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Vittorio Alfieri: vita e opere, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto dettagliato della vita e delle opere di Alfieri dal manuale "Testi e storia della letteratura" di Baldi, Giusso, Zaccaria, Razetti.

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 27/04/2018

ariel_97
ariel_97 🇮🇹

4.2

(50)

23 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Vittorio Alfieri: vita e opere e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! VITTORIO ALFIERI ▸ La vita Nasce ad Asti nel 1749 da una famiglia ricca che gli permette di dedicare tutto il suo otium alla letteratura. L’indipendenza economica, inoltre, gli consentiva di potersi mantenere libero. Nel 1758 viene mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino. Grand tour: 5 anni in giro per l’Italia e l’Europa. L’uso dei viaggi si inseriva nello spirito cosmopolita e nell’ansia di conoscenza propri dell’età dei Lumi. Ma i viaggi di Alfieri non si inseriscono in quest’ottica: egli era pervaso da un senso di irrequietezza che gli impediva di fermarsi a lungo in un luogo, il tutto accompagnato da una scontentezza perpetua. Sarà lo stesso autore, nella Vita, a interpretare questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno a cui ordinare tutta l’esistenza e l’irrequietezza come percezione di un vuoto che sarà poi colmato con la vocazione poetica. Con i viaggi accumula esperienza delle condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea: è un’Europa per lo più assolutistica e Parini sviluppa ben presto un forte odio per la tirannide e il potere assoluto. Tornato a Parigi, l’odio per ogni legame e gerarchia gli impedisce di dedicarsi alla politica, dunque conduce la vira oziosa di un “giovin signore”. La sua depressione di accresce a causa di un amore infelice per la marchesa Gabriella Turinetti di Priè. L’unica attività che gli si offre è la letteratura: importante la lettura degli illuministi francesi e di Plutarco. 1772: fonda un’accademia letteraria a Torino per la quale compone i primi scritti (in francese, lingua abitualmente parlata dalla nobiltà piemontese). 1774: inizia in francese un Journal (Diario), poi proseguito in italiano dove si rispecchia il momento più acuto e disperato della sua crisi. 1775: “conversione”, illuminazione che darà un senso alla sua vita. L’anno prima aveva abbozzato una tragedia, Antonio e Cleopatra, abbandonata subito dopo. Quando riprende in mano il manoscritto per caso, si rende conto che il suo amore per la Turinetti ha tratti in comune con quello di Antonio e Cleopatra e proiettare i propri sentimenti nella poesia costituisce l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti, una catarsi. La tragedia viene completata e rappresentata e ottiene un enorme successo. Nello stesso anno scrive altre due tragedie, Filippo e Polinice. Deve però costruirsi un bagaglio culturale che la prima formazione non gli ha dato: inizia a leggere i classici latini e italiani (il greco più tardi) e comincia a parlare esclusivamente italiano e a studiare la lingua. Per questo motivo soggiorna a lungo in Toscana. Conosce a Firenze Louise Stolberg e trova in lei il suo “degno amore”. 1778: rinuncia dei propri beni in favore della sorella in cambio di una rendita vitalizia. Ciò gli consente di non essere più sotto il controllo del re di Sardegna. Prima serie di tragedie stampata a Siena. Seconda serie stampata a Parigi. Soggiorna a lungo nella capitale francese con la contessa ed è animato dallo scoppio della Rivoluzione (scrive anche un’ode, Parigi sbastigliata) ma ben presto si rende conto che non è altro che l’inizio di una nuova tirannia, quella della borghesia. 1792: torna a Firenze dove trascorre gli ultimi anni della sua vita avendo sempre più in odio i francesi che, con le campagne napoleoniche, si erano impadroniti dell’Italia. Muore nel 1803. 