portatrice di disvalore, in quanto limitatrice della libertà del poeta. Se è pur vero che l’autobiografia si presenta come una mi-niera preziosa di notizie sulla vita del poeta, non manca in essa il tentativo di offrirsi come una vita ideale, in cui si tratteggiano i suoi viaggi, gli amori, i duelli (una vita, soprattutto in gioventù avventurosa); ma sono presenti in essa anche le sensazioni che il poeta prova di fronte ai superbi spettacoli della natura. Se, in alcune pagine vi può essere una forma di autocritica, non manca mai il tentativo di presentarsi come eroe, che lotta senza tregua con-tro ogni sopruso e contro ogni meschineria borghese. Si può affermare che nella Vita di Alfieri venga inaugurato il titanismo ribelle e alieno da qual-siasi forma di compromesso, quale poi verrà sviluppato nel preromantici-smo. Pagine importanti verranno poi riservate alla sua scoperta della lettera-tura e alla sua volontà di farsi autore tragico, anche questo visto in modo eroico e passionale. FRA I GHIACCI DEL BALTICO Io, sempre spinto dal desiderio di muovermi, benché mi trovassi molto bene a Stoccolma, volli partire verso la metà di Maggio per la Finlandia per raggiun-gere (da lì) San Pietroburgo. Alla f ine d’Aprile avevo fatto un giretto fino ad Uppsala, dove vi è una famosa università, e camminando avevo visitato alcune cave di ferro, dove vidi cose stranissime, ma non avendole osservate con atten-zione e quindi non avendole notate, e come se non le avessi viste. Arrivato a Grisslehamn, piccolo porto sulla spiaggia orientale, posto di fronte all’entrata del golfo di Botnia, trovai di nuovo l’inverno, dietro il quale sembrava che io avessi deciso d’andare. Il mare era per gran parte gelato e il tragitto dal conti-nente verso la prima isoletta (che questo golfo si supera attraverso cinque isolette che vi sono all’interno), in considerazione del mare ghiacciato, riu-sciva, per ogni tipo di barca, impossibile. Attesi dunque in quel posto solitario tre giorni, finché, cambiando il vento, quel densissimo mare ghiacciato comin-ciò, qua e là, a screpolarsi, e a far crich, come dice il nostro Dante (riferendosi al lago ghiacciato del Cocito), quindi a poco a poco a dividersi in tavoloni gal- leggianti, che qualche piccolo varco pure offrivano a chi avesse voluto intro-mettersi con quale barchetta. E infatti, il giorno dopo approdò a Grisslehamn un pescatore che giungeva con un battello in quella prima isola in cui anch’io dovevo approdare, e lo stesso pescatore ci comunicò che si sarebbe potuto passare, pur con qualche difficoltà. Io volli subito tentare, sebbene possedessi una barca assai più grande di quella del pescatore, in quanto in essa trasportavo la carrozza. Quindi la difficoltà derivava dalla dimensione della mia barca, tut-tavia correvo meno pericolo, perché la sua robustezza poteva meglio resistere ai colpi dei lastroni di ghiaccio. E così, appunto, accadde. Quelle isole ghiac -ciate rendevano stranissimo l’aspetto di quel mare che sembrava piuttosto una terra distrutta e disciolta, piuttosto che un ammasso di acque; ma, grazie a Dio, essendo il vento leggerissimo, i colpi di quei lastroni sembravano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro abbondanza e mobilità li faceva spesso incontrare davanti alla mia prua, e, unendosi, impedivano il passaggio; e subito anche altr i (lastroni) concorrevano ai primi, tanto da formare una barriera che mi segnalava di dover tornare verso la terra ferma. L’unico rimedio a tale even-tualità era l’ascia, che castiga ogni persona insolente. Più d’una volta i marinai ed io stesso scendemmo dalla barca e a furia di colpi con le asce allontanavamo i lastroni e li staccavamo dalle pareti della nave, tanto da creare lo spazio per la prua e per i remi; poi risaliti, con la spinta della nave stessa, si allontanavano dal percorso quegli insistenti accompagnatori, e in tal modo percorremmo sette miglia svedesi in dieci o più ore. La novità di quel viaggio mi divertì tantis -simo, ma forse nel