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Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto di "Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd", Alberto Mario Banti, Laterza

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! I. Industria culturale e cultura di massa 1. L’industria culturale La cultura di massa consiste in un sistema di produzione e circolazione di informazioni e narrazioni trasmesse attraverso una serie di media, pensato come strumenti di informazione e di intrattenimento per persone mediamente colte e con disponibilità di reddito relativamente contenute. Basandosi sul principio di semplificazione argomentativa ed essendo offerte a prezzi molto contenuti, queste produzioni culturali sono in grado di raggiungere un pubblico di vaste dimensioni. Per alcuni ambiti della cultura di massa non è richiesto alcun particolare training formativo: è il caso di fotografia, radio, cinema e musica. La produzione di queste forme comunicative ha un obiettivo commerciale apertamente dichiarato. Il deliberato orientamento verso il profitto fa di questo sistema produttivo una vera e propria «industria culturale». A seguito di ciò, si delinea una chiara tendenza ad una forte concentrazione della produzione nelle mani di un numero ristretto di imprenditori o di aziende. Questa tendenza è evidente e precoce soprattutto negli USA, durante i primi quattro decenni del XX secolo:  Cinema: Paramount Pictures, 20th Century Fox, Warner Bros, Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), ecc.  Radiofonia: inizialmente impiegata solo per usi militari, dai primi anni Venti negli USA e in Europa hanno inizio le trasmissioni per il pubblico. Negli Usa la tendenza è stata quella dell’acquisizione, da parte dei grandi network radiofonici (Nbc, Cbs, ecc.), delle emittenti locali o della pattuizione di accordi commerciali con essi in merito alla programmazione di trasmissioni. Tutte le trasmissioni, locali o nazionali, erano finanziate col sistema delle inserzioni pubblicitarie.  Discografia: dalla crisi del 1929, il mercato discografico acquista una struttura semplificata con l’acquisizione di molte piccole etichette da parte di grandi aziende (Rca Victor, Decca, ecc.).  Fumetto: con il sistema dei Syndicates, negli Usa degli anni immediatamente a ridosso della Grande guerra un numero limitato di aziende stipulavano contratti esclusivi con disegnatori e allocavano le strisce disegnate ai diversi quotidiani con cui avevano sottoscritto degli accordi. Il fumetto di emancipa da quotidiani e periodici nel 1938 con il primo comic book (pubblicazione autonoma che contiene una o più storie a fumetti con dei nuovi protagonisti: i supereroi). Il primo comic book (n. 1 della rivista «Action Comics») conteneva le avventure di Superman, di Jerry Siegel: è l’inizio di una ricca serie di altri supereroi. Sin da questi decenni è inoltre possibile individuare una chiara tendenza alla formazione di grandi concentrazioni intermediali (es. network radiofonici che acquistavano etichette discografiche). Non si trattava solo di operazioni finanziarie: erano strategie che miravano a costruire rapporti sinergici tra radio, discografia e cinema. Si segnalano importanti interventi delle autorità antitrust che posero un limite alla costituzione di concentrazioni intermediali. Le produzioni mainstream condividono una stessa prospettiva etica e medesime forme narrative e il suo spazio vede un successo crescente che parte dagli anni Trenta fino ai giorni nostri. In spazi relativamente marginali del mercato di massa statunitense degli anni Trenta e Quaranta emergono, soprattutto per la musica, stili culturalmente molto significativi, perché regolati da principi formali e da orizzonti etici completamente diversi: sono le controculture. Le produzioni culturali mainstream sono strettamente legate tra loro dall’intreccio di tre fondamentali dispositivi:  Articolazione del campo narrativo in generi,  Struttura seriale delle narrazioni,  Altissimo grado di intermedialità. 2. Generi L’identificazione di un genere deriva da alcune semplici caratteristiche principali:  L’ambientazione della storia nel tempo e nello spazio;  La natura del protagonista,  I compiti che gli sono assegnati. È tale strutturazione a modellare le aspettative del pubblico. La geografia dei generi incorpora in sé diversi effetti. Innanzitutto, coloro che apprezzano i prodotti della cultura di massa ne valutano la qualità sulla base dei legami intertestuali che l’opera intrattiene con altre che appartengono allo stesso genere (ovvero, sviluppa dei paragoni tra i vari episodi di una storia o tra storie dello stesso genere). Inoltre, le narrazioni di genere hanno di regola un impianto dualistico, nel senso che contrappongono valori culturali positivi e negativi, affidati prevalentemente a diversi personaggi chiave (sceriffo/fuorilegge; detective/gangster; ecc.). La ripetitività rende le narrazioni anche estremamente prevedibili: il piacere offerto dai film di genere deriva dalla riconferma più che dalla novità. Gli spettatori preferiscono vivere le proprie esperienze esaltanti in un ambiente che sentono di poter controllare. Quella del film di genere è quasi sempre una falsa suspense. Dunque, la geografia dei generi produce un processo di standardizzazione, che intende creare nel pubblico degli orizzonti d’attesa estremamente limitati. Il pubblico è invitato a divertirsi con questi materiali, affrontandoli in un modo confortevolmente passivo. Horkheimer e Adorno scrivevano a riguardo che «lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione»: intendevano che questo tipo di produzioni culturali non fa che incoraggiare il pubblico ad accontentarsi di strutture cognitive povere, rigide, conformiste. Corrispettiva della passività è la regressione intellettuale, ovvero l’infantilizzazione psicologica del fruitore. (vd. Baby talk nei testi delle canzoni pop, fatti di pochi argomenti, grande ripetitività di situazioni e tremenda povertà lessicale). Infine, le narrazioni di genere hanno anche un essenziale valore simbolico: le vicende raccontate sono dotate di un metasignificato, scandito con particolare chiarezza dal modo con il quale queste narrazioni vengono concluse (frequente approdo ad un finale positivo). La parabola narrativa prediletta dalle narrazioni mainstream si conclude con la restaurazione finale dei valori culturali, un ritorno alla conformità ai modelli culturali prefissati. L’happy ending indirizza inoltre il pubblico verso un rigoroso disciplinamento morale (punizione dei cattivi e restaurazione dell’ordine secondo una scala di valori morali). 3. Serialità La serialità è un ricorso frequente al racconto intervallato e sequenziale. Le storie possono essere serializzate secondo tre distinte modalità: 1. Singola storia a puntate: narra una vicenda sequenziale nell’arco di un numero limitato di episodi, con il frequente ricorso alla tecnica del cliffhanger (suspense mozzafiato). È una modalità narrativa che si afferma sin dall’inizio dell’Ottocento (es. romanzi a puntate). Un esempio è quello dei dime novels negli Stati Uniti del secondo Ottocento, ossia romanzi di sistematicamente la fondamentale figura del virile eroe salvifico. Tra Ottocento e Novecento, l’immagine dell’eroe viene sviluppata in una doppia declinazione: a) L’eroe nazional-patriottico dell’Europa del XIX secolo. È connotato principalmente da coraggio e sprezzo del dolore fisico, del pericolo, della paura, qualità costantemente circonfuse di un’aura di morte. Un portato decisivo della sacralizzazione del discorso nazionale è costituito dalla nobilitazione dell’aggressività eterodiretta della quale questo eroe si ammanta. Le figure più rappresentative dell’eroismo nazional-patriottico europeo sono gli eroi sfortunati (o sacrificali), coloro che non sopravvivono e si immolano per la propria patria: vi si intravede la figura del martirio. La natura sacrificale della morte in battaglia e l’esempio che questi eroi ne danno sono essenziali perché altri abbiano il coraggio di affrontare il medesimo, necessario, martirio. Il modello archetipico per questa declinazione dell’eroismo è il Cristo della Passione e i santi martiri. Da qui l’intenso culto dei caduti, martiri politici che si sono sacrificati per il bene dell’idea per la quale hanno combattuto. Questa figura eroica si inserisce anche negli schemi concettuali dell’ideologia socialista. b) Nella cultura mainstream statunitense, a questa figura si affianca il modello dell’eroe vittorioso, già presente sin dai captivity tales diffusi dal XVII secolo in avanti che raccontano degli attacchi indiani a qualche comunità di coloni. La figura dell’eroe vittorioso e salvifico precisa il suo profilo fino a fissarsi definitivamente nell’immaginario collettivo statunitense con la pubblicazione del romanzo western The Virginian. Tutta la costellazione eroica che ne deriva è composta da personaggi che non muoiono mai e restano permanentemente in servizio (queste caratteristiche sono, peraltro, funzionali alla struttura seriale dei formati che ospitano le loro storie). L’immortalità e l’invincibilità diventano un dato strutturale del personaggio eroico nel 1938 con l’esordio del Superman di Siegel e Shuster. Superman estremizza i caratteri dell’eroe vincente: l’eroe non è solo invincibile, ma è essenzialmente immortale. È anche un supereroe particolarmente «etico»: non uccide nessuno e non ha nemmeno bisogno delle armi. Vi è comunque un ricorso alla forza, ma è una «violenza giusta», necessariamente impiegata per la protezione dei valori positivi della propria comunità. I superpoteri di Superman sono controbilanciati da un doppio espediente: da una parte la sua vulnerabilità alla kryptonite e, dall’altra, la sua identità fittizia, meglio conosciuta sotto il nome di Clark Kent (giornalista imbranato infelicemente innamorato della collega Lois Lane, innamorata a sua volta di Superman). Questi espedienti avvicinano la figura del supereroe al lettore/spettatore, rendendolo meno distante e più credibile. Nel 1942 subentra l’eccezione di genere: Wonder Woman, ideata dallo psicologo W. Moulton Marston. La presenza di un’eroina introduce un certo scarto nelle simmetrie simboliche della cultura popolare mainstream, che è, tuttavia, ridimensionato da una serie di importanti particolari narrativi. Wonder Woman esprime un esplicito sentimento di invidia nei confronti della vera Diana Prince, che le cede la propria identità di infermiera per dedicarsi alle sue attività di moglie e madre. Inoltre, la supereroina è comunque succube dell’asimmetria nei rapporti tra i generi che domina la scala valoriale mainstream: quando perde la sua forza ogni volta che qualcuno la imprigiona collegando i suoi braccialetti di Afrodite a delle catene, W. W. viene liberata da un uomo. Nella loro lotta contro le minacce che incombono sulla home, i supereroi della cultura mainstream statunitense portano con sé un chiaro messaggio patriottico (ne è un esempio lampante Captain America, prodotto di un progetto scientifico finanziato dall’esercito americano). Insieme a questi supereroi, anche gli altri personaggi eroici che hanno fatto la storia della cultura mainstream degli USA hanno un’importante risonanza patriottica: a riprova di ciò, si veda la medaglia conferita dal presidente Carter alla vedova di John Wayne nel 1980, idealmente conferita, tuttavia, ai personaggi da lui interpretati. Di fronte a queste narrazioni eroiche, i cittadini diventano membri di una spectator democracy, ovvero di un sistema nel quale passivamente e conformisticamente ci si limita a osservare gli eventi e ad attendere che un eroe, o l’uomo solo al comando, risolva i problemi di tutto. 3. ... e vissero (quasi sempre) felici e contenti Le narrazioni dominanti di questo periodo risolvono situazioni ansiogene (la minaccia) con esiti sistematicamente rassicuranti (l’azione redentiva dell’eroe). Questo è ciò che Hollywood doveva fare: l’industria cinematografica degli anni ’30 «ha letteralmente spazzato via il grande lupo cattivo della Depressione dalla mente del pubblico con una risata» (Hays). Mentre nel genere eroico è un sospiro di sollievo a scacciare via le ansia, nei sottogeneri della romantic comedy è l’ilarità che rallegra gli spettatori e le spettatrici. Riguardo questi ultimi film, conviene soffermarsi sulla loro struttura narrativa e sulle sue implicazioni etiche. Il plot essenziale che domina in questi settori della cultura mainstream costituisce una delle modalità narrative più a lungo presenti nella tradizione letteraria dell’Occidente: un giovane vuole una ragazza (o viceversa), ma il compimento del loro desiderio è impedito da un ostacolo, finché, alla fine, l’impedimento viene superato e i due innamorati possono finalmente «vivere per sempre felici e contenti». Walt Disney dà un contributo determinante al consolidamento dello schema e lo fa con Snow White, che trasferisce la storia di una contrastata felicità affettiva nel mondo al tempo stesso profondo e infantile delle favole animate. Qui, alle canzoni è affidato il compito di illustrare, pedagogicamente parlando, il senso etico complessivo della storia. Le commedie romantiche hanno un andamento tra i più formalmente standardizzati, del quale se ne identificano tre tratti strutturali fondamentali: a) L’amore romantico (vd. Cheeck to Cheeck), che può fortunosamente aiutare a superare le preoccupazioni della vita quotidiana; b) L’obiettivo dell’innamoramento è la fondazione di un nucleo matrimoniale, sostanza etica del lieto fine di queste storie, giacché quello familiare è considerato il nucleo essenziale dell’intera comunità. A sottolineare l’importanza dell’istituzione matrimoniale concorre un particolare sottogenere cinematografico diffuso negli anni Trenta e Quaranta: la commedia del rimatrimonio; c) Al sesso si allude al massimo con qualche bacio appassionato e la stessa relazione erotica è chiaramente di natura eterosessuale. Nel 1934 tutte le majors cinematografiche statunitensi si sottomisero ad un Codice di autocensura che impediva che ne film potessero essere descritte prostituzione, omosessualità, incrocio erotico-affettivo interraziale, oscenità verbali, nudità e «baci eccessivamente lascivi». Ma le coppie vivono veramente per sempre felici e contente? Questo interrogativo è al centro delle storie raccontate dalla soap opera radiofonica, concepite per attrarre un pubblico femminile di casalinghe e concentrate prevalentemente su vicende post matrimoniali, osservate all’interno della «home». Le soap hanno in genere uno sviluppo molto drammatico e, normalmente, risolvono i numerosi climax drammatici che si aprono attraverso una narrazione che ha una forma ciclica, cadenzata ritmicamente da micro-happy ending e nuove crisi. In queste narrazioni, la tavola della moralità è stabilita da personaggi femminili di collocazione e di convinzioni molto tradizionali: sono loro ad essere collocate al centro della risoluzione dei drammi, mentre i personaggi maschili restano sullo sfondo. Il massimo valore positivo è da attribuire a un matrimonio stabile e felice, mentre i personaggi femminili trasgressivi rispetto a questi principi vanno incontro a un qualche tipo di punizione morale. L’essenza delle soap sta nel costruire storie che attribuiscono importanza a donne che non avrebbero poi molti motivi di orgoglio per la loro condizione sociale o familiare. Un esempio interessante nato da un weepy movie (melodramma strappalacrime) successivamente trasposto come soap radiofonica è quello di Stella Dallas, che esordisce al cinema nel 1937. Questo film appartiene a un gruppo di melodrammi nei quali personaggi femminili identificati come portatori di una qualche colpa (qui si parla si smodata ambizione sociale) trovano la dovuta punizione al debordare dei loro incontrollati desideri. Con il mutamento di mezzo di comunicazione cambia anche la prospettiva: la soap inizia con l’auto estromissione di Stella dalla vita della figlia e da lì in avanti lo sviluppo capovolge l’essenza etica del racconto cinematografico, giacché Stella rientra nella vita della figlia. La struttura ciclica, fatta di slancio positivo, crisi, rinascita, nuovo slancio positivo, nuova crisi e nuova rinascita caratterizza la struttura narrativa di buon successo del 1940. Gone with the Wind (1939, Victor Fleming): importante esempio di film organizzato intorno alla stessa struttura ciclica. Centrato sulla complessa formazione esistenziale di Scarlett O’Hara e sul suo tormentato rapporto con due uomini, il diafano Ashley e il più sanguigno Rhett. Scarlett attraversa una sequenza ciclica di felicità, crisi, climax drammatico, rinascita e così via, che costituisce una delle attrattive fondamentali del romanzo. Iconica e significativa la famosissima frase «Dopotutto, domani è un altro giorno!». Il film ha una struttura da soap: il film ne condivide, oltre che la struttura ciclica, anche la centralità positiva del personaggio femminile, circondato da una lunga serie di nullità maschili. I difetti di Scarlett la rendono più umana, realistica. Un elemento positivo in più è la capacità di azione autonoma propria di Scarlet: è una donna vera, motore primo della storia. Infine, visto il contesto post Depressione e pre guerra, questo film (insieme al libro) e, in particolar modo, il personaggio di Scarlett hanno trasmesso un importante invito a non demordere di fronte al destino. 