1 ▸ I rapporti con l’Illuminismo Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono ancora illuministiche, sensiste, materialistiche, ma, nei confronti di quella cultura del secolo, prova una confusa insofferenza. Egli rifiuta il culto della scienza, per lui il freddo razionalismo scientifico soffoca il "forte sentire", quella violenza emotiva e passionale in cui egli ritiene consista la vera essenza dell'uomo, e spegne anche il fervore dell'immaginazione, da cui solo può nascere la poesia. La filosofia dei lumi mirava ad una regolamentazione razionale della vita passionale ed affidava alla ragione una funzione di guida e direzione degli impulsi profondi. Alfieri invece si ribella a questo controllo razionale, ed esalta la dismisura, la passionalità sfrenata senza limiti, condotta all'estremo. L'Illuminismo sottoponeva a critica implacabile la religione tradizionale, approdando in certi casi ad un vago deismo ed in altri a posizioni atee e materialistiche. Alfieri respinge tali posizioni ed è mosso da un fondamentale spirito religioso, che si manifesta in un'oscura tensione verso l'infinito, in un bisogno di assoluto. Egli ha il senso dell'ignoto, del mistero che avvolge le ragioni profonde dell'essere, dinanzi a cui l'uomo non può che restare scontento perpetuamente inquieto. Ne discende anche il fatto che, mentre l'Illuminismo è pervaso da un ottimismo fiducioso nelle sorte dell'uomo, la visione di Alfieri insiste invece sulla miseria e impotenza umana. Alfieri non rifiuta solo il progresso scientifico, ma anche quello economico, in quanto vede nello sviluppo economico solo l'incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente meschina e arida, incapace di alti ideali e forti passioni. Così resta freddo all'idea della diffusione dei lumi, l'estensione della cultura gli pare inutile a montare gli schiavi in uomini liberi. Per lui la trasformazione può avvenire solo grazie alle passioni, all'entusiasmo. Di conseguenza altri temi centrali dell'illuminismo lo trovano ostile: al cosmopolitismo contrappone l'isolamento della propria individualità, al filantropismo oppone il culto di un'umanità eroica, che spregiano il vile gregge di uomini comuni e di schiavi che compone la maggioranza dell’umanità. ▸ Le idee politiche Anche in questo caso lo scrittore si stacca nettamente dalla cultura dei lumi. E l'esasperato individualismo e l’egocentrismo lo inducono a scontrarsi con la situazione storica e politica in cui vive. Dall'ambiente angusto soffocante il giovane Alfieri fugge. Alfieri si trova in urto sia con ciò che esiste, l'assolutismo, sia con ciò che è destinato a sostituirlo, l'assetto borghese: di qui uno sradicamento dal suo tempo, uno spaesamento totale. Il punto centrale di tutta la sua riflessione è l'odio contro la tirannide, che non è la critica di una forma particolare di governo, ma il rifiuto del potere in sé, in assoluto e in astratto, in quanto ogni forma di potere è oppressiva, per questo Alfieri non ha da contrapporre alcuna concreta alternativa politica. Anche il concetto di libertà, che egli esalta contro la tirannide, non possiede precise connotazioni politiche, economiche, giuridiche, resta astratta e indeterminata Nel pensiero di Alfieri non si scontrano due concetti politici, tirannide VS libertà, ma due entità mitiche e fantastiche, entrambe proiezioni di forze che nascono all'interno di Alfieri stesso: da un lato un bisogno di affermazione totale dell'io, al di là di ogni limite di ogni vincolo esterno, dall'altro la percezione di forze oscure che, nello stesso, si oppongono a questa espansione, la corrodono. Il titanismo alfieriano è un'ansia di infinita grandezza e di infinita libertà che si scontra con tutto ciò che la limite all'ostacola. In quest'immagine di un io gigantesco, che vuole spezzare ogni limite, si proietta miticamente la stessa condizione storica di Alfieri: il suo conflitto con una realtà politica sociale mediocre, l'estraneità al suo secolo, la sradicamento, la solitudine sprezzante, l'inquietudine, la malinconia. In quest'attenzione dell'io è però implicita la sconfitta, l'impossibilità di affermare totalmente la grandezza di là di ogni limite. Il