descriverlo così minuziosamente, non divertirò il lettore. E’ il fatto insolito per gli italiani che mi ha indotto a tale narrazione. Fatto così il primo tragitto , gli altr i sei passaggi per le isole, molto più brevi, ed inoltre più liberi dai ghiacci, risultarono molto più semplici. Nella sua selvatica asperità quello è uno dei paesi d’Europa che mi siano piaciuti di più, suscitando in me idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose, per quel vasto ed indefini-bile silenzio che regna in quell’atmosfera, che ti sembra d’esser fuori dal mon-do. Quello che in questa pagina emerge è la volontà d’infrangere ogni limite, superare ogni barriera, quasi a voler attingere all’infinità della natura. Il pae-saggio ghiacciato e isolato, infatti, mette l’uomo, nella sua finitezza, di fron-te all’infinità dello spazio, suscitando così il sentimento del sublime, che tanta parte avrà nella poesia successiva. E’ questo che, in qualche modo, fa di Alfieri un uomo che travalica il limite della “ragione” per affacciarsi ver-so quelle tematiche che poi confluiranno in quel movimento definito im- propriamente “preromanticismo”, cioè un “qualcosa” che anticipa la consa-pevolezza di una nuova età definita, appunto, romantica. Le tragedie Il fatto che Alfieri possa essere definito l’unico grande tragico della lettera-tura italiana è, insieme, una scelta dell’autore stesso e una predisposizione caratteriale che lo conduceva naturalmente verso questo genere. La tragedia italiana non aveva mai prodotto opere di rilievo, ad eccezione di una Mero-pe, di Scipione Maffei, del primo ’700. Il farsi tragediografo fu, dunque, per l’autore astigiano, una sfida letteraria che permettesse all’Italia di eguagliare la Francia che con Racine e Corneille aveva prodotto dei vari capolavori in questo genere. Ma non bisogna dimenticare che Alfieri aveva in sé un animo tragico, una tensione interiore verso l’assoluto che egli trasporta nei suoi personaggi (per alcuni, anche le tragedie sono, in ultima analisi opere auto-biografiche). Alfieri compone 19 tragedie; il modo con cui egli lavora ci viene rivelato in una pagina della Vita: LA COMPOSIZIONE DELLE TRAGEDIE E qui, per una migliore comprensione del lettore, mi conviene spiegare l’uso di queste parole che sono state usate spesso: ideare, stendere e verseggiare. Queste tre fasi, con cui ho sempre creato le mie tragedie, mi hanno sempre offerto il beneficio del tempo fra una fase e l’altra, necessario a riflettere su un componimento di tale importanza. Infatti, se già dall’ inizio nasce male, difficilmente in seguito potrà essere corretto. Per ideare io in-tendo il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginette appena abbozzate fare quasi un riassunto scena per scena di quello che faranno e diranno. Definisco poi stendere ripigliare quel primo lavoro e seguendo le indica-zioni date nella prima traccia riempio le scene con i dialoghi in prosa, così come dovrà es-sere l’intera tragedia, senza rifiutare un pensiero, qualunque esso sia, e scrivendo con tutta la forza che ho, senza badare al come. In ultimo per verseggiare io intendo non solo porre in versi la prosa precedentemente elaborata, ma con mente assai per tempo riposata, scegliere tra quel lungo testo prosastico scritto di primo getto, i pensieri migliori, ridurli in versi e renderli leggibili. Segue poi, come per ogni altra opera, il doverla successivamente limare, togliere delle parti, cambiarla in altre; ma se l’azione tragica non nasce nell’idearla e poi distenderla, non può avere la luce solamente con l’ultima fase. Questa pagina non solo ci illustra il metodo con cui Alfieri lavora, ma ci mostra come in lui operino due forze: da una parte la parte “razionale” che mette in “ordine”, rende “perfetta” l’opera; dall’altra l ’aspetto irrazionale, cioè lo scrivere quasi come fosse dettato dall’inconscio (senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi). Alfieri struttura le sue tragedie nei canonici cinque atti, rispettando le