4. Drammi morali Soap, libri o film del tipo di Stella Davis o GWTW introducono la dimensione del dramma familiare, risolvendola in una prospettiva favorevole al genere femminile. In altri casi, le narrazioni drammatiche hanno un più esplicito intento morale: si parla di «modern morality plays». In queste storie il vizio è contrapposto alla virtù, fino alla risoluzione del contrasto con la punizione del vizio e la restaurazione dell’ordine. Il loro rassicurante ruolo etico, come ha affermato Northrop Frye, spiega la popolarità dei romanzi polizieschi, in cui un cacciatore di uomini individua un pharmakos (capro espiatorio) e se ne sbarazza. Si inscena un dramma rituale intorno a un cadavere, in cui la condanna sociale si aggira come un esitante dito accusatore puntato sopra un gruppo di «sospetti». Il lato puramente investigativo e deduttivo si fonde con il giallo in una forma di melodramma, in cui sono rilevanti due temi: a) il trionfo della virtù morale sulla malvagità; b) l’idealizzazione delle concezioni morali che si presuppone siano quelle del pubblico. Le crime stories sono dunque avvicinate da Frye al melodramma per affrontare questioni di rilievo morale. La classica forma del giallo, nata nell’Ottocento con i personaggi inventati da E. A. Poe, A. Christie, A. C. Doyle, ecc., muta prospettive a partire dagli anni Venti e Trenta, attraverso una «virilizzazione» del genere (il detective è un «vero uomo», vissuto, con tendenze alcoliste -chiara polemica vs. proibizionismo-, cinico e disilluso) e con la comparsa di un nuovo aspetto essenziale, la figura della donna perduta, bella e moralmente pericolosa (vd. Double Indemnity, Billy Wilder, 1944). Fondamentale è che si arrivi a una punizione finale dei responsabili del piano e dell’azione criminale. Ciò che è imperativo è la restaurazione dell’ordine morale, con la punizione del pharmakos, in una moderna messa in scena rituale. Al fianco dei noir, in cui i crimini sono frutto di una pianificazione violenza e sono motivati da un’immorale avidità di beni materiali, nei melodrammi cinematografici, popolari a partire dagli grosse comunità afroamericane (come Memphis o Kansas City); dall’altro seguono i flussi migratori che stanno portando molti afroamericani del Sud a Filadelfia, Detroi, Harlem (NY), e Chicago. 1917: prima incisione discografica di un gruppo che ha nel nome il termine che definirà quel particolare genere musicale, ossia la Original Dixieland Jass Band (gruppo di musicisti bianchi). Incidono due facciate di un 78 giri, Dixieland Jass Band One-Step e Livery Stable Blues, che riscuotw grande successo presso il pubblico afroamericano. «Jass»: termine diffusosi a Chicago nel 1915, vuol dire «scopare/scopata». Si capovolge nel suo contrario, per diventare una sorta di positiva bandiera identitaria che finisce per indicare non solo il nuovo stile musicale, ma persino l’intera atmosfera socioculturale degli anni successivi alla Grande Guerra (vd. Tales of the Jazz Age, F. S. Fitzgerald, 1922). Le musiche della comunità afroamericana, e, tra queste, il jazz, sono contraddistinte da caratteristiche strutturali che le distanziano radicalmente dalla tradizione della musica occidentale a cui appartengono sia la più sofisticata musica classica, che le canzoni pop di gran moda tra la maggior parte del pubblico bianco statunitense. Le prime nascono dall’improvvisazione, non hanno bisogno di notazioni musicali (se non per i riff), possiedono scansioni e strumentazioni ritmiche che hanno un ruolo centrale e, spesso, si sviluppano attraverso una dialettica antifonale affidata al dialogo tra gli strumenti o tra le voci. Consentono, inoltre, libertà performativa corporea. La musica jazz si diffonde soprattutto come musica strumentale da ballo; tuttavia, piccole jazz band, composte da musicisti afroamericani attivi in varie città degli States, si accompagnano talora anche a delle cantanti nere, come Mamie Smith. A partire dal suo successo, la moda delle cantanti si impone sia nei teatri delle città del Sud, sia sul mercato discografico, dove le loro musiche sono apprezzate solo da acquirenti neri. Tra queste cantanti spicca Bessie Smith, che nel 1925 registra con l’accompagnamento di Louis Armstrong alla tromba il brano St. Louis Blues. Blues: l’etichetta viene applicata a musiche molto varie. Tuttavia, una forma meglio definita di blues si sviluppa in questi anni in un circuito parallelo e più nascosto rispetto a quello delle cantanti e delle jazz band. È un circuito itinerante, quello dei bluesmen: l’area nella quale vivono è racchiusa tra Texas, Louisiana, Mississippi, Alabama e Georgia. L’area più importante è, appunto, il Delta del Mississippi, area caratterizzata da feroci disuguaglianze, nella quale il 90% della popolazione è costituita da neri nel contesto della durissima segregazione razziale. Le musiche dei bluesmen afroamericani si caratterizzano soprattutto per un tipo di canzone, semplice nella forma musicale e nella struttura poetica. È un modello fissato dal primo di questi musicisti ad avere successo, Blind Lemon Jefferson, che nel 1926 incide quattro brani blues per la Paramount. A partire da questi successi, anche la Columbia e la Victor si lanciano su questo nuovo mercato, inaugurando collane identificate con l’etichetta coniata nel 1921 dalla OKeh (acquisita dalla Columbia) per la musica nera: «race records». I blues registrati da Blind Lemon Jefferson hanno tutti la stessa struttura (sequenza variabile di strofe, tutte organizzate internamente allo stesso modo). Molti altri blues introducono una soluzione che si impone come la norma: ogni verso di una strofa è diviso in due emistichi (emistichio: nella metrica classica, la prima o la seconda parte di un verso [distinte dalla cesura]: un noto e. oraziano; estens., verso incompiuto o citato a metà) con una pausa strumentale più o meno lunga che li divide. La ragione di questa struttura sta nella natura originariamente improvvisata del blues: la ripetizione dei due versi dà al cantante il tempo per escogitare il terzo verso che chiude il ragionamento. La fedeltà ad una precisa architettura fa del blues una delle musiche più standardizzate che si incontrino nel panorama della popular culture. Un’analoga standardizzazione connota anche la forma musicale: si arriva ad una struttura complessivamente standardizzata. La semplicità della forma-blues contribuisce certo al suo successo presso gli ascoltatori afroamericani che sino al 1929, anche nella più povere aree rurali, acquistano i dischi dei country bluesmen/blueswomen. La crisi del 1929, tuttavia, dà un colpo durissimo al mercato: la produzione di dischi crolla ed è a questo punto che, a sostenerla, intervengono altri personaggi che vengono dal mondo dei bianchi, gli etnomusicologi. 3. Canti dalle prigioni Similarmente a quanto successo in Europa sin dal XVIII secolo, anche gli USA assistono, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, ad un costante interesse per la musica folk. Negli anni Venti, intellettuali afroamericani legati più o meno direttamente alla Harlem Renaissance, cercano di documentare la forza e la qualità di una tradizione folclorica nera, cin una serie di contributi che valorizzano i blues, gli spiritual e i gospel. L’interesse si trasmette anche agli studiosi bianchi, che esplorano sistematicamente l’insieme di produzioni musicali, religiose o meno, prodotte dalle comunità afroamericane del Sud. Tra questi studiosi, particolare rilievo hanno John Lomax e suo figlio Alan, sia per la continuità del loro lavoro di ricerca (che copra tutto il XX secolo), ma anche per una particolare sensibilità che li induce a interessarsi tanto alle espressioni poetiche e musicali delle comunità rurali bianche, quanto a quelle delle comunità afroamericane. Nel 1933 John intraprende col figlio un viaggio di ricerca nel Sud, ricercando nelle prigioni della pura musica folk, poiché lì l’isolamento dal mondo esterno può aver conservato tracce di un precedente passato musicale. Lo stesso anno incontrano in una prigione della Louisiana Huddie «Leadbelly» Ledbetter, galeotto nero con grandi capacità musicali. I Lomax registrano nel 1934 alcune delle sue performance e, dopo essere stato scarcerato, Ledbetter diventa il loro autista e la loro guida nel Sud. A fine 1934, concluso il tour di ricerca, Lomax e Ledbetter tornano a Nord, dove Ledbetter viene fatto esibire dinnanzi alla migliore élite intellettuale di Washington, Filadelfia e New York. L’ex galeotto nero porta nel cuore di questa élite musiche che narrano di vite pericolose e disastrate, esibendosi vestito come un rude contadino nero e dando la sensazione di trovarsi dinnanzi ad un «vero» uomo del Sud che esegue della «vera» musica folk. L’espediente ha successo; tuttavia, i rapporti tra John e Ledbetter si rompono, ma non quelli tra quest’ultimo e Alan, dall’orientamento culturalmente e politicamente più radicale rispetto al padre. Sul finire degli anni Trenta, le iniziative del New Deal migliorano leggermente le condizioni economiche generali, e anche quelle di una sezione almeno delle comunità afroamericane. Sezioni di questa comunità tornano a disporre di risorse che consentono l’acquisto di un fonografo, una radio, qualche disco. Soprattutto dopo l’abolizione del proibizionismo (1933), i locali pubblici, anche quelli riservati ai neri, cominciano ad attirare un nuovo vasto pubblico e a dotarsi del jukebox (1927), la cui diffusione è rapidissima. Il mercato dei race records riprende un po’ di vita. 4. Storie blues Con la sua entrata nello spazio dell’industria culturale, il blues assiste al cambiamento dei suoi aspetti essenziali: la forza creativa dell’esecuzione improvvisata si attenua o si perde e la durata delle storie raccontate in musica viene necessariamente abbreviata. Non si perde un intero universo narrativo, tuttavia, che esercita su molti ascoltatori un fascino irresistibile: storie che a stento o per niente si sarebbero potute trovare tra le narrazioni mainstream. Il blues veniva originariamente suonato il sabato sera nei juke joints o nelle barrelhouses, locali talvolta mal frequentati. Sebbene nascano in un contesto di degrado sociale, violenza, sfruttamento, la maggior parte dei blues non costruiscono un corpus poetico che affronti sistematicamente e in modo diretto e polemico le condizioni di vita delle popolazioni afroamericane (e se ciò accade costituiscono un caso raro). Inoltre, non affrontano mai esplicitamente il tema della segregazione razziale, e men che meno la paura dell’aggressione o del linciaggio, evidentemente radicati in profondità nell’esperienza di vita e nella psiche di molti afroamericani. Semmai, il senso di ansia permanente, di fragilità, di disperata vulnerabilità, è evocato in forma astratta e indiretta: questo costituisce la forza di un genere molto “locale”, dai confini sociogeografici ben definiti. Questo senso di disagio esplora brevi frammenti di vita da una prospettiva integralmente individuale e soggettiva. I blues non raccontano per esteso delle storie, ma offrono dei lampi esistenziali, raccontati come un dialogo con sé stessi, e riassumono intense situazioni esistenziali in abbaglianti flash poetici. Inoltre, non c’è un “noi”: c’è un “io”. Questo io soggettivo è permanentemente assediato da una qualche minaccia esterna: può essere qualcosa di molto concreto, ma anche qualcosa di più indefinito (il blues, il jinx, il devil). Quest’ultimo tipo di ansia è ancor più indecifrabile ma raggelante. La paura di una minaccia esterna, come canta Bessie Smith (Mi sono svegliata stamattina con un’ombra attorno al mio letto/Non avevo il mio uomo che tenesse la mia testa dolorante), è una situazione non lontana da uno dei pilastri fondamentali delle narrazioni mainstream. Tutti coloro che cantano dei blues che li ossessionano non si presentano mai come personalmente in grado di annientare definitivamente le spaventose minacce che li assillano. Un modo per salvarsi è mettersi in viaggio e non fermarsi. Per gli afroamericani il viaggio ha uno speciale rilievo, poiché nega la forzata immobilità geografica a cui i neri erano stati costretti durante la schiavitù. Viaggiare è anche una scelta che equivale a una riconferma della riconquistata libertà. La figura è parte dell’esperienza di vita sia dei country bluesmen, sia delle cantanti blues. In quest’ultimo caso, il racconto del viaggio acquista un’ulteriore risonanza, giacché muoversi mette in discussione il legame stabile che, secondo la cultura egemone, una donna deve avere con la sua casa e la domesticità. In alcuni casi, il viaggiare diventa un’ossessione speculare a quella provocata dai blues. Se il viaggio fisico non reca sollievo, si può provare il viaggio offerto dalla droga o dall’alcol. In genere i testi sono radicalmente distanti dall’ottimismo moralistico e pieno di rimozioni dell’etica mainstream: tossicodipendenza o alcolismo sono descritti senza ipocrisia alcuna, in forma neutra e senza alcun particolare accento di condanna. Molto spesso, il senso di angoscia che assale l’«io narrante» ha una specifica causa concreta: una delusione d’amore. Rispetto alle canzoni pop, su questo argomento le canzoni blues presentano una differenza essenziale: la delusione d’amore non è mai soffusa da una dolce malinconia, ma è piuttosto uno shock brutale. È qualcosa che può spingere a reazioni molto violente, che arrivano all’omicidio. Inoltre, nel contesto musicale blues, la “guerra dei sessi” è un’espressione assai meno metaforica di quanto non si assuma di solito. Anche nelle canzoni eseguite da interpreti femminili, un torto ricevuto può essere la causa di una devastante depressione, cos’ come può scatenare una reazione estremamente violenta. Com’è facile immaginare, il canzoniere blues ospita anche numerose prison songs, ossia canti in cui un carcerato/una carcerata esprime la sua sofferenza per il trattamento ricevuto in posti, di norma, poco meno che infernali, in cui si manifesta la nostalgia per i luoghi e per le persone amate. In queste canzoni non c’è un universo morale condiviso che deve essere restaurato attraverso un’adeguata punizione comminata al pharmakos. C’è uno spavaldo rifiuto della logica stessa dell’imprigionamento: c’è solo il desiderio di uscire e se c’è un agente delle istituzioni, questo non è un personaggio salvifico, ma un aguzzino che ti marca la schiena con i segni delle battiture. Ritornando alle storie d’amore, non ci sono storie d’amore a lieto fine. L’unico vero momento positivo sta nelle gioie del sesso, le cui immagini sono evocate talvolta in modo greve (vedi la patata resa bella calda col bacon sopra di Bessie Smith). Inoltre, le storie d’amore narrate nel canzoniere blues possono anche alludere ad attrazione di tipo omosessuale (come accade nelle canzoni di Gertrude «Ma» Rainey, notoriamente bisessuale). Di fronte a sequenze narrative di quella natura, non sorprende che le congregazioni protestanti nere abbiano condannato il genere come una musica immorale. Comunque, è questa forza sovversiva delle regole etiche dominanti che rende il blues straordinariamente importante in una storia della cultura di massa. vite senza speranza, accompagnato dall’incessante incombere della morte. Le storie d’amore infelici sono spesso affidate ad una voce narrante