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Vittorio Alfieri - riassunto completo, Schemi e mappe concettuali di Italiano

Riassunto completo su Vittorio Alfieri

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

In vendita dal 10/06/2023

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4.5

(49)

806 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vittorio Alfieri - riassunto completo e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Italiano solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI Vittorio alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera. Nella tipologia dell'intellettuale del Settecento rappresenta dunque la figura dello scrittore che, grazie alle cospicue rendite, può dedicare tutto il suo otium alla letteratura, garantendogli l'indipendenza economica, che gli consentiva di non essere subordinato a nessuno, di potersi mantenere libero e incontaminato da ogni forma di servitù. Sin dagli anni dell'infanzia si rivelò in lui una tendenza alla malinconia e alla solitudine, unita però ad una volontà forte e caparbia, che si manifestava in impeti ribelli. Nel 1758, a nove anni, fu mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino, dove convenivano molti giovani della nobiltà piemontese, che aveva radicate tradizioni militari, e ne uscì col grado di portainsegna. Più tardi diede giudizi durissimi sulla formazione che vi aveva ricevuta, arida e pedantesca, ispirata a modelli culturali del tutto antiquati. Amò così insistere sulla totale ignoranza in cui quel periodo di «ineducazione» lo aveva lasciato. A 10 anni rimane orfano e ottenne una grande eredità. Uscito dall'Accademia, seguì un costume diffuso tra i giovani aristocratici del tempo, quello del grand tour, così compì numerosi viaggi per l'Italia e l'Europa, che si protrassero per ben cinque anni, dal 1767 al 1772. L'uso dei viaggi, per la nobiltà europea, si inseriva nello spirito cosmopolita e nell'ansia di conoscenza che erano propri dell'età dei Lumi. Ma Alfieri si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi, linguaggi, mentalità, di accumulare esperienze, ma come spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza ed era perpetuamente accompagnata da un senso di scontentezza, di noia, di vuoto, da una cupa malinconia. Egli stesso, nella sua autobiografia, narra che, non appena era giunto alla meta verso la quale si era proteso con ansia, provava il bisogno irresistibile di fuggire verso un altro luogo, e, giunto alla nuova meta, si abbandonava allo stesso impulso di fuga senza fine. Si delinea così, già negli anni giovanili, il profilo di un animo tormentato, proteso verso qualcosa di grande che non ha ancora un volto definito. Più tardi infatti lo scrittore stesso, nella Vita, interpreterà questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno a cui ordinare tutta l'esistenza, e l'irrequietezza come percezione dolorosa del vuoto di una vita che non riesce ancora a intravedere questo fine totalizzante. Esso sarà poi identificato da Alfieri con la vocazione poetica, destinata a riempire tutto il resto della sua vita. Anche se lo scrittore proclama nella Vita che questi viaggi, compiuti con un simile stato d'animo, non gli avevano permesso di acquisire vere conoscenze, aveva in realtà potuto accumulare una concreta esperienza delle condizioni politiche e sociali dell'Europa contemporanea. È l'Europa dell'assolutismo, e nel giovane appassionato, inquieto e ribelle la «tirannide» monarchica provoca reazioni esasperatamente negative. Quasi nulla di ciò che vede gli piace, per lo più prova insofferenza, sdegno, repulsione. Ciò che lo affascina di più sono i paesaggi desolate orridi, selvaggi e maestosi, le selve della Scandinavia, che gli ispiravano “idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose”, si può dire che in questi paesaggi lui proietta già il suo Io romantico. Ritornato a Tornino, conduce una vita oziosa come un “Giovin Signore”, chiuso in solitudine. Lì la depressione aumenta a causa di un “tristo amore”, una relazione con la Marchesa Gabriella Turinetti, causa di “infiniti dolori e vergogne” da cui egli non riesce a liberarsi. L'unica attività che gli si offre è quella letteraria. Dopo gli anni di vuoto intellettuale dell'Accademia, già nel 1768 aveva cominciato a leggere, dedicandosi soprattutto agli illuministi francesi, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, che costituiranno poi la base della sua cultura, dando fondamenti filosofici alla sua istintiva avversione anti- tirannica. Un momento essenziale era stata anche la lettura di Plutarco, storico greco autore di una serie di biografie di uomini illustri greci e romani, che aveva sollevato in lui «un trasporto di grida, di pianti e di furori», precisando nel suo animo l'oscura ansia di magnanima grandezza che urgeva sin dall’adolescenza. Nel 1775 Alfieri colloca la svolta fondamentale, l'illuminazione destinata a dare un senso alla