tre unità aristoteliche di tempo, spazio e luogo. Elimina della tragedia classica il coro (che verrà ripristinato da Manzoni) ed ogni intermezzo lirico: l’opera alfieriana deve tutta tendere, sin dall’inizio, verso l’esito finale: a ciò rispon-de l’esigenza di ridurre il numero dei personaggi; la rappresentazione o la lettura non deve mai staccarsi da essi e dalla loro vicenda, a rischio di per-dere la concentrazione e la tensione che la vicenda produce. I capolavori tra-gici alfieriani, per unanime consenso critico, vengono ritenuti la Mirra e il Saul. Mirra La vicenda si svolge a Cipro, isola dedicata a Venere, nella corte di Ciniro. E’ la vigilia delle nozze che dovrebbero unire Mirra, figlia del re e di Cecri, con Pereo, principe d’Epiro, ma non c’è felicità a corte, poiché la promessa sposa appare mortalmente triste. In accordo con la nutrice Euriclea, i due genitori, addolorati e desiderosi di rivedere lieta la loro unica figlia, cercano di scoprire la ragione di tanta mestizia, pronti anche a sospendere le nozze qualora Mirra confessasse di nutrire un altro amore. Mirra entra in scena nel secondo atto, opponendo alle insistenti domande dei genitori, della nutrice e dello stesso Pereo, un ostinato silenzio, sotto il quale però non riesce a nascondere un terribile tormento. Nelle sue parole s i mescolano parole d’affetto verso i suoi genitori e il promesso sposo, lacrime, sbocchi interrotti di paura e di malessere incomprensibili. Supplice e disperata, Mirra giun-ge a invocare la morte, fra lo sbigottimento di coloro che le stanno attorno. Nel terzo atto Mirra accetta di unirsi in matrimonio con Pereo, segretamente sperando di allontanarsi dalla casa che le è divenuta ormai intollerabile, e morire di dolore lontano dagli occhi di chi più ama. Nel quarto atto, durante il rito nuziale, la volontà di Mirra cede alla forza dell’an -goscia e. delirando, la giovane impreca contro le nozze stesse: la cerimonia è interrotta e Pereo, per l’umiliazione e il dolore si ucc ide. Nell’atto finale, di fronte alla ferma decisione del padre di sapere, e sconvolta per aver provocato il suicidio dell’ innocen te Pereo, Mirra confessa la propria passione incestuosa e con la spada del padre si trafigge il cuore. La tragedia, scritta nel 1784, prende spunto specificatamente da un passo ovidiano: nelle Metamorfosi, infatti, si narra la storia della giovane Mirra che nutre una passione incestuosa verso il padre Ciniro. Attraverso inganni la giovane donna arriva a consumare l’incesto, ma per questo verrà punita dagli dei che la trasformeranno in albero. Accanto al mito ovidiano sono echi dalle tragedie classiche come l’Ippolito di Euripide e la Fedra (dello stesso argomento di quella greca) di Seneca. Alfieri rielabora completa-mente il mito: Mirra non compie, ma neanche rivela, se non nell’ultimo atto, la sua insana passione. Ciò determina un’impietosa analisi della mente di Mirra, spinta dalla ragione a negare e a negarsi ciò che invece inconscia- mente prova; non vi è quindi la scissione, come nelle altre tragedie, di due personaggi che, emblematicamente lottano tra loro; qui la lotta tra passione e ragione viene interiorizzata. LA CONFESSIONE DI MIRRA CINIRO: Mirra, che tu non curassi per nulla del mio onore, non l’avrei mai creduto; me ne sono convinto (purtroppo!) in questo giorno di lutto per noi tutti; ma che tu alle richieste espresse e ripetute da tuo padre, ora che tu sia restia nell’obbedirm i, questo giunge come un’ulteriore novità. MIRRA: Della mia vita, sei solo tu il padrone… Io dei miei gravi e numerosi errori chiedevo a te la pena… io stessa (te l’ho chiesta) un attimo fa, con la presenza di mam-ma. Allora, perché non mi hai ucciso?... CINIRO: E’ ora di cambiare atteg-giamento, Mirra. Pronunci parole disperate e fissi gli occhi disperati e tre-manti, inutilmente. Assai chiaramente appare, in mezzo al dolore, la tua ver-gogna: colpevole ti senti tu stessa. Il tuo più grave errore è tacere con tuo pa-dre; quindi meriti la mia