esterna, che racconta storie gotiche non di rado concluse da un finale gore. Storie di questo genere derivano, sia dal punto di vista musicale che poetico, dalla tradizione folk di origine anglo-scoto-irlandese, e dell’immaginario popolare europeo conservano l’atmosfera da incubo dark. Quando il punto di vista si sposta e diventa soggettivo (come capita spesso nelle canzoni hillbilly degli anni Trenta-Quaranta), l’influenza musicale e poetica del blues diventa evidente, come nei Blues Yodels di Jimmie Rodgers. Come nel blues, tutta questa costellazione di storie sentimentali infelici diventa una sorta di sublimata metafora per parlare in via indiretta di vite difficili, di famiglie disfunzionali, di disastri economici, sociali e ambientali che non danno tregua. In altri casi i temi vengono affrontati anche direttamente: le disaster songs sono uno dei generi di maggior successo della prima onda hillbilly. Anche i temi che hanno a che fare con lo sfruttamento economico e sociale sono intensamente esplorati. In nessun caso, però, questa sensibilità sociale si trasforma in un’agguerrita coscienza di classe. Il tutto è circondato da un ferreo fatalismo, che induce ad accogliere la sconfitta con tetra e cristiana rassegnazione. Peraltro, persone disperate, senza una soluzione politica a portata di mano per alleviare la loro sofferenza, senza alcuna possibilità di riscatto che sia alle viste, possono cedere e abbandonarsi alla delinquenza → si fa largo una parata di hoboes, spostati, ubriaconi, banditi, galeotti che tentano senza successo una loro estrema carta delinquenziale. Quasi mai c’è una condanna moralistica per il gesto violento. Mai arriva il detective che ricostruisce il giusto ordine morale. D’altro canto, non c’è nemmeno una reale partecipazione al dramma: sono una delle tante cose che possono accadere. L’underworld criminale hillbilly è un mondo esclusivamente maschile. Le donne assistono, piangono o sono lontane dai loro compagni imprigionati nel buio di una cella. Questa visione, modellata intorno all’etica delle sfere separate, trova espressione soprattutto in quelle canzoni in cui si descrive la vita del vero montanaro, o ancor di più quella del vero cowboy, indurito dal lavoro pesante ma libero e solitario. Anche nelle musiche hillbilly, comunque, questa etica è oggetto di una contestazione femminile piuttosto continua, come in Single Girl, Married Girl della Carter Family o in I Wanna Be a Cowboy’s Sweetheart di Pasty Montana (lo vuole per fare le stesse cose che fa lui). Non è necessario intravedere in questi testi una consapevolezza protofemminista (che non c’è), così come nelle canzoni «sociali» non si può intravedere alcuna forma di coscienza di classe, né alcuna remota sensibilità per il problema razziale (assente da tutto il canzoniere hillbilly). In questo canzoniere si trova conferma della complessità dell’immaginario hillbilly che è variegato, contraddittorio. C’è una parte “strana” e una parte invece vicina, per sensibilità etica, sviluppi narrativi e impianto musicale, al mondo delle pop songs. Sin dal 1943, infatti, diverse canzoni che nascono come hillbilly vengono riarrangiare e rilanciate come pop songs. Le canzoni più adatte per questo crossover sono le novelty songs, o ancora canzoni sentimentali/malinconiche. 7. Folk radicale Jazz, blues, musica hillbilly non hanno una dichiarata valenza politica. Sono lamenti individuali o descrizioni straniate di eventi più o meno particolari: gli ascoltatori hanno il compito di attribuire un senso alle storie cantate, senza trarne conclusioni morali o politiche. Nel panorama folclorico statunitense, tuttavia, emergono in questi anni canzoni che vogliono prendere una chiara posizione politica. In parte sono diffuse da organizzazioni sindacali radicali, in parte nascono sul campo, come durante i conflitti sindacali promossi dai lavoratori tessili di Gastonia, nel 1929, o dai minatori di Harlan Country nel Kentucky, il cui acume più drammatico si raggiunse nel 1931. Le canzoni sono semplici e spesso derivate dal patrimonio di canzoni che appartengono alla musica hillbilly, mentre i testi, ovviamente, sono adattati alle esigenze delle lotte sindacali. Negli scioperi di Gastonia e del Kentucky un ruolo cruciale è svolto dalle organizzazioni sindacali costituite dal Communist Party. Nonostante il CP-US incoraggi queste lotte sindacali radicali (e, al contempo, anche le lotte alla segregazione razziale), lo stesso non sembra particolarmente incline a sostenere e diffondere una musica come quella creata a Gastonia e nel Kentucky, giudicandola come semplice e ripetitiva, poco adatta a trasmettere contenuti e spirito rivoluzionari e preferendole musiche di impianto modernista. Tuttavia, dal 1933 sulle pagine dei giornali comunisti intellettuali autorevoli come Lan Adomian propongono un deciso mutamento di rotta. Da allora fioriscono iniziative che intendono lanciare musicisti afroamericani o bianchi. Musicista particolarmente adatto è Woody Guthrie, che si è esibito in canzoni hillbilly e tradizionali che, col passare del tempo, si sono riempite di testi di critica sociale e politica. Insieme al giovane produttore discografico John Hammond e Alan Lomax, Guthrie si fa promotore di iniziative ricche di significato politico e culturale. Hammond scopre nel 1933 Billie Holiday, all’epoca diciottenne. Sarà lei ad interpretare al Café Society nella West Side di Manhattan il brano Strange Fruits, che descrive, con immagini poetiche di grande suggestione, gli effetti di un linciaggio. Per la prima volta, in modo così diretto, viene descritta una pratica tanto orripilante quanto diffusa, in particolare negli Stati del Sud. Il disco su cui viene incisa la canzone viene registrato alla Columbia e viene lanciato sul mercato nell’aprile del 1939, scatenando reazioni contrastanti. Il disco commercialmente va bene e fa definitivamente di Billie Holiday una delle star dei race records dell’epoca. Le iniziative del folk radicale proseguono, col concerto Grapes of Wrath Evening organizzato dall’attore radicale Will Geer nel marzo del 1940 (in occasione di una raccolta fondi a favore dei lavoratori migranti della California). A distanza di due mesi dal concerto, Guthrie (che lo ha entusiasticamente lodato nella sua rubrica sul «Daily Worker») incide Dust Bowl Ballads, una raccolta di 6 dischi a 78 giri per la RCA Victor. Sul finire dell’anno, un gruppo di giovani cantanti radicali fonda gli Almanac Singers: suonano musiche d’impostazione militante, in costante polemica col music business. All’inizio sono risolutamente contro la guerra e le reazioni al loro disco del 1941 sono favorevoli dai giornali radicali e anche dagli isolazionisti di destra, ma negative da parte della stampa mainstream e della coppia Roosevelt. Nel maggio 1941 le canzoni pacifiste di Guthrie e degli Almanac Singers sono oggetto di una seduta dell’House Un-American Activities Committee, commissione d’inchiesta istituita nel 1938. Intanto Guthrie e i suoi amici virano nettamente a favore di una sorta di interventismo democratico dopo l’affondamento di una nave della marina statunitense da parte di un U-Boat tedesco nell’ottobre 1941. Pearl Harbor dà un’ulteriore spinta al cambiamento, sia perché il repertorio pacifista è ormai vanificato, sia per la scelta del CP-US di impegnare il partito in una linea di non-sciopero a sostegno della guerra. La conversione degli Almanac Singers alla guerra patriottica sembra funzionare, sebbene essa non passi inosservata agli occhi dei commentatori mainstream che ne stigmatizzano duramente l’incoerenza. Le critiche costano agli A.S. il loro contratto con la Decc e la possibilità di apparire nei programmi radiofonici dell’OWI (Office War Information). 8. Canzoni militanti Se si esamina l’insieme dei brani politicamente impegnati, ci troviamo di fronte a tre tipi diversi di narrazione: a) Narrazione straniata. È la meno frequente: una voce narrante esterna descrive, in tono neutro, eventi sui quali non esprime alcun giudizio morale. Il vertice espressivo è qui raggiunto da Strange Fruit, in cui l’allusione polemica della “scena pastorale del galante Sud” non è riferita solo alla mitografia letteraria relativa alle classi alte meriodionali, ma anche al best seller della Mitchell Gone With the Wind. Billie Holiday interpreta il testo con integrale minimalismo, raggiungendo il massimo dell’intensità senza trasformare la canzone in un melodramma. L’elegante minimalismo proprio sia del testo che della musica, come anche dell’interpretazione vocale, è sideralmente distante dalla produzione di Guthrie, degli Almanac Singers e del resto dei musicisti militanti. b) Le canzoni militanti di questi ultimi sono povere e non si astiene, come fa invece Strange Fruit, dall’imporre all’ascoltatore una morale. Qui, la voce narrante esterna ha una dignità morale che si presuppone essere superiore, dovendo svolgere una funzione didattica portatrice di un messaggio politico. Qui si ritrovano le canzoni più dense, che sa come sono andati i fatti e per questo si colloca su un piano morale superiore. È una modalità tipica del sermone religioso, del testo politico o del comizio pubblico. Questa narrativa costituisce uno scarto netto rispetto alla maggior parte della produzione poetica blues o hillbilly, proprio per la superiorità morale della voce esterna. La verità di cui si parla nel canzoniere radicale si fonda su una visione semplice e nettamente dicotomica della struttura sociale: i buoni da una parte (i working folks) e i cattivi dall’altra (bankers, landlords, preachers) → o con noi o contro di noi. Le canzoni raccontate in queste canzoni devono essere dei racconti dotati di una loro evidente verità etica, rimarcata comunque in forma didattica cosicché la scelta di chi ascolta viene limitata all’alternativa secca tra accettare o rifiutare in toto. Tale struttura è particolarmente evidente nel caso delle agiografie degli «eroi» militanti, come Sacco e Vanzetti nelle canzoni di Guthrie. c) Canto in soggettiva, in cui il pubblico militante si aspetta che il musicista sia «uno di noi», che ci sia autenticità da parte del cantante (che non significa necessariamente autobiografismo). 9. Mappe dell’audience 1944: Guthrie decide di scrivere un contro inno, This Land is Your Land. Il modello da cui Guthrie attinge è interessante: si tratta della linea melodica di due canzoni originariamente incise dalla Carter Family (la prima una triste canzone d’amore; la seconda un gospel). È un esempio di una pratica ricorrente nel blues, nell’hillbilly e nel folk: il testo della canzone è spesso originale, ma la musica non lo è. Decine e decine sono le cover incrociate di canzoni che nascono come blues o hillbilly e che poi sono cantate rispettivamente da cantanti bianchi o cantanti neri. Il reticolo degli scambi intertestuali è fittissimo: i musicisti di questo universo musicale si conoscono, si scambiano informazioni, mescolano matrici e modelli, superando la cosiddetta «linea del colore». L’eccezione più evidente è costituita dai testi delle canzoni militanti, che impiegano una retorica molto diversa rispetto alle liriche blues o hillbilly (sebbene queste canzoni ne possano subire l’influenza musicale). A dispetto del fitto reticolo intertestuale, è tuttavia necessario ribadire che fino alla fine della II G.M. i diversi stili continuano ad appartenere a circuiti comunicativi nettamente distinti. Musicisti neri eseguono gospel o blues per un pubblico nero; musicisti bianchi eseguono musica hillbilly per un pubblico bianco; il folk militante attira un pubblico di militanti fedele. Se ci sono dei crossover, di solito vengono rimossi o negati. Tutte queste contronarrazioni rimangono isolate le une dalle altre, confermando a pieno la geografia razziale e sociale degli USA alla vigilia della guerra. Se la separatezza è la cifra essenziale di questi particolari stili musicali, quasi l’esatto contrario vale per la cultura di massa mainstream, le cui produzioni mirano a rimuovere o ignorare i confini di classe, etnia, orientamento politico, offrendosi come una panacea per tutti coloro che hanno bisogno contesto delle high school vigono anche nell’esperienza dei rapporti erotico-affettivi. A differenza del primo contesto, nelle scuole è preminente il cosiddetto dating system e il “going steady” (relazione permanente) è criticato da tutta la «migliore» comunità scolastica, considerata come una pratica troppo connotata socialmente poiché diffusa nella classe bassa o tra gli afroamericani, oltre che troppo pericolosa poiché induce a eccessive intimità erotiche. Anche qui la regola fondamentale è quella del doppio standard: ragazze «facili» vs. ragazze che «sanno tenere a bada i partner», le ultime ovviamente favorite, mentre i cosiddetti ladies’ men sono al top della considerazione di tutti. In realtà, come dimostra la doppia inchiesta di Alfred Kinsey (1948 e 1953) sulla sessualità maschile e quella femminile, i comportamenti effettivi divergono drammaticamente dall’etica pubblica che domina la socialità giovanile, sia nelle high schools che tra le gang di strada → stato di terrificante tensione. Le strade di maschi e femmine divergono sempre. I maschi hanno di fronte il chiaro obiettivo di cercare un lavoro e, in subordine, farsi una famiglia. Per le ragazze, gli obiettivi sono rovesciati: matrimonio, stare a casa, occuparsi di marito e figli e abbandonare, qualora ci fosse, l’attività lavorativa. Negli anni della Depressione vengono perfino introdotte norme che limitano le assunzioni delle donne sposate. Le produzioni culturali dell’epoca stigmatizzano duramente le ambizioni professionali dei personaggi femminili e, negli anni Trenta, il 78% degli intervistati per un sondaggio approva l’idea che le donne sposate debbano starsene a casa. In realtà, la tendenza sul mercato del lavoro è un po’ diversa, in particolare per le ragazze di classe medio bassa che devono far quadrare il bilancio familiare. Negli anni Trenta l’occupazione femminile cresce dal 25% delle donne adulte al 27,6%. Non è una testimonianza di emancipazione femminile e si denota una forte disparità di genere sul lavoro. Questo conferma la mentalità dominante secondo la quale la donna che lavorano lo fanno perché ne hanno un assoluto bisogno o sono motivate da una perversa spinta caratteristica. I media più seguiti veicolano i miti e i sistemi narrativi fondamentali che innervano la cultura mainstream, e sono apprezzati trasversalmente da tutti i diversi segmenti della cultura giovanile. Ad esempio, mentre i ragazzi delle gang di strada declinano l’immagine di mascolinità eroica e vincente trasmessa dai film di Hollywood nell’esibizione della forza e dell’audacia richiesta in qualche rissa o altre trasgressioni, i ragazzi delle high schools vertono verso il civismo conformistico. Allo stesso modo, tutte le ragazze, siano esse inserite o meno nel circuito scolastico, sognano si riuscire a diventare una cantante, una ballerina o un’attrice. 