tiranno non è solo la trasfigurazione mitica di una condizione storico oppressiva, ma anche la proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso e che rende impossibile la grandezza: tormenti, angosce, incubi. Al 2 Nella Finestrina la satira si fa morale: dimostra che tutti gli uomini sono mossi da vanità e da interessi meschini, come permette di verificare la “finestrina” del titolo, aperta sul loro animo. Le commedie sono testi mediocri che rivelano un poeta ormai stanco. Fa eccezione Il divorzio, una satira sul cicisbeismo. ▸ Le tragedie Alfieri trova la forma letteraria più congeniale nella tragedia. Essa appariva genere poetico più adatto ad esprimere il titanismo alfieriano, la tensione verso la grandezza senza limiti, verso l'infinito potenziamento dell'io. Infatti nel costruire i suoi eroi, figure monumentali dall'eccezionale statura, il poeta proiettava se medesimo e le sue aspirazioni. Alfieri si colloca in posizione polemica nei confronti della grande tragedia classica francese alla quale rimprovera la prolissità che rallenta l'azione, il patetismo sentimentale, l'andamento monotono e le cantilenante dei versi alessandrini a rima baciata. Secondo Alfieri alla base dell'ispirazione poetica vi deve essere un veemente slancio passionale, il calore di un contenuto sentimentale ardentemente vissuto. Per questo il congegno drammatico deve bandire ogni elemento superfluo, come personaggi secondari, e concentrarsi su un numero limitatissimo di personaggi principali tra cui si crea veramente il conflitto tragico. La rapidità incalzante della struttura si traduce anche nello stile che deve essere egualmente rapido, conciso, essenziale. Le battute sono in prevalenza brevi, abbondano le parole monosillabiche. Il poeta punta su uno stile duro, aspro, anzi musicale attraverso continue variazioni di ritmo, la presenza continua di cause, enjambements fortemente marcati, al fine di esprimere grande intensità drammatica. Nella poetica alfieriana agiscono inoltre istanze legate al classicismo: il rispetto delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione (le sue tragedie si svolgono su un arco temporale che non supera le 24 ore, hanno una scena fissa, un'azione unitaria), coerenti con la scelta di concentrare al massimo l'azione drammatica. Nella Vita e gli spiega che l'elaborazione di ogni tragedia si articola in tre momenti fondamentali, le "respiri": ideare, stendere, verseggiare. La prima fase consiste nell'ideare il soggetto della tragedia, nel distribuirlo in atti e in scene e nel fissare il numero dei personaggi seguendo l'entusiasmo dell'ispirazione; la seconda nello scrivere per intero i dialoghi in prosa; la terza nello scrivere i dialoghi in versi. Come si vede, la creazione è originariamente un processo spontaneo, che trae alimento dalle componenti più irrazionali (le prime due fasi), ma poi quel contenuto magmatico deve disciplinarsi in una forma rigorosa. Entrambe le condizioni sono per il poeta necessarie: la tragedia non può nascere se non vi è quell'entusiasmo, quel bollore iniziale, ma egualmente non può esistere se non trova la sua perfetta organizzazione formale. Pur prestando grande attenzione allo spettacolo e ai modi della rappresentazione, il disprezzo per il pubblico per il teatro contemporanei inducono Alfieri a presentare le proprie tragedie solo in ambienti privati. ▸ L’evoluzione del sistema tragico Nelle prime tragedie, risalenti al 1775-1777, si proietta il sogno di grandezza sovrumana, lo slancio titanico di affermazione dell'io al di là di ogni limite ostacolo. Ma già nel primo sistema tragico si rileva lo scontro con una realtà ostile che soffoca quello slancio è una concezione pessimistica è scettica dell'uomo, che insiste sulla sua miseria, sulla sua insufficienza impotenza. Nel Filippo compare per la prima volta il mito del tiranno, immagine polemica di un potere che esercita una feroce oppressione. Filippo è la prima incarnazione tragica dell'individualismo alfieriano, del suo bisogno di grandezza sovrumana