sua vita, la sua «conversione», come lo scrittore la chiama usando una terminologia religiosa. L'anno prima, spinto da un impulso non ben definito, aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, dimenticandola subito dopo. Ritornatogli in mano il manoscritto per caso, egli scopre la somiglianza tra la propria relazione con la Turinetti, da cui scaturisce il suo tetro avvilimento, e quella tra Antonio e Cleopatra, e si rende conto di come proiettare i propri sentimenti nella poesia costituisca l'unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti, una catarsi. La tragedia, portata a termine, viene rappresentata nel giugno del 1775, ottenendo grande successo. In questo episodio Alfieri scorge il primo manifestarsi della sua vocazione di poeta tragico. Data l'insufficienza dei suoi primi studi, gli è però indispensabile munirsi dell'adeguato bagaglio culturale: con volontà caparbia si immerge nella lettura dei classici latini e italiani. si applica allo studio della lingua italiana per impadronirsi di un linguaggio adatto alle tragedie che intende scrivere, e giura di non proferire più una sola parola di francese. Per meglio far proprio l'italiano tra il 1776 e il 1780 soggiorna a lungo in Toscana, a Pisa, a Siena, a Firenze. Qui conosce Louise Stolberg, contessa di Albany, e trova in lei il «degno amore» che, insieme con la poesia, può dare equilibrio alla sua vita. Nel 1778, per «spiemontizzarsi» definitivamente e per recidere ogni legame con il re di Sardegna, rinuncia a tutti i suoi beni in favore della sorella, in cambio di una rendita vitalizia. A Parigi, con la contessa, soggiorna a lungo tra il 1785 e il 1792. Lo scoppio della Rivoluzione eccita il suo spirito anti-tirannico e lo induce a salutare con un'ode la presa della Bastiglia (“Parigi sbastigliato”). Ma presto gli sviluppi del processo rivoluzionario suscitano in lui riprovazione e disgusto, per quella che egli ritiene una falsa libertà che maschera una nuova tirannide borghese e per l’insolenza violenta della plebe. Nel 1792, fugge da Parigi con la Stolberg e viene a stabilirsi a Firenze, dove muore 1'8 ottobre 1803. RAPPORTI CON L’ILLUMINISMO Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono ancora decisamente illuministiche, sensistiche, materialistiche: Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius. Egli non arriva a superare teoreticamente quelle posizioni. Ma nei confronti di quella cultura del secolo, che tutto sommato resta anche la sua cultura, prova una confusa insofferenza. Gli ripugna il culto della scienza, ha orrore per l' «evidenza gelida e matematica». Il freddo razionalismo scientifico per lui soffoca il «forte sentire», quella violenza emotiva e passionale in cui egli ritiene consista la vera essenza dell'uomo, e spegne anche il fervore dell'immaginazione, da cui solo può nascere la poesia, la manifestazione più alta di quell'essenza. Ma la filosofia dei "lumi" mirava ad un'equilibrata regolamentazione razionale della vita passionale ed affidava alla ragione un'ineliminabile funzione di guida e direzione degli impulsi profondi. Alfieri invece si ribella decisamente a questo controllo razionale, a questa pacata misura, ed esalta la dismisura, la passionalità sfrenata, senza limiti, condotta all'estremo, in un culto della vita intensa e fervida di moti spontanei, che innalza l'uomo al di sopra della sua stessa natura. L'Illuminismo sottoponeva a critica implacabile e corrosiva la religione tradizionale, approdando in certi casi ad un vago deismo, ed in altri a posizioni decisamente atee e materialistiche. Alfieri, pur non avendo una fede positiva, respinge tali posizioni ed è mosso da un fondamentale spirito religioso, che si manifesta in un'oscura tensione verso l'infinito, in un bisogno di assoluto. Ha piuttosto il senso dell'ignoto, del mistero che avvolge le ragioni profonde dell'essere, dinanzi a cui l'uomo non può che restare come mediocre, lo scrittore si chiude così in un aristocratico isolamento, che prefigura la condizione di sradicamento dell'intellettuale romantico. SAUL Nel Saul l'esasperato individualismo alfieriano e il vagheggiamento di una titanica, superumana grandezza eroica entrano definitivamente in crisi. Il vecchio re d'Israele, alla vigilia dello scontro decisivo con i nemici Filistei, sente tutto il peso dell'umana insufficienza e debolezza, che si proietta nell'oscura maledizione divina che egli sente gravare su di sé e prende forma negli incubi, nelle angosce, nelle ossessioni che lo tormentano, nella tetra malinconia che lo priva della volontà e delle forze, e lo conduce a veri e propri deliri di follia. Saul rappresenta una figura di eroe del tutto nuova, originalissima nell'ambito della tradizione tragica antica e moderna: non è l'eroe monolitico nella sua forza e nella sua fermezza, ma un eroe intimamente lacerato e perplesso. È intimamente diviso perché è un eroe maledetto su cui grava il peso di un'oscura colpa, che