3. Identità controcorrente All’interno di questo universo si nota l’emergere di comportamenti nettamente divergenti. Tale alterità di esprime attraverso particolari scelte culturali che vogliono costruire uno stile distintivo: scelte di consumo, di abbigliamento, di comportamento nell’impiego del tempo libero. In alcune gang giovanili sono popolari le jail songs/crime songs, cultura musicale condivisa anche dai giovani hoboes. Questi ultimi, tuttavia, non hanno alcun interesse a costruirsi delle strategie della distinzione che li differenzino particolarmente dagli altri e che “li mettano in mostra”: la vita che hanno scelto li sottrae sistematicamente alla vista degli altri. Ciò nonostante, in questi anni la figura dell’hobo comincia a conquistarsi una sua dignità culturale: molte canzoni hillbilly o blues ne raccontano ansie e sofferenze e su di loro viene proiettato un alone romantico. Quindi, gli hoboes sono un oggetto di costruzione culturale. Protagonisti di una propria consapevole strategia della distinzione sono, invece, tre gruppi giovanili particolari: a) Pachucos californiani. Sono i ragazzi della comunità messicana soprattutto della California del Sud, sospesi tra due mondi: né ben integrati nella comunità di origine, piuttosto in disfacimento, né accettati nella società bianca. In tutta risposta, essi creano delle gang giovanili proprie e segnano confini sociogenerazionali con l’adozione di un abbigliamento vistoso, lo zoot suit. Probabilmente è il primo esempio evidente di subcultura giovanile che costruisce strategie della distinzione attraverso scelte di consumo particolarmente bizzarre e tuttavia dotate di un senso simbolico chiaro. Il modello è l’abbigliamento dei gangster o dei musicisti jazz, solo che i pauchucos lo estremizzano, sia nelle fogge che nei colori dei vestiti. Queste scelte non sono fatte per suscitare l’apprezzamento di una società profondamente razzista e le tensioni scoppiano dopo l’ingresso degli Usa in guerra, con un’occasione offerta da una norma che nel 1942 proibisce la produzione di vestiti ampi come quelli richiesti dallo zoot suit. Lo scontro di ha tra i soldati/marinai dell’esercito arrivati a Los Angeles in attesa di partire per la guerra e i pauchucos. b) Giovani afroamericani. Le comunità afroamericane rispondono allo stato permanente di segregazione legale o informale, oltre che con le rivolte, anche con impressionante creatività musicale e coreutica, soprattutto nella forma del jazz e delle danze costruite intorno agli stili jazz che si susseguono sin dall’immediato primo dopoguerra. La moda delle danze di derivazione afroamericana come il charleston si diffonde con la frequentazione da parte di una piccola ma significativa sezione del pubblico bianco di locali dove queste espressioni artistiche vengono messe in scena. Tra gli anni Venti e Trenta l’interesse per il jazz cresce, pur rimanendo limitato ad ambiti geosociali piuttosto circoscritti e, soprattutto, ancorato allo sweet Jazz (jazz sinfonico connotato da ampio impiego di arrangiamenti classici e utilizzo degli archi). Nei quartieri e nei locali frequentati dai neri a NY, Chicago, San Francisco, iniziano ad apprezzare l’hot jazz (es. Duke Ellington, Benny Goodman), che non impiega alcuna strumentazione classica e usa ritmi veloci, con largo spazio alle sezioni ritmiche. Ciò che rende questa musica prerogativa dei giovani è anche il fatto che essa si presti ad essere ballata con stili di danza esuberanti e allegramente fisici. Balli come il boogie-woogie si trasformano ben presto in un doppio simbolo: poiché di evidente derivazione coreutica afroamericana diventano un forte segno di appartenenza comunitaria; inoltre, essendo balli fisicamente accessibili solo ai giovani, creano una frattura generazionale all’interno delle comunità. c) Giovani fan. Tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta il Paramount Theatre di NY diventa una sorta di tempio per un nuovo culto di massa, la cui devozione rimbalza tra il sentimentalismo pop di Sinatra e il nuovo stile jazz, lo swing di cui Benny Goodman e altri sono i portabandiera. Si ha un fenomeno di isteria collettiva, soprattutto dal pubblico femminile. Questi comportamenti sono forme rituali che manifestano una distinta identità generazionale: il culto di questi musicisti che fanno ballare balli esclusivamente giovanili o che sono praticamente coetanei significa rimarcare un processo di allontanamento e di estraneità rispetto al mondo dei “grandi”, degli “adulti”. Per le ragazze c’è qualcosa di più: è un modo per manifestare in forme esplosive tutta l’insofferenza nei confronti delle regole che condizionano l’espressione dell’identità e della sessualità femminile. Come notano tre studiose (Ehrenreich, Hes e Jacobs), questi comportamenti sono espressione di un giovanissimo protagonismo femminile sessualmente molto connotato, che permette di liberarsi da un sistema di norme, segni, valori, tattiche retoriche messe in atto per trasmettere un’immagine di “ragazze per bene”, sessualmente autocontrollate, che è tremendamente falsa. Dunque, gli universi giovanili stanno sperimentando autonomi percorsi identitari costruiti attraverso il ricorso a pratiche cariche di imprevedibili significati simbolici. Ciascuno di questi gruppi riprende materiali già diffusi nella cultura di massa e li ricompone in una cornice di senso nuova. L’indeterminatezza sociale di questi sistemi simbolici o l’assenza di evidenti contenuti politici non li rende meno urticanti per gli osservatori mainstream. Questi esempi suggeriscono l’idea che se non ci si sente a proprio agio nella collocazione sociale nella quale ci si trova, si possono inventare forme espressive creative che, proprio per la loro indeterminatezza, possono attrarre chiunque. 4. «Khaki-wackies» 7 dicembre 1941: attacco a Pearl Harbor. Con l’entrata in guerra degli USA, le donne vengono assunte in massa in ogni tipo di settore professionale. La pressante campagna governativa di chiamata delle donne al lavoro è tuttavia chiara: «only for the duration». Ma intanto i rapporti di genere cambiano e sembrano prendere un nuovo profilo. Molte giovani sono incoraggiate a compiere il loro dovere patriottico sull’onda del supporto al «morale» della nazione (J.E. Hoover, FBI), partecipando alle iniziative di solidarietà per i soldati organizzate dall’USO (United Service Organization) e da altre associazioni locali. Le autorità militari, attraverso associazioni femminili locali, o attraverso altri canali istituzionali, reclutano ragazze perché si presentino ai locali da ballo allestiti per i militari e siano disposte a ballare per una serata con loro. Molte ragazze, tuttavia, sfruttano l’insolita situazione creata dalla guerra per mettere in atto una loro più asservita e sfrontata sessualità. Sono le khaki-wackies («pazze per il grigioverde), anche dette victory girls o good-time Charlottes. Il fenomeno non è generalizzato e riguarda soprattutto quelle ragazze che vengono da famiglie nelle quali i meccanismi di controllo e di socializzazione si sono temporaneamente o definitivamente allentati (anche se da questo fenomeno non sono esclusi anche ragazzi e ragazze provenienti da contesti familiari stabili). Quando il fenomeno sembra diventare incontrollato, nelle reazioni delle autorità militari o degli organi di stampa mainstream le preoccupazioni moralistiche si trasformano in ansia sanitarie, alimentate da una campagna ossessiva volta a proteggere i soldati dalle infezioni veneree. La questione viene affrontata con retorica sessista e razzista: le donne sono più inclini alla sessualità, sono considerate i principali vettori delle malattie veneree; queste circostanze si accentuano se la donna in questione è nera. In più, i soldati hanno diritto alle loro soddisfazioni sessuali e se contrae la malattia è considerato come la vittima. Durante la guerra, moltissime donne considerate come “sospette” vengono arrestate e detenute forzosamente in campi di prigionia dopo una visita medica, in attesa dei risultati. Se risultano positive, sono sottoposte a un periodo di cura e di quarantena in istituti appositi. Le donne sono quindi considerate dei soggetti pericolosamente sensuali. È un’idea contrastata dal suo «doppio positivo», attraverso le rappresentazioni femminili utilizzate dall’OWI per spingere le donne a partecipare attivamente allo sforzo di guerra. Sono immagini di donne volitive e rassicuranti, dedite alla famiglia e che non viene associata ad una licenziosità sessuale sebbene lavori in ambienti ancora prevalentemente maschili. L’esempio principe è quello di Rosie the Riveter (l’operaia in tuta blu che dice “We can do it!”). Non è particolarmente seducente, ma ha l’espressione decisa di una vera democratica. Tuttavia, l’immagine della donna lavoratrice o che si arruola nei corpi femminili risulta minacciosa per molti uomini che temono che a guerra finita le donne non se ne tornino docili a casa. È così che si preferisce una diversa figura femminile, più graziosa e seducente. Il processo si avvia autonomamente nella grafica pubblicitaria e dà i natali alle famose pin-up. 5. Pin-up Le pin-up sono una rappresentazione seducente della «vera donna americana», così come se la immaginano all’OWI. Le immagini sono di due tipi: da un lato di tratta di giovani attrici in voga (es. Betty Grable); dall’altro hanno un grande successo i disegni che sin da ottobre 1940 vengono realizzati da Alberto Vargas per la rivista Esquire. Per accordo tra editore e forze armate americane, Millionaire. La componente paranoica che attraversa le narrazioni di massa esplode in modo ossessivo e rafforza il peculiare ossimoro proprio della mentalità mainstream: è lo spasmodico desiderio di happy ending. A propiziare il mutamento di orizzonti è certamente l’evoluzione dei rapporti internazionali, soprattutto dopo il 1949 (primo test atomico URSS) → capillare socializzazione all’anticomunismo. La paura aumenta quando, nel 1950, scoppia la guerra di Corea. Ha inizio una parossistica ricerca e repressione dei comunisti negli apparati amministrativi statunitensi, così come nel sistema dei media e nelle università. Nel 1954 una norma proibisce definitivamente l’esistenza di un partito comunista sul territorio degli Stati Uniti: ne è una dimostrazione il maccartismo, termine col quale si indica la «caccia alle streghe» propugnata dal senatore repubblicano J. McCarthy dal 1950 al 1954. Le forme narrative mainstream aderiscono perfettamente a queste spinte politico-culturali che vengono dalla società statunitense: non solo offrono tranquillizzanti narrazioni che danno conferma all’ottimismo sollecitato dalle buone performance del sistema economico, ma danno anche una forma eticamente connotata alle ansie paranoiche che si impadroniscono di una parte significativa dell’opinione pubblica a livelli forse mai visti nella precedente storia USA. La metafora della «home» attaccata da qualche nemico funzione perfettamente come dispositivo di base su cui costruire storie che conducano alla nequizia morale dei nemici. I generi tradizionali del western o del giallo conservano talora una declinazione allusiva alle minacce vere o presunte; talaltra trovano un più diretto adattamento ai timori coevi, narrando di personaggi in lotta contro la minaccia comunista, come Mike Hammer (veterano diventato detective). Questo è un’estremizzazione dell’eroe maschile, non solo nel modo in cui fa uso della violenza, ma nell’evidente inclinazione misogina che manifesta nei suoi rapporti con le donne. Fondamentali nella narrativa nella lotta alla minaccia che incombe sulla home sono i personaggi di John Wayne, come in Fort Apache (1948), She Wore a Yellow Ribbon (1949) e Rio Grande (1950). I suoi personaggi sono più allineati al profilo classico di mascolinità eroica. Ad ogni modo, vale il principio della legittimità etica di una violenza redentrice. Come osserva Richard Slotkin, giacché il western stesso si propone come un mito delle origini americane, ciò implica che la sua violenza è una parte essenziale e necessaria del processo attraverso il quale la società americana si è strutturata e attraverso il quale i suoi valori democratici vengono difesi e potenziati. Tre evoluzioni dei modelli narrativi tradizionali: 1. Imposizione, dal periodo della guerra, di storie che raccontano di team eroici in azione, soluzione più adatta alle esperienze che molti hanno vissuto prima durante la IIGM, ora con la guerra di Corea. Questi film indagano le psicologie dei componenti dei team, talora pongono una certa enfasi sulla loro composizione plurietnica (anche se i teamleaders sono WASP); infine, permettono una combinazione di morti sacrificali (personaggi relativamente marginali) e di vittorie eroiche ma dense di penosa sofferenza. 2. Imposizione definitiva del racconto di fantascienza quale strumento narrativo capace di descrivere nel modo più suggestivo le paure legate a una iper tecnologizzazione dei conflitti bellici. La suggestione che promana un libro come 1984 di Orwell offre un modello enormemente influente anche se, ovviamente, sottoposto negli anni successivi a infinite rielaborazioni. Nonostante le dichiarazioni contrarie dello scrittore stesso, alla sua uscita critica e pubblico interpretano la storia come una riflessione sulla minaccia del totalitarismo comunista. In altri casi l’intenzione critica è rivolta alle strutture fondanti della società statunitense contemporanea (Fahrenheit 451, 1951) e resta, anche qui, la struttura narrativa di un “giusto” che si sottrae al nuovo totalitarismo di una società nella quale i libri sono proibiti. Con I Am Legend (1954) lo scenario post-apocalittico fa da scenario ad una storia senza lieto fine, ovviamente corretta nelle trasposizioni da romanzo a film. L’inesorabile lieto fine rassicura sulle capacità di reazione che la tecnologia ha. Particolarmente in voga in questo periodo sono le storie che raccontano dell’attacco alieno, dove talora il parallelismo alieni/comunisti è molto evidente. 3. Talora le majors di Hollywood accettano di produrre opere di pura e diretta propaganda (es. The Iron Curtain, 1948). Questi film, esprimendo le ossessioni maccartiste, presentavano un mondo in cui i capoccia comunisti spietati, corrotti e cinici tramavano contro il rovesciamento della democrazia americana. Gli studios collaboravano con il Dipartimento di stato e con altri organi del governo federale per assicurare che non fossero esportati film inopportuni. Produzioni di questo tipo sono indotte anche dal pesantissimo attacco politico che Hollywood subisce nel 1947, con un’inchiesta aperta dall’HUAC. Diciannove sceneggiatori, attori e registri sospettati di attività sovversive sono convocati davanti alla Commissione. Nello stesso anno i responsabili delle majors decidono di licenziare i dieci condannati e di allontanare tutte le persone sospettate di filocomunismo. 3. Arriva la televisione A fine anni ’40 il cinema vive un momento di dura difficoltà. In primis, nel 1948 una sentenza della Corte Suprema costringe a vendere le catene di sale cinematografiche possedute dalle maggiori case cinematografiche. Le norme antitrust costringono le case cinematografiche a mutare le loro modalità organizzative e ad abbandonare la struttura verticalmente integrata. La produzione dei film viene ora affidata a singole aziende indipendenti che contattano sceneggiatori, registi e attori, mentre le majors si riservano il ruolo di finanziamento e distribuzione. Ma il colpo più duro viene inferto dalla concorrenza subita dal cinema con l’arrivo della televisione. Il modello televisivo si modella sin da subito sulla forma di quello radiofonico, le emittenti sono aziende private che si finanziano attraverso la vendita di spazi di programma a inserzionisti pubblicitari. Il sistema cambia in particolare dopo che nel 1959 uno scandalo mostra che diversi programmi a quiz, prodotti da agenzie pubblicitarie, erano stati manipolati per far vincere concorrenti particolarmente telegenici. Da allora, la produzione/supervisione dei programmi passa interamente dalle emittenti alla dirigenza dell’emittente. Fondamentale è la valutazione dell’audience. Con l’espansione dei network nazionali ogni network può sottoscrivere contratti con le emittenti autonome per la trasmissione di programmi concepiti dal network centrale. L’industria cinematografica, dovendo far fronte alla concorrenza della televisione, deve ricalibrare la propria produzione sui gusti giovanili: i giovani sembrano continuare a prediligere il cinema e, in particolar modo, la novità dei drive-in. Tuttavia, né le innovazioni tecnologiche, né le acquisizioni (in opposizione alle norme antitrust) che hanno luogo in quegli anni riescono a invertire la tendenza. Ciò che consente di superare la grave fase di crisi è un’alleanza strategica con i network televisivi. L’alleanza assume due forme: da un lato le TV noleggiano/acquistano gli archivi filmici delle case cinematografiche; dall’altro i network televisivi e le majors cominciano a collaborare per la produzione di telefilm. Ne è esempio il capostipite di questi progetti, avviato dal contratto stipulato nel 1954 tra Walt Disney e il capo della United Paramount Theaters (che acquisisce il network ABC nel 1953). Visto il successo, i contratti con le altre majors per la produzione di film o di serie televisive si moltiplicano: alla fine del 1956 Hollywood produce il 71% della programmazione televisiva di prima serata (nel 1965 il 71%). Inizialmente le trasmissioni televisive sono dei riadattamenti dei programmi radiofonici trasferiti in video. Vengono concepiti programmi che evitano argomento complessi, concentrandosi su varietà leggeri e serie TV per famiglie: sia per evitare indagini anticomuniste, sia per ottenere pubblico e, dunque, mantenere buoni contratti con gli inserzionisti pubblicitari. Inoltre, fino alla fine degli anni Sessanta, l’intera programmazione è pensata per un pubblico bianco. Tra le produzioni televisive di maggior successo di impongono varietà, quiz e serie TV, soprattutto soap. Impatto ancora maggiore hanno le serie che ripercorrono i moduli delle narrazioni mainstream, come i gialli e i western. Essenziale è il riproporsi dello stesso protagonista, circondato da un numero limitato di comprimari con una struttura narrativa che ripercorre spesso la medesima parabola, modellata intorno a una polarizzazione dicotomica tra bene e male che si conclude invariabilmente con un happy ending e la restaurazione dell’armonia iniziale → fidelizzazione di sezioni significative del pubblico al serial televisivo prediletto → apprezzamento degli sponsor. Sitcom: si impone con la tv come proprio mezzo d’elezione. Nella versione che si impone da metà anni ’50 si tratta di una commedia che ha al suo centro un nucleo familiare nei sobborghi residenziali. La conclusione positiva dei piccoli drammi comici che attraversano questi nuclei familiari vuole rimarcare la rassicurante centralità della «home», vera struttura portante della società americana. La struttura narrativa della sitcom è sempre circolare, quindi genere profondamente conservatore. 