insofferente di ogni limite. L'esercizio della tirannide appare come totale affermazione dell'io. Con il Polinice la scelta del mito classico libera l'ispirazione alfieriana dalle esteriori motivazioni politiche, soffermandosi sull'ansia di grandezza. La successiva Antigone costituisce un ideale secondo momento della stessa tragedia. Viene 5 approfondito il tema del fato come simbolo di un'assurda negatività del vivere. Se nelle prime tre tragedie predomina la volontà eroica, nella da me non affiora invece in piena luce il motivo dell'umana debolezza. È gemella dell’Agamennone è Oreste in cui il protagonista è vittima di una forza interiore che lo trascinano inconsapevolmente al delitto e al matricidio, in un crescendo di ossessioni incubi e deliri. Questa prima crisi dell'individualismo eroico superata con la Virginia in cui vi è una celebrazione della virtù romana, delle libertà politica e civile dell'antica Repubblica. Con la Virginia si conclude una prima fase della produzione tragica alfieriana. Dopo di essa si apre un periodo di sperimentazione: con la Congiura de’pazzi Alfieri abbandona il mito classico, assumendo una materia moderna, rinascimentale. Se nella Virginia la virtù dell'eroe trionfava, cui va incontro alla disfatta. Con l'Ottavia Alfieri ritorna al mondo classico, ma si allenta la tensione eroica che era propria del primo ciclo. Compaiono nella tragedia alfieriana temi nuovi, l'intenerita contemplazione della debolezza umana, la pietà, la commozione. Nel Timoleone il poeta riprende la tematica politica della libertà, cercando nell'eroe una compensazione allo scacco subito dalla sua ansia eroica. Nel Saul l'esasperato individualismo alfieriano e il vagheggiamento di una titanica grandezza eroica entrano definitivamente in crisi. Il vecchio re d'Israele, alla vigilia dello scontro decisivo con i nemici filistei, sente tutto il peso dell'umano insufficiente debolezza, che si proietta nell'oscura maledizione divina che gli sente gravare su di sé e prende forma negli incubi, nelle angosce, nelle ossessioni che lo tormentano, nella malinconia che lo priva della volontà delle forze. Disperato, sauro cerca di reagire a questo senso di sconfitta con un estremo gesto di ribellione a Dio, nella speranza di riaffermare la sua volontà titanica contro le forze che la ostacolano, ma subito ha sulla coscienza della vanità del tentativo e da incontro alla morte, vista come unica forma di liberazione dal suo tormento e come unico modo di ristabilire la sua dignità. Quel sa Alfieri giunge alla consapevolezza della reale miseria della condizione umana. Il titano orgoglioso scopre la sua intima debolezza, il suo destino di sconfitta. Il nemico non è più al di fuori dell'eroe macho interno. Dopo il Saul il poeta vive anni tormentosi, segnati da sofferenze delusioni. Di qui nasce nel poeta più urgente bisogno di rapporti umani e questa disposizione si riflette nella sua poetica tragica, che non vede più loro di galleggiamento generoso romano chiuso nella sua solitudine, ma un'apertura altruistica, un senso di pietà per l'infelicità la sofferenza. Questi nuovi fermenti caratterizzano la ripresa della creazione tragica. Nell’Agide torna l'eroe di libertà, che non vede più sogni smisurati di potenza senza limiti, ma sublime generosità, dedizione, sacrificio di sé, non più individualistica solitudine ma apertura la dimensione sociale. Questo nuovo orientamento della poetica tragica di Alfieri trova la sua massima espressione nella Mirra che costituisce il vertice della produzione tragica del poeta. L'argomento è tratto dal mito classico, ma la vicenda si svolge in realtà in un interno familiare, "borghese". L'eroina nutre una passione incestuosa per il proprio padre. Il conflitto tragico è dato dalla lotta di Mirra contro l'urgere irrefrenabile della passione colpevole, una lotta fame disperata, perché la passione corrode a poco a poco la resistenza della volontà e la stessa vita dell'eroina, portandolo alla morte. La novità straordinaria della tragedia è che al centro