lo isola dagli uomini comuni, che genera in lui conflitti e tormenti angosciosi e lo dà una sconfitta totale, senza via di scampo. La novità consiste nel fatto che questa volontà titanica si scontra con un limite invalicabile, la superiore volontà di Dio. Possiamo vedere l'inquietudine pre-romantica di questa stagione culturale, ma in particolare l'inquietudine ribelle dei due giovani scrittori, in opposizione all'atmosfera stagnante soffocante dell'Europa dell'assolutismo, che spegne ogni slancio passionale. Lo scontro dell'eroe con la dimensione trascendente costituisce la novità clamorosa del Saul rispetto alla precedente produzione alfieriana, in cui dominano solo conflitti tra individui e volontà, su un piano di rigorosa immanenza, ma senza la presenza incombente della realtà ultraterrena non sussisterebbe la tragedia di Saul. Ma ciò non significa che nel testo vi un'autentica dimensione religiosa. Alfieri non sente la tematica del trascendente, ciò però non toglie nulla alla tragicità del conflitto tra Saul e Dio. Perché sussista questo conflitto non è necessario che la presenza di Dio sia una realtà oggettiva nel mondo della tragedia, basta che sia sentita soggettivamente da Saul. Il senso del divino, se non si può dire parte essenziale dello spirito di Alfieri, lo è comunque dell'animo del personaggio. Il vero conflitto di Saul è tutto dentro di lui; è questa una nozione del tragico profondamente nuova, moderna: il conflitto che nasce dallo scontro di forze che si agitano nel profondo. La tragedia, è l'esplorazione di questa zona buia, in cui si urtano forze contrastanti e non componibili, smania di affermazione titanica e senso di colpa, tensione eroica e senso angoscioso della propria miseria, volontà di potenza e spinte autodistruttive, amore e odio, barbarica ferocia e tenera pietà, impulsi, omicidi e ansia di purezza e di pace. Saul è un caso di nevrosi. L'Alfieri si rende conto che ci sono delle forze oscure, che la notte è dentro all'uomo, che distruzioni operano al suo interno». La tragedia alfieriana scopre una zona inedita dell'anima, oscura e ignorata: la sua straordinaria originalità consiste nel portare «la torcia al fondo della caverna» Questo fondo oscuro affiora alla coscienza soprattutto nella mirabile prima scena del secondo atto, in cui il vecchio re, appena comparso in scena, in un momento di abbandono confida ad Abner la sua «vita orribile», il suo male di esistere, il continuo oscillare tra stati d'animo opposti, l'impazienza e l'inquietudine senza nome che sempre lo tormentano, la malattia della volontà, l'insofferenza di se stesso, il senso di impotenza, le manie, i sospetti continui, gli incubi. Sono questi tormenti di Saul, destinando alla sconfitta irreparabile. Questa interiorizzazione del conflitto si manifesta anche nel rapporto con David, che, accanto allo scontro con Dio, costituisce l'altro tema dominante che percorre tutta la tragedia. Cè quindi nella tragedia un David in sé, l'eroe esemplare, e c'è il David costruito dalla follia di Saul, l'antagonista, l'ostacolo contro cui urta la smania di potenza del titano sconfitto. Come il Dio tremendo e irato, anche questo David è una proiezione della zona oscura dell'anima di Saul. Anzi, tra i due fantasmi vi è uno stretto legame, perché nel favore che, nel delirio del vecchio re, Dio concede a David consacrandolo al trono prendono corpo la maledizione di Saul e l'ira divina nei suoi confronti, che lo destinano alla sconfitta e all'annientamento. Ma in realtà questo "fantasma" di David non è che Saul stesso: in esso il re vecchio e stanco proietta l'immagine di sé giovane, forte, sicuro, in armonia con Dio. Per questo Saul ha un atteggiamento ambivalente verso David, fatto di amore e di odio: lo ama in quanto vede nel giovane guerriero se stesso, ma lo odia perché rappresenta ciò che non è più né mai potrà più essere, e quindi erige questa parte perduta di sé come potenza esterna malefica e ostile che lo minaccia, che gli vuole sottrarre il potere a cui è attaccato con tutte le sue forze. Lottando contro Dio e contro David, Saul lotta contro una parte di sé, alienata e contrapposta al suo io. Saul perde tutto e si suicida. La tragedia si presenta quindi, nelle sue linee essenziali, come un grande monologo. Saul non parla mai veramente con gli altri, parla solo con se stesso: vi è effettivamente conflitto drammatico tra forze diverse: solo che queste forze sono tutte interne all'animo del protagonista. ATTO PRIMO [David, genero di Saul e un tempo da lui molto amato, è stato costretto all'esilio per l'ira ingiusta del vecchio re contro di lui. Alla vigilia della battaglia decisiva contro i Filistei ritorna al campo di Israele, deciso a combattere a fianco di Saul. Lo accolgono amorevolmente la moglie Micol, figlia di Saul, e il di lei fratello Gionata, che si propongono di preparare gradualmente il padre al suo ritorno.]
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