4. Forme della libertà La pubblicità entra immediatamente dentro le storie. Nel sistema di comunicazione mainstream gli spazi pubblicitari non sono mai chiaramente distinti dagli spazi della programmazione ordinaria. La pubblicità entra a far parte del sistema narrativo. Pubblicità e industria culturale si fondono fra di loro: le narrazioni pubblicitarie tendono a minimizzare valori quali la frugalità o la semplicità, enfatizzando il valore positivo del consumo come acquisizione di simboli di status. Ai potenziali consumatori si vuole far credere che l’acquisto di un particolare oggetto possa aiutare ad allontanare le più ovvie cause di infelicità e la pubblicità stessa esagera la minaccia che normalissimi disturbi (es. forfora) possono arrecare alla vita sociale di una persona. La pubblicità, inoltre, punta esplicitamente al pubblico femminile, attribuendo loro spazio all’espressione della loro sovranità. La pubblicità vuole trasmettere l’idea che già esista qualcosa di simile a una società senza classi. L’ideologia di fondo suggerisce che non c’è bisogno di combattere per l’eguaglianza, poiché essa esiste già sottoforma della disponibilità di un’enorme quantità di beni di consumo a prezzo relativamente basso. La fase di grande espansione economica e la crescita dei redditi disponibili per le famiglie sembrano dare fondamento a questa visione che, invece, distorce la realtà statunitense, ancora attraversata da profondissime diseguaglianze socioeconomiche. Nelle narrazioni pubblicitarie c’è una netta divisione di razza e di genere. Non ci sono pubblicità con/per i neri/e. anche le distinzioni di genere sono piuttosto marcate, nel senso che ci sono prodotti associati ai valori ideali della mascolinità e prodotti associati ai valori ideali della femminilità. Se ci soffermiamo su questo ultimo aspetto e proprio sul lato femminile, possiamo fare un parallelo tra narrazioni pubblicitarie e i film che, in quegli anni, illustrano l’ideale perfetto delle donne costruite dalla cultura mainstream, come Cenerentola o Sabrina (1954, con Audrey Hepburn). Le donne sono casalinghe perfette, capaci di qualsiasi lavoro domestico e, allo stesso tempo, romanticamente perse dietro al sogno di un principe azzurro. Che questo sia ricco sfondato non è male, da due punti di vista: sia per la declinazione del sogno americano di ascesa; sia perché il populismo della produzione mainstream degli anni della Grande Depressione è stato messo da parte, in favore dei ricchi come leader naturali della comunità, visione suffragata dalla crescita economica. Storie che girano intorno ad amore e matrimonio comportano rilevanti implicazioni etiche: la valorizzazione della famiglia intesa come nucleo fondamentale. E, soprattutto, essa resta la ragione per combattere, sebbene il nemico sia cambiato. Si combatte per difendere la libertà di costruirsi una famiglia in un ambiente economicamente prospero e baciato dal valore della libertà. È ovviamente una libertà e un modello ideale di famiglia con confini ben precisi. Sono razzialmente segregati e non ammettono altro che una sessualità etero. Quest’ultimo elemento sta alla base di una trasmissione e sceglie i dischi, soprattutto con l’entrata in commercio dei 45 giri. Giacché il numero delle stazioni indipendenti con trasmissioni musicali di successo aumenta nei primi anni Cinquanta, il ruolo dei Dj si fa particolarmente significativo, soprattutto per il successo di una nuova canzone. A farla da padrone sono sempre le pop songs eseguiti da musicisti bianchi. Il pubblico delle pop songs è socialmente e generazionalmente variegato. È economicamente rilevante il fatto che questo genere sia apprezzato anche dalle giovani generazioni: i/le teenager sono una delle forze trainanti nella ripresa dei consumi postbellici. 2. «Pop songs» A metà anni ’40 l’allontanamento dallo swing verso musiche romantiche è in atto. Il genere orchestrale domina nelle classifiche di «Billboard». La configurazione delle canzoni orchestrali è listener friendly: ripercorrendo un numero elementare di regole rassicura chi ascolta, ponendolo all’interno di un orizzonte di aspettative assai angusto. Rassicuranti le star del pop lo sono anche per come si presentano sulla scena, dal vivo, alla radio o in TV. Le cantanti sono giovanissime (media dei 28), poco meno i cantanti (età media: 33). Con le sole eccezioni di Nat King Cole Mills Borthers, sono tutti bianchi. 3. Storie pop Se analizziamo le strutture narrative del genere pop, la gamma di possibilità è piuttosto limitata. Il tema che domina nei testi pop è ovviamente l’amore. Queste canzoni possono descrivere esperienze infelici, amanti costretti a separarsi, corteggiamento o positiva passione amorosa. È comunque importante notare che l’infelicità amorosa non è mai presentata in toni drammatici. L’argomento più gettonato è quello del corteggiamento: in questo caso lo stile musicale orchestrale, una melodia tonale e un atteggiamento pieno di trasporto romantico da parte di chi canta sono lo standard ricorrente. Rispetto alle canzoni cantate da uomini (più ripetitive e convenzionali), quelle cantate da donne hanno una marcia in più, nel senso che il desiderio fisico è relativamente più visibile. Nelle rappresentazioni di questo tipo, la personalità femminile è descritta come relativamente più sensuale e passionale di quella maschile, profilo che può anche diventare minaccioso. Ciò che può far sciogliere il cuore di ghiaccio di vamp è ovviamente il matrimonio. Inutile sottolineare che nel mondo delle pop songs tutto è bene quel che finisce bene. Anche questo genere ha l’obiettivo di divertire, nel senso proprio di allontanare i turbamenti e le preoccupazioni. 4. Hard country Nel secondo dopoguerra, la divaricazione tra i due filoni narrativi del country (filone drammatico vs. filone pop) si accentua. Il lato soft della musica country viene vigorosamente rovesciato da un musicista come Hank Williams, che propone un panorama testuale quasi tutto proiettato verso la descrizione di antieroi senza speranza di riscatto. Una parte del pubblico che apprezza la musica country viene da ambienti economicamente e socialmente disagiati: il fatto che Williams abbia una figura particolarmente tormentata conferisce alle sue canzoni una commovente aura di «autenticità». La dinamica fondata sull’identificazione contribuisce in modo determinante al successo dell’hard country, stile che rifugge l’ottimismo e il candore della coeva cultura mainstream. Nelle canzoni di Williams c’è spesso una dolorosa intensità poetica che dà alle sue canzoni uno spessore tale da trasformarle nel modello fondamentale dello stile hard country. A testimoniare il successo delle sue canzoni sopraggiungono le numerose cover pop dei suoi brani. Williams muore prematuramente il 31 dicembre 1952. La sua morte è l’epilogo di un vero e proprio annus horribilis, oltre che evento scatenante di una vera e propria dinamica di idolatria rivolta al cantante. La commistione di interessi commerciali e di sentito cordoglio da parte dei fan è un aspetto tipico della cultura di massa. Le produzioni dell’industria culturale sono un business, tanto quanto un contributo alla vita dello spirito di chi le voglia apprezzare. C’è anche un’altra dinamica in atto, derivante dalla collettiva rimozione della morte che connota la società statunitense. Si ha paura della morte, la si nega: è un atteggiamento del tutto nuovo. A tale processo di rimozione contribuisce la grande nuvola di morte che ha avvolto il mondo tra il 1939 e il 1945, oltre che la ripresa economica che induce a un ottimismo isterico e che molto e molte abbracciano come una salvifica boccata d’ossigeno. Vi contribuisce anche il materialismo estremo sollecitato dalla cultura di massa mainstream, il suo culto del lieto fine, l’indugiare in fantasticherie supereroiche e immortaliste. È per questo che le scomparse premature di star della cultura di massa sono investite di un significato simbolico particolare. 5. R&B Alan Lomax, insieme al prof. John Work, scopre in Mississippi nel 1941 Muddy Waters. Come molti altri neri, nel 1943 si trasferisce a Chicago. Il mercato discografico rimane socialmente e razzialmente separato, ma qualcosa sta cambiando: nel 1949 Billboard fa decadere le rubriche «Best- Selling Retail Race Records» e «Most-Played Juke Box Race Records», sostituendo “race records” con la nuova dicitura Rhytm and Blues, termine standard per indicare l’intero insieme della musica pop afroamericana. La scolta terminologica è certamente dettata dalla constatazione che la musica nera sembra in rapidissima evoluzione. I blues acustici non vanno più di moda: la gente, in particolare i giovani, al Nord o all’Ovest, non hanno voglia di sentire musiche che li riconducano alle condizioni e alle abitudini del Sud. Muddy Waters è uno dei grandi innovatori di questo stile quando nel 1945 cambia la sua chitarra acustica per un nuovo strumento: la chitarra elettrica. I bluesmen sono tra i primi musicisti a fare delle chitarre elettriche il loro strumento d’elezione, come nel caso di B.B. King e John Lee Hooker. Altro strumento che si impone è l’armonica a bocca. Nel nuovo universo del blues elettrico la fondamentale matrice stilistica e poetica del country blues viene conservata. Il blues elettrico ha avuto un’enorme influenza sulla successiva evoluzione della popular music e della cultura di massa. Tuttavia, è bene osservare che dall’inizio degli anni ’50 questo stile perde progressivamente appeal presso il pubblico nero. In quegli anni le hit R&B sono frutto di una disinvolta ibridazione che mescola essenzialmente tutti i generi della popular music afroamericana, dal blues al jazz, al gospel, e che in qualche caso traggono spunti anche dal pop o dal country. I gruppi di maggior successo uniscono la strumentazione jazz e quella del nuovo blues elettrico, a supporto di un cantante (e in qualche caso di un gruppo di vocalist). Il ritmo è molto più accelerato che nel country blues o anche nel blues elettrico: l’obiettivo evidente è quello di costruire una musica da ballo che diversamente dalle ingessatissime pop songs per bianchi consenta delle figure coreute dinamiche. La differenza tra blues elettrico e nuove canzoni R&B si misura anche sul terreno lirico. Il blues elettrico continua a esplorare i territori poetici propri del canone fissatosi nei decenni precedenti alla Seconda guerra mondiale. Domina il tradizionale tema dei «blues», il tema dell’ossessivo sconforto personale che sembra non poter trovare sollievo, con una divaricazione molto netta tra gli orizzonti narrativi blues e quelli mainstream. Resta anche il tema della «guerra dei sessi». Con il nuovo stile R&B si entra spesso in un orizzonte valoriale piuttosto diverso da quello tipico del blues. Molti testi sono ispirati a un programmatico edonismo, che si traduce nell’esaltazione del piacere del ballo, del trovarsi insieme, del fare sesso e persino dell’abbandonarsi a qualche sensazione «proibita». Non manca in queste canzoni il tradizionale confronto dei sessi, ma anche in questo caso è ripresentato in un tono più scherzoso che drammatico. Allegria e spontanea eversione si incontrano nell’universo R&B: ne è un esempio il nuovo stile «doowop», interpretato da gruppi vocali che rielaborano la tradizione degli spiritual e dei gospel, cantando delicate e lente canzono sentimentali arricchite da sofisticati intrecci canori. Il successo di questa variegata costellazione di musiche è reso possibile dall’esistenza di una articolata rete di case discografiche e di radio indipendenti. Sin dal 1929 le majors discografiche hanno giudicato il mercato della musica nera come economicamente irrilevante: il che ha lasciato campo libero a una serie di imprenditori che fondano una miriade di piccole etichette indipendenti e che si dedicano a stili musicali di nicchia. Inoltre, dopo la fine della II GM i grandi network radiofonici hanno concentrato energie e capitali nel mercato della televisione, trascurando di setacciare il campo delle nuove emittenti radiofoniche. Dalla fine degli anni Quaranta le stazioni radiofoniche indipendenti sono in rapido aumento numerico e si orientano verso il mercato delle musiche, come l’R&B. Questa dinamica è importante per capire perché è soprattutto un pubblico giovanile quello che si orienta verso questo genere: in televisione i ragazzi neri non trovano che le pop songs orchestrali cantate da bianchi. Le musiche R&B si prestano a danze che servono da simbolico confine generazionale. Ciò che colpisce gli opinion makers dell’epoca è che non solo i giovani neri apprezzano questa musica: un numero visibile di ragazzi e ragazze bianchi comincia a mostrare interesse per il R&B. Ciò è testimoniato dai crossover in classifica (brani originariamente R&B che sfondano sul mercato pop). VII. Rock and roll 1. Giovani delinquenti Al fianco della paura del nemico esterno, negli States degli anni ’50 insorge anche la paura del “nemico interno”, ossia il giovane delinquente. Si ha l’impressione che gli atteggiamenti devianti che nei decenni precedenti sono stati riconosciuti come tipicamente propri dei giovani delle classi basse o delle minoranze etniche (es. zoot suit riots) stiano contagiando anche la gioventù bianca di casse media. In realtà, i reati gravi commessi dagli adolescenti non sono per nulla in crescita. Semmai, la sensazione che la criminalità giovanile sia in aumento è dettata dall’adozione di nuovi criteri criminologici che inseriscono tra i “reati” anche pratiche relativamente innocue, come disubbidire ai genitori, far coppia fissa, tornare a casa tardi la sera. L’ansia che attraversa l’opinione pubblica nasce dalla constatazione di un cambiamento radicale nella composizione della popolazione scolastica, specie negli istituti di istruzione superiore. Ciò è sufficiente per scatenare una paura del “contagio” culturale di cui ragazzi e ragazze di ambienti etnico-sociali differenti sarebbero portatori, con possibili conseguenze “degenerative” nei confronti della gioventù WASP e della middle class. Qualche osservatore dell’epoca trova le cause di questa nuova criminalità in alcune delle più recenti innovazioni della cultura di massa mainstream. Ad esempio, Frederic Wertham (psichiatra) considera i comic books come un medium che popolarizza e “glamourizza” stili di vita e comportamenti delinquenziali. L’editoria specializzata in questo prodotto culturale non si è dotata di alcuno strumento di autocensura: lo fa nel 1954 dopo un’inchiesta condotta da una sottocommissione del Senato. Le majors di Hollywood si adattano, affiancando ai film più o meno propagandistici contro la minaccia comunista altrettanti film che illustrano la minaccia della delinquenza giovanile. Ne sono esempio The Wild One (1953), con Marlon Brando, Blackboard Jungle (1955) e Rebel Without a Cause (1955), famoso in Italia come Gioventù bruciata, con James Dean. L’intento è Alla musica si uniscono abbigliamenti e acconciature fatte apposta