rabbia e cessi l’immenso amore che io provai per te, unica figlia. Che fai? Piangi? Tremi e inorridisci e… taci. Per te sarebbe dun-que l’ira paterna un’insopportabile pena? MIRRA: Peggiore di quals iasi mor-te… CINIRO: Ascoltami. Hai reso i tuoi genitori oggetto di dicerie per il mondo, come te stessa, coll’infausto fine che tu hai creato alle nozze pur da te volute. Già la tua crudele offesa ha spezzato i giorni al misero Pereo. MIR-RA: Che ascolto? Oh cielo! CINIRO: Pereo è morto, e tu l’hai ucciso. Appe-na uscito alla nostra vista, si reca da solo nelle sue stanze, sepolto in un muto dolore, nessun uomo lo ha seguito, Io (povero me) giungo purtroppo troppo tardi… Ucciso con la propria spada, egli giaceva in un mare di sangue e gli occhi pieni d i pianto e di morte innalzava verso di me. E fra gli ultimi sin-gulti, dalle sue labbra usciva ancora il tuo nome, Mirra. Ingrata! MIRRA: Non dirmi più niente. Solo io sono degna di morire. E ancora vivo… CINI-RO: Il dolore immenso dell’ infelice padre di Pereo. Io che sono padre ed in-felice, io solo lo posso capire, io lo so quanto debba essere grande la rabbia, l’odio, il desiderio di fare contro di noi una giusta vendetta. Io quindi, non dalla paura delle sue armi, ma mosso dalla pietà per il giovane morto, voglio, come deve un padre ingannato e offeso, sapere da te (e ad ogni costo lo vo-glio sapere) il motivo vero di un così orribile danno. Mirra, inutilmente lo na-scondi, ti tradisce ogni minimo gesto. Il parlare con frasi spezzate, l’impalli-dire, l’arrossire, i muti gravi sospiri, il consumarsi lentamente del tuo corpo, il guardare furtivamente di nascosto; e la vergogna che t’accompagna sempre. Ah, tutto, sì, tutto me lo dice, e inutilmente tu lo neghi. Le tue sono furie d’a-more? MIRRA: D’amore? Non credere. Ti sbagli. CINIRO: Più lo neghi, più sono convinto. E certo sono io, ormai, ch’esser non può che un amore in-degno, quello che tu nascondi. MIRRA: Oimè, che dici? Non mi uccidi con la spada e intanto mi uccidi con le parole… CINIRO: E tu non osi dirmi che provi amore? E se anche avresti il coraggio di dirmelo e di giurarlo, ti consi-dererei una spergiura. Ma, chi è mai degno del tuo cuore, se non poté esserlo l’incomparabile, vero, caldo amante Pereo. Ma c’è in te un tale turbamento, un tale tremore, così forte è la vergogna; e in un terribile susseguirsi si scolpi-scono fortemente sul tuo volto, che inutilmente potrai negarlo. MIRRA: Vuoi dunque, di fronte a te, farmi morire di vergogna? E tu sei un padre? CINIRO: E vuoi tu avvelenare i giorni, spezzarli d’un padre che t’ama più di se stesso, con l’inutile, crudele silenzio? Ancora sono tuo padre, non avere paura. Chiunque sia il tuo amore (purché ti veda felice) sono capace di quals iasi sforzo per te, basta che me sveli. Ho visto e vedo tuttora (povera figlia!) l’in- credibile contrasto che ti strazia il cuore, tra il dovere e l’amore. Già troppo ti sei immolata, ma l’amore è più potente, non ha voluto. Si può scusare la pas-sione, è più forte di noi; ma il non rivelarla al padre, che te lo ordina e ti scongiura, ti rende indegna di ogni scusa. MIRRA: Oh, morte, che tanto invo-co, sarai sempre sorda al mio dolore? CINIRO: Figlia, calmati, riposa l’ani-mo, se non vuoi vedermi adirato; non lo sono quasi più: basta che tu mi parli. Parlami come fossi un fratello. Anch’io ho conosciuto, per esperienza, di co-sa è capace l’amore… MIRRA: Oh cielo! Amo sì, sebbene mi costi fatica dir-telo. Amo disperatamente ed inutilmente. Ma chi sia l’oggetto del mio amore, né tu, ne altr i lo sapranno mai. Lo ignora egli stesso, e io lo nego a me stessa. CINIRO: Ed io devo e voglio saperlo. Né tu puoi essere crudele con te stessa e allo stesso tempo con i tuoi genitori che adorano te sola. Allora, parla! Vedi già che da padre irato con te torno ora supplichevole e piangente: non puoi morire, senza portare noi stessi alla tomba. Chiunque s ia colui che ami, io vo-glio farlo tuo. Uno sciocco orgoglio di re non può strappare l’amore di padre