non presenta più il titano, con la sua febbre di grandezza e la lotta contro i limiti che la ostacolano, ma un'umanità più semplice, in cui si mescolano nobiltà spirituale e debolezza ed in cui si rileva la miseria universale del vivere. Alfieri è in questa tragedia effonde la sua pietà per l'infelice sorte degli uomini, simboleggiata da Mirra, innocente colpevole, vittima di un qualcosa che si sviluppa dentro di lei e di cui non è responsabile. Non vi è più lo scontro della volontà dell'eroe con il mondo esterno, ma il conflitto si trasferisce nel profondo della coscienza, la tragedia si interiorizza. 6 ▸ La Vita scritta da esso La concentrazione sull'io, il soggettivismo esasperato, il culto dell'intensa passionalità, spingono Alfieri alla scrittura autobiografica. Il suo intento è ricostruire il delinearsi di una vocazione poetica, vista come il centro intorno cui un'intera esistenza si organizza. Il poeta ripercorre la sua vita alla luce dell'opera tragica e la presenta tutto incessantemente protesa raggiungere quella meta. Lo schema su cui il racconto costruito ricorda la storia di una conversione religiosa: prima dell'inquietudine oscura dell'animo, proteso verso l'oggetto che ancora ignoto, poi il momento centrale della rivelazione a cui si ispira tutto il corso dell'esistenza successiva, in un esercizio rigoroso di ascesi, in una dedizione totale ad una missione. Il racconto segue anche il progressivo formarsi di una personalità eroica, il protendersi verso l'ideale di magnanimità supreme. Nell'autobiografia non c'è posto per la ricostruzione di ambienti, costumi, aneddoti: la concentrazione si focalizza solo studio del poeta e sullo svolgimento della sua vita interiore. Nella Vita la consapevolezza del limite è presente, ma non in chiave tragica: piuttosto lo scrittore contempla distanza se stesso, le proprie debolezze, gli accidenti esterni che compromettono la sublimità eroica. Tra l'io narrante e li ho narrato si stabilisce un rapporto complesso: a volte, nei momenti di massima tensione, le due prospettive coincidono, e l’ Alfieri che scrive si identifica pienamente con quel se stesso che è stato protagonista degli avvenimenti narrati; in altri casi invece le due prospettive che gli giungono e io narrante contempla il comportamento degli ho narrato con distacco e con ironia sottolineando le sue piccole miserie: l'avarizia, la passione per i cavalli, la cura vanitose e futile per l'abbigliamento per l'aspetto esteriore… Dal punto di vista formale c'è uno stile converse regole, ma non appare mai piatto: il ritmo del discorso nervoso incalzante, il linguaggio conciso ed essenziale ed è insaporito dall'immissione di termini inusuali, personalissimi neologismi. ▸ Le Rime Carattere fortemente autobiografico hanno anche le Rime (1789). Il modello petrarchesco è evidente, nelle situazioni sentimentali come nel ricorrere di parole, formule e frasi tratte dal canzoniere. Ma Alfieri è lontanissimo dal petrarchismo settecentesco. Trae da Petrarca soprattutto l'immagine di un io lacerato da forze contrastanti, portando il conflitto interiore ad un grado di tensione violenta. Mentre il linguaggio di Petrarca tende la limpidezza, all'armonia musicale, Alfieri punta ad un linguaggio aspro, dominato da forti chiaroscuri che fanno spiccare in netto rilievo parole frasi, a un ritmo spezzato da pause, inversioni ardite, enjambements, scontri di consonanti, formule concise lapidarie, vicino a quello delle tragedie. Dominante è il tema amoroso, l'amore lontano e irraggiungibile, occasione di tormento e infelicità. Ai temi amorosi si mescola la tematica politica, anch'essa molto vicina al clima delle tragedie. Compare la polemica contro un'epoca vile meschina, il disprezzo dell'uomo che si sente superiore contro una mediocrità che gli avverte come vittoriosa e dominante nel mondo. Ritroviamo nuovamente la tematica pessimistica e la morte diviene un'immagine ricorrente, apparendo come unica possibilità di liberazione. 7
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