per capovolgere o negare gli stili prevalenti diffusi tra le leading crowds. I giovani dei gruppi marginali usano una sintassi vestimentaria del tutto diversa ed originale. I benpensanti non hanno dubbi nel considerare questo tipo di abbigliamento come indizio di una deriva verso l’antisocialità o la vera e propria delinquenza. Nonostante questa aura ribelle, produttori, case discografiche e musicisti r’n’r sono abbastanza cauti nel racconto delle esperienze sessuali. A volte le liriche sono modificate, come accade al testo originale di Tutti Frutti di Little Richard (allusivo alla bisessualità). Le allusioni contenute nei testi rock n roll, per quanto controllate siano, sono comunque sempre unilateralmente dirette da voci maschili verso interlocutrici femminili (il rock n roll ha una connotazione di genere squilibrata verso il genere maschile). Durante i concerti, le fan vanno in visibilio per il movimento di bacino di Presley, interpretato come qualcosa di selvaggio e di erotico. Presley diventa un “eroe maschile idealizzato”, un maschio che consentiva di risolvere le confusioni della sessualità adolescente. Quali sono le ragioni più profonde che spiegano l’ondata di critiche suscitata dalla nuova moda giovanile? Innanzitutto, il rock n roll è considerato la prova generale del “contagio” che la cultura delle classi inferiori sta diffondendo tra la “più sana” gioventù d’America. La preoccupazione per una presunta nuova ondata di criminalità giovanile, infatti, si riacutizza proprio tra il 1954 e il 1956, in corrispondenza con il successo della nuova musica. Ma la preoccupazione principale viene dal superamento della “linea del colore”, dalla confusione razziale che il rock n roll sembra provocare. Le critiche si diffondono rapidamente dal Sud-Est degli States, dove ci sono sezioni dell’opinione pubblica bianca ferocemente razziste. Il rock n roll risulta problematico per una parte dell’opinione pubblica conservatrice perché, superando stilisticamente la “linea del colore”, sembra voler negare l’etica della discriminazione razziale e perché, circolando in prima battuta tra ragazzi e ragazze delle gang di strada, sembra porre le premesse per la nascita di una minacciosa controcultura, socialmente molto connotata. Questa musica e lo stile comportamentale al quale p associata non contiene niente di veramente eversivo. Le sue matrici originarie sono il blues e il country. La prima musica è filtrata attraverso il R&B, di cui il rock n roll non è che una variante; del country, invece, si scelgono le declinazioni più pop. Dal punto di vista testuale passano solo le narrazioni più edonistiche e meno problematiche, che appartengono già al R&B e al pop country. Non è niente di eticamente controcorrente: è una narrazione e una serie di pratiche sociali che rimandano all’universo giovanile dei gruppi più marginali. E infatti non ci vuole molto prima che il rock n roll sia riassorbito nell’alveo accogliente della cultura di massa mainstream. L’operazione è facilitata dal lancio di musicisti e di programmi che danno del rock n roll un’interpretazione corretta e ripulita, quindi accettabile per le leading crowds. Protagonisti di questa operazione sono Pat Boone e Dick Clark. Pat Boone propone un canzoniere che comprende sia canzoni pop sentimentali, sia cover di brani R&B e r’n’r, cantati con energia gentile e contenuta. Boone promuove con un libro una moderata filosofia di vita indirizzata agli adolescenti, ai quali dice di obbedire ai genitori e rispettare i valori del paese. Dick Clark fa altrettanto come DJ nei suoi programmi radiofonici, invitando i teenager a comportarsi come si deve e a discutere con genitori e adulti con moderazione e rispetto. In realtà, il rock n roll è già in sé una musica che sostiene un’etica che condivide aspetti essenziali dell’edonismo consumista: non c’è bisogno di mettere a tacere alcun aspetto ribelle. Inoltre, gli stessi “eroi” rocker dei primordi non desiderano altro che essere abbracciati dal mercato e dalla cultura di massa mainstream, come dimostra la sfilza di film musicali prodotti da Hollywood in cui troviamo protagonisti Presley, Haley e Boone. Si tratta di film che non sono altro che blande commedie romantiche che si risolvono nell’amore romantico, nel matrimonio come valore e nella domesticità disciplinare. Così, anche le leading crowds giovanili accettano questa musica, priva di minacce. Il rock n roll che entra nel circuito della gioventù di classe medio-alta è un genere in via di normalizzazione. Presley inizia negli anni ’60 ad allontanarsi dall’energia post-R&B dei primordi e si orienta verso il pop più ovvio e sentimentale. 5. Tipi da spiaggia Dunque, la capacità attrattiva esercitata dalla cultura mainstream anche nei confronti di una subcultura apparentemente ribelle è innegabile. La parabola vale anche per un’altra subcultura, parallela a quella rock n roll: la comunità di surfisti californiani. Comunità già nata prima della Seconda guerra mondiale, questa si nota per la mise caratteristica: pantaloni da marinaio tagliati corti, camice floreali, piedi scaldi. Dopo la fine della guerra, al nucleo comunitario dei giovanissimi che non hanno prestato servizio si aggiungono reduci o giovani sbandati, disillusi dalle promesse del dopoguerra o respinti dalla selettività dell’ambiente delle high schools o del college. Il senso della comunità è di godere di una vita selvaggia, distanti dalle vite delle persone “inquadrate”. L’immagine del surfista racchiude molti e notevoli elementi di attrattiva che alla metà degli anni Cinquanta, con la circolazione dei primi servizi su giornali o al cinema, si fanno sentire anche oltre i confini delle spiagge da loro frequentate. Sono soprattutto gli outsiders delle high schools della California del Sud che cominciano a vestirsi e a presentarsi in giro come surfisti provetti, rifiutando i valori della società ordinaria e opponendosi alle leading crowds e alle attività che si svolgono a scuola. Non è solo il fatto di isolarsi come nuovi pionieri selvaggi: talora di tratta anche di assumere atteggiamenti provocatori contro tutto il mondo degli integrati (come esibire simboli nazisti sui pick-up, pur senza aderire a tale ideologia, solo per esprimere un atteggiamento “contro”). In realtà, quello dei surfisti è un mood ribelle dal contenuto molto incerto: l’asse principale della “filosofia esistenziale” della comunità sta nel rifuggire il mondo della scuola, del lavoro, del dovere, espandendo edonisticamente lo spazio del tempo libero fino a farlo diventare l’unico universo possibile. Questo pone pratici problemi di sopravvivenza, che qualcuno all’interno della comunità risolve anche con piccoli furti: quanto basta per suscitare sdegnati attacchi critici nei media locali, oppure la netta opposizione dei giovani che fanno parte delle élite delle high school. Ad ogni modo, il mondo del surf trova la via della cultura di massa mainstream, sia attraverso la pubblicazione di riviste specializzate, ricche di foto, che insistono sull’aspetto estetico dell’insieme, sia attraverso il cinema, sia, infine, attraverso l’irruzione della musica pop. L’esempio più iconico di questo processo di normalizzazione sono i Beach Boys, che esordiscono nel 1961. Abilissimi nel costruire canzoni che rielaborano le armonie vocali doowop sui ritmi sostenuti propri del R&B o del r’n’r, i Beach Boys entrano in classifica con canzoni che presentano la cultura della comunità surf con tratti rassicuranti di un allegro edonismo fatto di spiagge californiane, macchine sportive, ragazze, feste e amori adolescenziali. A quel punto la moda del surf viene adottata anche dalle élite delle high schools locali. Associando l’etica delle leading crowds all’edonismo della vita sulla spiaggia, esaltato in molti brani, i Beach Boys sono in grado di ricontestualizzare la comunità dei surfisti dentro un quadro moralmente del tutto rassicurante. Agli outsiders non resta che spostarsi altrove, ad esempio a San Francisco, Le storie parallele di r’n’r e del surf mostrano che la fragilità ontologica di quelle proposte controcorrente le espone facilmente a un depotenziamento e a un riassorbimento all’interno della cultura di massa mainstream. La loro mancanza di un’elaborazione narrativa ed etica articolata e ricca ne fa delle mode passeggere. L’impressione sembra essere confermata anche dalla nuova mappa della popular music statunitense. L’impatto del rock n roll ha perso la sua propulsione iniziale e l’esperienza del superamento della “linea del colore” dura poco. A inizio anni Sessanta le nuove mode pop tendono a dislocarsi nuovamente lungo quella linea, tanto che nel 1965 Billboard reintroduce la classifica dei successi R&B, eliminata solo due anni prima. I gusti del pubblico nero sembrano essere diventati nuovamente diversi e distinti rispetto a quelli del pubblico bianco. Due generi attirano le comunità afroamericane:  Soul music: prodotta prevalentemente da Atlantic Record e Stax Records, entrambe dirette da bianchi. Il genere annovera tra i maggiori artisti Ray Charles, James Brown, Aretha Franklin e Otis Redding. Rispetto al R&B, da cui deriva, il soul accentua e rende più sincopate le linee di basso, dà più spazio ai fiati e aumenta il complessivo volume sonoro. Sono evidenti le influenze gospel, sia nell’evoluzione musicale degli artisti sopracitati, sia nell’interazione call and response tra performer e pubblico. Narrativamente, in alcune delle sue canzoni il soul tende a rilanciare un senso di orgogliosa appartenenza alle comunità afroamericane.  Motown: termine portmanteau di “motor town”, riferito a Detroit. È il nome di una casa discografica nata (per l’appunto) a Detroit nel 1959, fondata dall’afroamericano Berry Gordy Jr. Fa una musica del tutto disimpegnata dal punto di vista etico e narrativo, ed esercita anche un certo appeal anche tra gli ascoltatori bianchi. Privilegia i cori di derivazione doowop rispetto al cantante solista e preferisce una ritmica delicata. Una delle soluzioni vincenti adottate da Gordy nasce dalla considerazione secondo la quale il pubblico di riferimento per la musica della Motown è soprattutto giovane e ascolta i pezzi con mezzi di riprduzione limitati che non possono sostenere arrangiamenti complessi (es. autoradio, radio a transistor). Pur iniziando successivamente ad utilizzare una strumentazione più ampia e complessa, la Motown dosa l’equilibrio tra le varie componenti, portando in primo piano le parti vocali per la melodia e il basso e la batteria per il ritmo. Tra i principali artisti lanciati da questa etichetta dal 1959 fino ai primi anni Settanta vi sono The Supremes, Martin Gaye, Stevie Wonder: artisti eccellenti che cantano canzoni con testi che elaborano in forme variamente romantiche il classico tema pop dell’amore. VIII. Beat Generation 1. «Hipster testadangelo» 1956: “Howl”, poema di Allen Ginsberg. È un urlo di rabbia, una chiamata a raccolta generazionale, una celebrazione sfrontata (“le migliori menti della mia generazione [...]”) delle abitudini autodistruttivamente bohémien che Ginsberg condivide con altri giovani intellettuali tra alcol e droga. Possiamo leggervi anche un tentativo per collegare queste esperienze al romanticismo antieroico che attraversa la popular counterculture del blues e dell’hard country, così come la miglior produzione letteraria della Lost Generation (F. S. Fitzgerald, Gertrude Stein, Ernest Hemingway). A differenza di quest’ultimo gruppo, la generazione di Ginsberg è composta da outsiders che non lasciano gli States: questi vivono prevalentemente tra Upper West Side e Greenwich Village (NY), North Beach (San Francisco) e Venice Beach (LA). La loro è una disperata ricerca di un’identità che consenta di sfuggire alla cappa normalizzante imposta dalla cultura e dall’etica mainstream. Ginsberg conosce per esperienza diretta il mondo che vuole celebrare. Ha veramente conosciuto menti brillanti: nel 1944, quando un gruppo di giovani studenti o ex studenti della Columbia University si sono conosciuti nell’Upper West Side di NY. Il gruppo originario è piccolo e ne fanno parte Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Lucien Carr, Joan Vollmer ed Edie Parker. Successivamente si aggiungono Herbert Huncke, Neal Cassady, Gregory Corso. Tutti questi giovani hanno alle spalle infanzie e adolescenze a dir poco disastrate. E ancora da giovani adulti ha guidato il movimento che gli hoboes hanno compiuto. Diversamente dagli hoboes, però, un personaggio come Sal si muove instancabilmente perché non ripone alcuna fiducia in una società scandita dalle norme del conformismo post-bellico. La risonanza mitica del viaggio intreccia strette relazioni intertestuali col viaggio disperatamente/illusoriamente liberatorio cantato nelle canzoni folk, blues o country. Al tempo stesso, una parte non piccola dell’innegabile fascino di On the Road sta nello stile. La sua segmentazione sincopata deriva dall’influenza del bebop, stile dell’improvvisazione jazz che conduce lo scrittore al “wild form”, come lo chiama lui stesso. La passione per il jazz di accompagna ad un amore dichiarato per le culture altre, afroamericana o messicana, contrapposte al disastro emotivo prodotto dalla cultura bianca. Attraverso la voce di Sal, Kerouac afferma che “nel meglio che il mondo bianco mi aveva offerto non c’era abbastanza estasi per me, non c’era abbastanza vita, gioia, divertimento, oscurità, musica, non c’era abbastanza notte”. C’è la pregiudiziale preferenza per i marginali, gli sfruttati, i disturbati, osservati con un’estetizzante passione romantica. La scelta del bebop come modello estetico ed etico di riferimento ha un senso che non può andare perduto: da una delle manifestazioni più consapevolmente controculturali, emerse dalla creatività di artisti afroamericani, Kerouac trae incoraggiamento e ispirazione per delineare la sua personale traiettoria contronarrativa. L’atteggiamento di Kerouac nei confronti della cultura afroamericana è inconsapevolmente razzista, attraverso un meccanismo di semplificazione e stereotipizzazione, ed è incapace di capire davvero le questioni che attraversano le comunità afroamericane. È comunque importante considerare la forza che si sprigiona dalla popular culture nera, in molte direzioni diverse, che sia il rock n roll o la letteratura beat. Oltre al jazz, anche il blues lascia un’impronta profonda sulla narrativa beat attraverso la produzione di Kerouac, soprattutto perché la struttura del romanzo pubblicato dopo On the Road, cioè The Subterraneans (1958), ripercorre la tipica matrice narrativa del blues di una storia d’amore senza lieto fine, che si conclude con doloroso rimpianto. In aggiunta, si parla di un amore interraziale. La triade dei romanzi di Kerouac si completa con The Dharma Bums (1958), in cui descrive il lato californiano del reticolo beat e in cui un po’ confusamente indica nel buddismo zen una possibile strada per difendersi dallo scioglimento del sé nel conformismo mainstream (“[...] tutti prigionieri del sistema per cui lavori, produci, consumi, lavori, produci, consumi [...]”). Tuttavia, il lato critico di Kerouac o di Ginsberg non presuppone un qualche tipo di specifica controproposta politica. L’hipster non desidera “fracassare la società normale”: c’è solo il desiderio di eluderla. Il modo in cui l’hipster o il beat allontanano l’angoscia esistenziale che li attanaglia consiste nello scegliere la disaffiliazione, spinta talora sino all’autodistruzione. 4. Beatnik L’apprezzamento per la produzione beat è limitato solo a poche recensioni o interventi critici. Le critiche letterarie negative si fanno rapidamente più numerose e si trasformano in un altro degli innumerevoli attacchi isterici. Nel 1958 l’intellettuale Norman Podhoretz scaglia un pesante attacco con l’articolo The Know-Nothing Bohemians, in cui sostiene che mentre la bohème intellettuale degli anni Venti e Trenta (Lost Generation) ripudiava il provincialismo e l’ipocrisia della società americana a favore di una visione colta e intelligente del processi di civilizzazione, la bohème intellettuale dei beat è tutta un’altra cosa, poiché “è ostile alla civilizzazione, venera il primitivismo, l’istinto [...]