che provo nel petto: il tuo amore, la tua mano, il mio regno possono ben cam-biare una persona umile e porlo in grande ed alto stato: e, sebbene umile, so-no certo, che non può essere del tutto indegno un uomo che tu ami. Te ne scongiuro: rivelami il suo nome, io ti voglio salva, ad ogni costo. MIRRA: Salva? Che pensi? Queste tue stesse parole affrettano la morte. Ti prego, la-scia che io mi allontani da te per sempre. CINIRO: O figlia, unica amata, che dici? Vieni fra le mie braccia. Oh, come una forsennata tu mi respingi; dun-que aborri anche tuo padre, e di così indegno amore bruci, che hai paura… MIRRA: Ah, non è umile il mio amore, è sacrilego, né mai… CINIRO: Che dici? Sacrilego! Quando per primo il tuo stesso padre non la condanna, non può esserlo. Avanti, dimmi il nome. MIRRA: Vedresti tu stesso, padre, inor-ridire, se lo sapessi… Ciniro. CINIRO: Che dici? MIRRA: Che dico? Povera me! Non so più ciò che dico. Non provo amore per te, non credere. Ti prego, per l’ultima volta, lasciami andare via. CINIRO: Ingrata! Ormai vuoi farmi disperare con i tuoi modi e farti gioco del mio dolore; ormai per sempre hai perduto l’amore di tuo padre. MIRRA: Oh, dura, crudele e orribile minaccia! Ora, nell’ultimo respiro della mia vita, che ormai s’avvicina, ai tanti tormenti della mia vita si aggiungerebbe l’odio crudele dei genitori? Morire io lontana da te? Oh madre mia felice, almeno a lei sarà concesso di morire al tuo f ian-co. CIRINO: Che cosa vuoi dire? Oh, quale terr ibile squarcio di verità da que-ste tue parole! Empia tu forse dunque saresti? MIRRA: Oh cielo! Che mai ho detto? Povera me! Dove sono, dove mi nascondo… dove darmi la morte. La tua spada mi servirà… (Immediatamente si avventa sulla spada del padre e si trafigge) CINIRO: Figlia, oh, che hai fatto… la spada… MIRRA: Ecco te la rendo. Almeno ho avuto la mano veloce come la lingua. CINIRO: Io resto immobile pieno di spavento, d’orrore, di rabbia, di pietà. MIRRA: Oh Ciniro! Mi vedi vicino alla morte. Io ho saputo vendicarti e punire me stessa. Tu stesso l’orrendo mistero mi hai strappato dal cuore, ma poiché solo con la mia vita esce dalla mia bocca, muoio meno colpevole. CINIRO: Oh quale giorno! Oh delitto! Oh quale dolore! Per chi il mio pianto? MIRRA: Non piangere più, che io non lo merito; sfuggi la mia vista infame e a mia madre Cecri nascondi (il motivo) per sempre. CINIRO: Padre infelice, perché il suolo ancora non si spalanca. Io non ho il coraggio d’avvicinarmi all’ingiu-sta donna che muore, eppure non posso abbandonare mia figlia piena di sangue… Il suicidio di Mirra non è un suicidio contro la libertà di non poter amare, ma, più profondamente il suicidio della volontà inconscia contro la ragione. E’ quest’ultima a venire de finitamente sconfitta: essa non ha saputo preva-lere sull’animo della protagonista; Mirra, infatti, resterà sola (nella scena successiva morirà con solo accanto la sua nutrice, lontano dai genitori) con il suo dramma che solo la morte può sciogliere. C’è già qui un personaggio, sia pur tratto da un’opera classica, profondamente legato al pathos; la sua sofferenza va al di là, come già detto, della ragione, capace di guidare l’uo-mo verso un infinito progresso (come affermavano gli illuministi), per aprire varchi inesplorati dell’animo umano. Saul Il testo biblico narra di come il valoroso guerriero Saul venga unto primo re d’Israele dal sommo sacerdote Samuele. Accecato dalla brama del potere, tuttavia, Saul si allontana progressivamente dalla grazia e dal favore di Dio, finché Samuele, divinamente ispirato, non consacra nuovo re il giovane pastore e musico David. In guerra con i Filistei, David si distingue in atti di valore, acquistando grande valore agli occhi del popolo; ma le sue vittorie inveleniscono il vecchio re Saul, che teme per il trono cui non intende rinuncia-re. In parte per sincera ammirazione, in parte per calcolo politico Saul dà in sposa la figlia Micol a David, ma al
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