. La loro predilezione per il linguaggio bop [...] è anche un modo per esprimere disprezzo nei confronti del discorso razionale e coerente, che, essendo un prodotto della ragione, è secondo loro una forma di morte”. Il vero “veleno” sta nella parte finale, in cui Podhoretz riassume ciò che gli sembra il senso sociale complessivo di una produzione letteraria che a lui appare priva di valore. Questo senso consiste nei pericoli del primitivismo, dell’esaltazione dell’istintività, della celebrazione della criminalità. Alla fine anche lui riconduce la costellazione beat nello spazio della criminalità giovanile. Herb Caen in un articolo per il «San Francisco Chronicle» dell’aprile 1958 ribattezza il gruppo col nomignolo di “beatnik” (beat e Sputnik). La crasi contiene una critica massivamente ingiuriosa nel contesto degli Stati Uniti di fine anni Cinquanta, associando la minaccia rappresentata dalla Beat Generation alla minaccia sovietica. L’attacco ha anche una declinazione più direttamente semplificata accolta dal cuore della cultura di massa mainstream: il cinema Hollywoodiano, che si muove su due livelli: la denigrazione parodistica (The Many Loves of Dobie Gillis, sitcom) e la normalizzazione moralistica (The Subterraneans, con le dovute modifiche). Il filo rosso che percorre le critiche attraverso i diversi media è la contrapposizione tra beat e square. Il tentativo di “criminalizzare” o “normalizzare” l’immagine della Beat Generation riesce a metà. Soprattutto, non riesce l’operazione di “integrare” i beat dentro l’orizzonte della cultura mainstream. Qui i materiali concettuali di cui è fatta la proposta beat risultano decisamente troppo in controtendenza: vengono affrontati temi che non trovano alcuna possibilità di integrazione dentro il quadro narrativo ed etico della cultura di massa mainstream. Viceversa, una varia costellazione di giovani donne e giovani uomini trova nella letteratura beat, e nel modello di vita offerto dalle biografie dei suoi campioni, una via da seguire. Le ragazze e i ragazzi che sentono di aver trovato in Ginsberg o Kerouac dei modelli spirituali talora entrano anche a far parte delle comunità beat che si formano a North Beach, Venice Beach o al Greenwich Village. Come ritrae Ned Polsky in un saggio, la comunità dei beat è cresciuta costantemente, arricchita da un numero sorprendentemente alto di teenager. Socialmente, la composizione della comunità è varia (composta in percentuale maggiore da ragazzi provenienti dalla classe media), così come lo è dal punto di vista etnico. Non è una comunità che voglia dare nell’occhio o che voglia imporre la sua presenza: i beat del Village evitano, per quanto è loro possibile, di lavorare. È un rifiuto perfettamente consapevole: i beat sono sensibili all’ineguale distribuzione dei redditi nella società americana, alla crescente spersonalizzazione di lavoro e divertimento, alla sua Permanente Economia di Guerra. I beat rispondono con uno Sciopero Permanente. I beat non sono apolitici: sono consapevolmente “antipolitici”, ovvero soffrono di “antipatia politica”. Altri tratti identitari della comunità sono la tendenza, soprattutto maschile, alla bisessualità e l’uso di droghe. La moda intellettuale e gli atteggiamenti beat si diffondono rapidamente, trasversalmente, contagiando il modo di vestirsi, di esprimersi, e persino di organizzare il proprio mondo etico, di molti giovani sparsi nelle high schools e nei college americani. Interessi per musiche controcorrente, impulsi ad aprirsi a forme letterarie che spingono verso nuovi orizzonti etici attraversano l’area del pubblico giovanile attratto dalla costellazione beat. Si fa strada un rinnovato interesse per la musica folk, oltre che per il jazz. Dal punto di vista letterario ritroviamo impulsi e stimoli che ampliano l’orizzonte verso testi non propriamente parte della cultura di massa, come Il giovane Holden (1951), Tropic of Cancer (Miller, 1934), fino alla produzione letteraria della Lost Generation e ai numi tutelari della Beat Generation (Whitman, Rimbaud, Dostoevskij, ecc.). Per la prima volta, un fenomeno in origine raffinatamente letterario come quello dei beat si colloca in uno spazio socioculturale largamente borderline: i suoi leader creativi scelgono di dialogare contemporaneamente con la tradizione letteraria alta e con la popular culture; attraversano la “linea del colore” in modo programmaticamente determinato, eleggendo la comunità afroamericana a modello etico ed estetico. Infine, la stessa formazione di comunità subculturali beat fa sì che l’etica beat non si disperda tra mille mode letterarie, né resti confinata solo nello spazio rarefatto dei locali d’avanguardia, ma entri nelle high schools, nelle caffetterie, nei college. IX. I Want to Hold Your Hand 1. Gioventù ribelle A fine anni Cinquanta, il folk sta prendendo un suo vigore in molte aree degli States e non sono nel fervente Greenwich Village. Ciò avviene in diretto collegamento con la rinascita di movimento politici di protesta, il più importante dei quali è il Movimento per i diritti civili. La prima manifestazione di risonanza nazionale di questo Movimento ha luogo tra il dicembre 1955 e il dicembre 1956 a Montgomery, Alabama, dove la comunità afroamericana locale organizza un boicottaggio dei trasporti pubblici a seguito dell’arresto di Rosa Parks. Da allora il Movimento contro la segregazione razziale, guidato da M. L. King si irradia e prende vigore. Il Movimento è orientato verso principi rigorosamente gandhiani e nonviolenti e si esprime organizzativamente attraverso la Southern Christian Leadership Conference (SCLC), confederazione di associazioni fondata nel 1957, che si appoggia sul reticolo organizzativo delle chiese protestanti nere del Sud degli States, oltre che su autorevoli associazioni come la NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) o il CORE (Congress of Racial Equality). Il maggior successo simbolico del Movimento viene celebrato a Washington il 28 agosto 1963, con la marcia di 250.000 persone che sfilano fino al Lincoln Memorial, dove si tiene il famoso discorso di M. L. King (I have a dream), nel quale dice di sognare che i bianchi e i neri possano vivere in pace e che il principio enunciato nella Dichiarazione d’Indipendenza, secondo cui tutti gli uomini sono stati creati uguali, possa diventare realtà. Nonostante l’assassinio di Kennedy (novembre), la tenacia dei leader e dei militanti neri non viene meno e conduce a risultati straordinari: tra il 1964 e il 1965 il Congresso approva una serie di norme fondamentali (Civil Rights Act, XXIV Emendamento, Voting Rights Act), che cancellano ogni base legale per la discriminazione razziale. Nonostante queste norme pongano le fondamenta di un’eguaglianza solo formale, questi si affermano come un grandissimo successo del Movimento. Questo successo è garantito dall’attenzione che i media nazionali danno alle iniziative del Movimento. Per la prima volta nella storia degli USA, intere sezioni delle opinioni pubbliche del Nord e dell’Ovest del paese vengono informate in modo piuttosto completo sull’evolversi della situazione negli Stati del Sud e sull’ingiustizia e sulla brutalità della segregazione razziale che vi è praticata/riconosciuta. Uno degli episodi più clamorosi è il sit-in organizzato il 1° febbraio 1960 da quattro studenti universitari neri a Greensboro, Carolina del Nord, in un ristorante riservato ai bianchi e chiedendo di essere serviti. Il sit-in dura giorni e ha la massima risonanza mediatica. Iniziative analoghe vengono organizzate in tutto il Sud. Non meno brillante è l’iniziativa dei Freedom Riders, giovani militanti del Movimento che dal maggio 1961 cominciano a imbarcarsi sugli autobus che coprono lunghe tratte interstatali. Con queste iniziative di protesta, i giovani afroamericani si conquistano uno spazio tale da convincere alcuni dirigenti del movimento che è arrivato il momento di costituire un’organizzazione specifica che li coordini. È così che nell’aprile 1960 viene fondato da centinaia di giovani lo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC). Il programma dello SNCC, fondato sui principi della nonviolenza, ha come obiettivo la costruzione di “una comunità integrata, interrazziale, nella quale sia possibile per ognuno la piena realizzazione di sé attraverso il rapporto con gli altri”. La risonanza mediatica delle iniziative del Movimento e l’esempio dello SNCC colpiscono la sensibilità di alcuni studenti bianchi dell’Università di Ann Arbor (Michigan). Su iniziativa di Al Haber e Tom Hayden, la preesistente League for Industrial Democracy (vecchia associazione socialista anticomunista) rinasce sotto le spoglie del neocostituito Students for a Democratic Society (SDS). Il nucleo fondatore dell’associazione è composto dai cosiddetti “red diaper babies” i diritti civili, la politicità dei testi di Dylan non si traduce nella militanza diretta a favore di un preciso programma partitico. Le canzoni mostrano un’acuta sensibilità per i marginali, i neri, i poveri, che deriva dalle matrici beat, folk, blues e hard country; mostrano un modo nuovo di guardare alla società e manifestano la netta percezione che l’attrito generazionale stia arrivando a un punto di rottura. Tuttavia, non vi è alcun tipo di endorsement per un preciso partito/organizzazione/progetto politico. Le sue non sono parole di propaganda: l’impianto testuale delle canzoni di maggior impatto non è rassicurante o consolatorio, come lo dimostra Blowin’ in the Wind. La canzone pone una serie di interrogativi, tutti inquietanti, senza proporre alcun tipo di risposta, poiché di evidenti non ve ne sono. La risposta alle angosciose domande è portata via dal vento: spetta a ciascuno cercare di afferrarla autonomamente. Questa posizione polemica avanza il modo in cui Dylan osserva il funzionamento dei sistemi di costruzione del consenso, che passano attraverso i fondamentali istituti di socializzazione come la scuola o la comunicazione pubblica. In With God on Our Side è il processo di nazionalizzazione delle masse che conduce a un’introiezione acritica del bellicismo come valore. In Only a Pawn in Their Game è narrato l’assassinio di Medgar Evers attraverso gli occhi del razzista bianco del Sud, povero e ignorante, responsabile dell’omicidio: costui è vittima deforme di una manipolazione cognitiva che non gli consente di capire di esser solo una pedina in un gioco ben più grande. Dunque, per Dylan ciò che deve imporsi è una decostruzione di questa rete conformista. La liberazione, tuttavia, non può essere calata dall’alto, non può essere frutto di un altro e diverso conformismo. È la riconquista di una piena autonomia di pensiero che può condurre a una più vera e più giusta libertà. Così, Dylan interpreta in forme assai anticonformiste il suo ruolo di portavoce delle nuove generazioni. Le cose cambiano nel 1964, quando matura una svolta che si concretizza col nuovo album Another Side of Bob Dylan. È l’impianto testuale a segnare un punto di svolta. Su undici canzoni, sette raccontano storie d’amore. Ma l’apice della svolta è la canzone My Back Pages, canzone-manifesto nella quale Dylan è molto severo con sé stesso e dichiara apertamente di aver sbagliato ad assumere pose da profeta politico (sebbene, concretamente, non l’abbia fatto, scrivendo canzoni-reportage e invitando a pensare con la propria testa). Adesso dichiara di voler andare in un’altra direzione che non è più quella del commento diretto alle vicende più scottanti. Dylan viene accusato dal direttore di “Sing Out!” (prestigiosa rivista sul folk) di aver tradito ideali e militanza in seguito alla fama, a causa delle tradizionali dinamiche dell’Establishment. 4. Dall’altra parte dell’Atlantico Fino ai primi anni Sessanta, l’Europa ha subito (affascinata) l’impatto delle varie forme che l’intrattenimento culturale ha assunto negli USA, sia per la forza seduttiva di quest’ultime, sia per il rapporto di dipendenza economica e politica che si è creato in parte dopo la Prima guerra mondiale e, in forma anche più diretta, dopo la fine della Seconda con il Piano Marshall. Lo scambio ineguale resta ineguale: prodotti di massa, economicamente e socialmente di grande impatto dagli USA all’Europa; prodotti di nicchia, diretti a élite colte dall’Europa agli USA. All’inizio degli anni Sessanta le cose cambiano, a partire dallo spazio della popular music della Gran Bretagna. Fino a quel momento, il mercato dell’intrattenimento di massa in GB assorbe le produzioni statunitensi e in parte ne riproduce i modelli. L’accoglienza che i media o gli opinion makers riservano a questo processo è ambigua. Da un lato le produzioni statunitensi sono apprezzate in blocco come manifestazione del “moderno” (contro il tradizionalismo culturale, rituale e simbologico britannico). Dall’altro, invece, talune manifestazioni di entusiasmo che accolgono l’arrivo del rock n roll scatenano le consuete reazioni negativi (se non anche qui vere e proprie forme di moral panic). Al di là delle reazioni, ciò che colpisce è la notevole apertura di una vasta e variegata sezione del pubblico britannico a una grande varietà di musiche statunitensi che circolano non tanto attraverso i canali ufficiali, quanto grazie a reti di diffusione extraistituzionali, con i jukebox e attraverso tour concertistici organizzati da imprenditori locali e nazionali. Così, anche un genere di nicchia negli USA si fa largo in Gran Bretagna: il blues. Lo fa in primo luogo attraverso la mediazione dello skiffle, stile musicale diffuso quasi solo nel Regno Unito, basato su una disinvolta fusione di jazz, blues e folk. Attraverso le sincopate rivisitazioni di classici della tradizione musicale afroamericana, l’universo narrativo del blues comincia a farsi strada anche nell’immaginario popular britannico. All’operazione contribuisce anche Adam Lomax, emigrato in Gran Bretagna nel 1950. Lomax trova dell’incongruenza nello skiffle, poiché giovani bianchi che hanno sofferto comparativamente poco eseguono un repertorio addolorato come quello blues. A spiegare le ragioni del successo delle musiche che arrivano dagli States concorrono, oltre (come notato da Lomax) la necessità di sfuggire da un sistema di classe e di casta morente qual era quello britannico, la grande varietà e complessità del pubblico che caratterizza anche la scena britannica. Il pubblico soprattutto giovanile è frammentato in una serie multiforme di comunità interpretative, diverse per stili e consumi culturali, anche se talora contigue per origini sociali e bisogni espressivi. Tale complessità è data dalla provenienza sociale, quanto dalla struttura educativa britannica, istituzionalmente più rigida di quella americana. Dopo il Butler Act (1944), il momento più “discriminante” è quello dopo l’esame selettivo alla fine del ciclo inferiore di insegnamento (5-11 anni), quando i ragazzi vengono ripartiti in gramma schools e secondary modern/technical schools. Nelle prime confluiscono prevalentemente ragazzi provenienti da famiglie di classe medio-alta, che, a differenza dei coetanei di origini operaie, mostrano il massimo grado di conservatorismo nelle sue scelte culturali e di consumo. I reportage dal mondo delle università britanniche confermano questo quadro. Dal punto di vista culturale, gli universitari britannici sembrano manifestare una certa resistenza nei confronti della cultura di massa americana, sia per ragioni di orgoglio nazionale, sia per l’adesione all’opinione progressista di chi (come Horkheimer e Adorno) aborre la popular culture perché politicamente obnubilante e artisticamente scadente. Solo una piccola sezione dei giovani di classe media si orienta verso opinioni politiche eterodosse, ad esempio militando in movimenti controcorrente rispetto agli orientamenti più diffusi, come il Campaign for Nuclear Disarmament (1957), che organizza nel 1958 una marcia da Londra ad Aldermaston (sede dell’Atomic Weapons Establishment). Dal 1965 è attiva anche un’altra organizzazione pacifista, il British Council for Peace in Vietnam. Diverso è il panorama nei contesti di classe operaia. Molti ragazzi di estrazione popolare mantengono legami solidi con le tradizioni sociali da cui vengono, partecipando alla vita collettiva della comunità di lavoro, conservando legami con le associazioni sindacali e politiche delle quali hanno già fatto parte anche i genitori. Tuttavia, ce ne sono anche altri che guardano con insofferenza al sistema valoriale degli ambienti operai da cui provengono, pressati dalla retorica del consumo diffusa dalle narrazioni hollywoodiane, e sognano per sé non solo un futuro, ma anche un presente diverso e più brillante. Per conquistarselo, alcuni entrano nelle gang; altri danno vita a gruppi subculturali connotati da particolari e vistose scelte di stile:  Teddy boy: si formano nei primi anni Cinquanta; si tratta di ragazzi che provengono prevalentemente dagli ambienti più disagiati delle classi operaie britanniche, tagliati fuori dalla prima ondata di sviluppo economico perché privi di una buona educazione scolastica e desiderosi di uscire dal loro ghetto sociale. Per farlo adottano stili di abbigliamento e consumi culturali direttamente derivati dalla cultura di massa statunitense: adottano vestiti eccentrici con uno stile in parte basato sull’abbigliamento del periodo edoardiano (1901- 1910, Edward = Ted), in parte desunto dall’iconografia del gangster o del fuorilegge. I ted vivono la realtà sociale degli outsiders e hanno aspirazioni sociali quali conquistarsi uno status sociale elevato attraverso la loro capacità di vivere in modo edonisticamente brillante all’interno di un contesto urbano. Coerenti con questo impianto sono i consumi culturali che si orientano verso il culto di Marlon Brando, James Dean e Elvis Presley, declinati talora anche in forma maschilista e razzista.  Mod: da “modernist”, subcultura nata nell’Inghilterra meridionale. Anche per i mod lo stile è fondamentale: la loro cifra è data da abiti eleganti modellati sui tagli dell’alta moda italiana e francese dell’epoca, anche qui allusivi allo stile gangster di Hollywood, e (contraddittoriamente) dall’eskimo come soprabito e dalla Vespa. Si tratta di ragazzi e ragazze di estrazione popolare, che già lavorano, ma che cercano di negare la noia e la frustrazione derivanti dai lavori umili cui sono costretti. La tavola dei valori mod è proiettata in un mondo fatto di consumi di lusso e di ostentata ricchezza, chiaramente solo fantasmatico. Il mod-tipo è un giovane con un lavoro a bassa specializzazione che ha lasciato la scuola a quindici anni e che, essendo perfettamente consapevole di avere ben poche chance di ascesa sociale, compensa questa consapevolezza con un “rituale di resistenza” che vuole rovesciare la realtà delle cose. I consumi culturali mod sono piuttosto vari (dal jazz al R&B, alla nuova musica beat degli Who, allo ska giamaicano).  Rocker: gruppo subculturale che elabora il modello dei biker americani portati alla ribalta da Brando in The Wild One. Il loro sistema di valori vuole distinguerli dalla presunta effemminatezza dei mod, con un’esibizione di vigoria maschile. Ciascuno di questi gruppi suscita reazioni preoccupate nell’opinione pubblica più conservatrice, fino a culminare in un’esplosione di panico che investe la stampa e l’opinione pubblica nella primavera del 1964, in uno scontro tra mod londinesi e alcuni giovani rocker: un ottimo motivo per rilanciare la storia della gioventù perduta e senza ideali. Con l’eccezione dei mod, gli altri gruppi sono a chiara dominante maschile. Le ragazze ricevono un’educazione che le orienta verso atteggiamenti, impieghi, sensibilità “tipicamente femminili” (ruolo di casalinghe e madri). Oltre che da pedagogisti, giornalisti e pratiche educative accolte dalle famiglie, questo quadro educativo è sostenuto anche dalle storie sentimentali raccontate nella narrativa popolare e dal linguaggio della pubblicità, che crea una forte tensione tra un “prima-del-matrimonio” (in cui le ragazze sono descritte come spensierate e seducenti) e un “dopo-matrimonio” (nel grigiore della domesticità). Questa intera panoramica trasmette la sensazione di un pubblico giovanile non meno segmentato di quello che si può incontrare negli USA. Culturalmente parlando, tutti questi gruppi costituiscono comunità interpretative potenziali o in atto. Le subculture giovanili più creative compiono scelte espressive che entrano in netto contrasto con i valori largamente condivisi nelle comunità operaie o di classe media alle quali appartengono i genitori. Contrappongono scelte di vita che enfatizzano l’edonismo, il consumo vistoso, stili di vita creativi ed eccentrici e un rifiuto quasi integrale dell’etica del lavoro. 5. I Beatles La nuova moda musicale (la beat music) viene lanciata dai Beatles. Tra il 1962 e il 1963 i loro primi dischi si posizionano ai primi posti delle classifiche britanniche. Nell’ottobre del 1963 la loro apparizione al Sunday Night at the London Palladium (trasmissione televisiva di estremo successo) li consacra come le star della “musica leggera” britannica. Poco dopo entra in uso il termine “Beatlemania”, per descrivere l’impatto immediato e debordante di questi quattro giovani musicisti e del loro sound. Prendendo come forma-base quella delle canzoni rock n roll, rivisitate con una semplice strumentazione elettrica, i Beatles costruiscono dei testi che semplificano ulteriormente l’orizzonte narrativo. I testi delle canzoni dei primi Beatles narrano soprattutto di semplici storie Dal training centrato sull’arrangiamento di brani che appartengono ai generi musicali afroamericani più borderline, i R.S. colgono due elementi di novità che sono poi capaci di introdurre:  Dal punto di vista musicale sono tra i primi a saper usare con efficacia il riff [breve cellula melodica che introduce un brano e ricorre poi nel corso dell’esposizione come costante leitmotiv];  Dal punto di vista narrativo sono i primi a saper articolare in modo nuovo il disagio di molti giovani, il loro profondo senso di disaffiliazione dal contesto sociale nel quale non riescono a trovare un loro spazio. (I Can’t Get No) Satisfaction. Esce nell’estate del 1965. Musica e testo compongono un inno rabbioso di rifiuto del consumismo contemporaneo, al quale si associa un bruciante e irridente autosarcasmo. Paint It Black (maggio 1966). Jagger e Richards affrontano con coraggio un tema assolutamente tabù nella cultura di massa mainstream, invece molto ben presente nel blues, nel folk e nell’hard country, ovvero la morte, declinata nella difficile elaborazione del lutto davanti alla morte della ragazza amata. Se la struttura emotiva può essere considerata blues, dal punto di vista musicale entrambi i brani abbandonano con decisione la rigida forma-blues. Ciò è particolarmente riconoscibile in quest’ultimo brano, il cui riff è affidato al sitar suonato da Brian Jones. Testo e toni orientaleggianti hanno un impatto sconcertante, scatenano un senso di novità, un effetto del tutto inaudito. 2. Dylan goes electric Nell’agosto del 1964, Dylan e i Beatles si incontrano per la prima volta. Dylan era rimasto impressionato dal primo ascolto di I Want To Hold Your Hand. L’incontro ha un effetto fondamentale per la nuova musica. La chiave della svolta di Dylan (maturata anche dall’ascolto di gruppi come Animals o Rolling Stones) sembra stare nella strumentazione elettrica e nella sezione ritmica. Infatti, nel 1965 Dylan abbandona la strumentazione esclusivamente acustica per adottare la nuova strumentazione tipica dei gruppi britannici. A marzo dello stesso anno esce il suo nuovo LP, Bring It All Back Home, con una facciata acustica e l’altra elettrica. Nel luglio seguente, con il Newport Folk Festival il mutamento di stile diventa un caso nazionale. Dopo la prima giornata del festival, per rompere definitivamente un legame con un mondo e un pubblico che gli sembra lo stiano soffocando, Dylan decide di esibirsi con una band elettrica (la band di Butterfield). Peter Seeger presenta il concerto serale come un evento destinato a richiamare l’attenzione su alcune delle più serie questioni mondiali (diritti civili, guerra in Vietnam): ma le aspettative del pubblico vengono “tradite” dai brani successivamente proposti da Dylan e dal gruppo che lo accompagna, suonando peraltro con il mixer sballato. A seguito dei fischi, Dylan e il gruppo eseguono le nuove Like a Rolling Stone e It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, sempre con una pessima qualità di suono. L’uso degli strumenti elettrici sembra un tradimento, una resa agli imperativi del music business. Il turbolento mutamento stilistico viene infine coronato con il completamento delle registrazioni del nuovo album, interamente elettrico: Highway 61 Revisited (1965). Ciò che conta veramente nel cambiamento di Dylan è la trasformazione integrale nello stile poetico, oltre che musicale, che connota i tre album elettrici del 1965-1966: 1. Bring It All Back Home 2. Highway 61 Revisited 3. Blonde on Blonde. Questi tre album tracciano le linee di una svolta fondamentale per l’intera storia della popular music. Non solo Dylan amplia la sua gamma espressiva in direzione del r’n’r, del R&B, del blues elettrico e del country, ma lo fa adottando una poetica neomodernista, derivata in primo luogo dall’esperienza beat di Ginsberg, Corso e Ferlinghetti. Dylan mostra che la popular music non è condannata a sostenere testi semplici, metriche piane e rime baciare “amore-cuore”. Nelle mani di Dylan, la forma-blues si apre a fantasiose descrizioni dei percorsi di un io narrante. I testi si fanno più anarchici ed enigmatici (es. Outlaw Blues). Nei suoi testi, Dylan intende ancora sfidare chi lo ascolta: lui non ha la verità in tasca. Ha intuizioni, suggestioni, visioni, che ciascuno ha la possibilità di rielaborare poi in forma autonoma. Nessuno ha con sé una chiave per decifrare alcunché attraverso un qualche semplice schema interpretativo. Dylan scompone la realtà in un caleidoscopio di figure apparentemente familiari, ma sparate integralmente fuori da ogni contesto comprensibile: ciascuno è libero di seguire un suo filo. Emblematica in questo senso è la figura di Mr. Jones, protagonista di Ballad of a Thin Man, benpensante disorientato, idealtipo del raffinato intellettuale che si smarrisce a contatto con i tempi che stanno cambiando e non afferra ciò che gli sta accadendo intorno. Dylan critica tutti coloro che pretendono di aver gli strumenti giusti per capire come stanno le cose. Nel passaggio dalle canzoni di protesta a canzoni più surreali, Dylan non smette di guardare con empatia all’underworld contronarrativo che ama sin da quando è ragazzino. Solo che adesso lo fa con una poetica più ricca ed evocativa, senza l’atteggiamento populista o paternalista del folk degli anni tra le due guerre. Dentro la cornice del suo nuovo stile poetico spigolosamente neomodernista, Dylan costruisce un’appassionata galleria di antieroi, inaugurata dalla protagonista di Like a Rolling Stone: ragazza di buona famiglia che ha preso ad abusare dell’alcol e a frequentare le persone sbagliate, finendo per diventare sola, una homeless, imparando a rispettare, infine, i marginali che da ricca guardava con disprezzo. Lo stile più ermetico rimarca in modo netto ciò che egli cercava da dire da tempo: non esiste alcuna grande costruzione concettuale che dia un senso al dolore. Solo una nuova e decostruttiva empatia può aiutare a immaginare un nuovo umanesimo aperto agli umili, ai marginali, ai sofferenti. Questa sperimentazione lessicale e poetica è particolarmente evidente e suggestiva nelle canzoni d’amore, ricche di risonanze insolite come in Visions of Johanna, in cui Dylan opera una “dissoluzione cubista” dell’identità, alternando i pronomi di prima, seconda e terza persona. Ugualmente straordinaria è Sad-Eyed Lady of the Lowlands, ode a una donna amata, piena di immagini suggestive, romantiche, enigmatiche: lei sembra circondata da una folla di persone che vogliono metterla in discussione, ma nessuno può farcela di fronte alle sue qualità, esotiche e sacrali. 3. La metamorfosi dei Beatles L’incontro con Dylan si rivela fruttuoso anche per i Beatles. Asfissiati dall’assedio delle folle e dalle grida delle fan che diventano un muro sonoro eccessivo durante le loro performance, nel 1966 i Beatles decidono di non esibirsi più dal vivo per dedicarsi di più alla loro musica. In questo periodo i componenti si aprono a una gran varietà di altre esperienze artistiche e, con la nuova sensibilità acquisita, dal 1965 al 1967 i Beatles pubblicano cinque album: 1. Help!, agosto 1965; 2. Rubber Soul, dicembre 1965; 3. Revolver, agosto 1966; 4. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, giugno 1967; 5. Magical Mystery Tour, novembre 1967. In parte, forse, la loro nuova creatività è incoraggiata dall’uso della cannabis o dell’LSD. Ma ciò che cambia interamente il quadro è soprattutto la nuova considerazione che cominciano ad attribuire al loro lavoro. Le strutture narrative del triennio 1965-1967 sono multiple. Da un lato persistono le canzoni d’amore collocate dentro un’area tematica assolutamente tipica della popular music; dall’altro, però, ora i Beatles sentono di avere risorse liriche tali da renderli capaci di affrontare anche altri argomenti solitamente estranei al pop o al rock n roll: la solitudine, la sofferenza, la morte →  Yesterday (Help!, 1965). Più che una storia d’amore finita, il vero soggetto è il mutare di atteggiamento che si fa strada in un giovane che sta crescendo e l’ansia oscura che questa nuova situazione comporta. L’esecuzione, affidata a un quartetto d’archi accompagnato dalla chitarra acustica di Paul McCartney, le conferisce un’eleganza che coniuga un’estensiva citazione delle modalità performative della musica colta con la più tipica struttura della canzone pop (vd. Apprezzamento di McCartney vs musica classica).  Eleanor Rigby (Revolver, 1966). Intensa e commovente interazione tra testo e musica; l’arrangiamento di George Martin (il cosiddetto “quinto Beatle”) sfrutta un doppio quartetto d’archi, il cui uso dell’ostinato dialoga con un testo particolarmente ispirato. Il tema viene dichiarato sin dall’inizio, ossia la solitudine. Viene presentata la prima figura, quella di Eleanor Rigby, donna sola che sente di non essere più nessuno. Non c’è risposta alle domande del narratore, che si chiede da dove provenga la donna. La seconda figura è quella di padre McKenzie, anch’egli solo e senza più alcuna passione. I due si incontrano perché Eleanor muore e la messa funebre viene celebrata proprio da padre McKenzie, del tutto disinteressato a lei o alla sua anima.  She’s Leaving Home (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967). Il tema è quello del conflitto generazionale, che si sviluppa anche stavolta su un arrangiamento classico. Non c’è alcun abbandono a un’ovvia retorica generazionale, poiché la vicenda è raccontata sia dal punto di vista della ragazza, desiderosa di ribellarsi a una vita grama, sia dal punto di vista dei genitori. Le prospettive e le immagini della mattina in cui la ragazza se ne va si alternano come in una sequenza cinematografica, fatta di controcanti che punteggiano lo sconcerto e il dolore dei genitori per non essere riusciti a stringere un vero rapporto con la figlia.  A Day in the Life (Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band). Parla di un qualunque giorno nella vita, anche in questo caso con un arrangiamento classico (che stavolta comporta l’uso di un’intera orchestra sinfonica. In questa giornata accadono le cose più svariate, dalle più tragiche (la morte di un uomo in un incidente stradale) alle più normali, arrivando a elementi privi di senso (l’articolo sul giornale che spiega quante buche ci siano nelle strade di Blackburn). Quest’ultima cosa funziona da commento disperatamente ironico su come la vita stessa possa essere tragicamente senza senso. I Beatles rendono anche più complessa la struttura delle loro canzoni. Le soluzioni adottate sono prevalentemente due: 1. Mantenere una struttura compositiva semplice ma rendere complesso l’arrangiamento → Tomorrow Never Knows (Revolver, 1966): la forma complessiva della canzone in sé e per sé è molto semplice (durata di una normale canzone pop, articolazione introduzione-strofa- ecc. standard); tuttavia, ciascuna delle parti è intersecata da effetti sonori ottenuti attraverso una serie di quattro tapeloops (il “canto del gabbiano”, ossia la distorsione della risata di McCartney; varietà di suoni orchestrali ottenuti con mellotron e ulteriormente distorti; scala ascendente di sitar distorta; assolo di chitarra di Taxman rovesciato e rallentato). L’effetto complessivo è sorprendente: la musica è distorta ipnotica, rumoristica. 2. Unire un arrangiamento sofisticato a una struttura compositiva stratificata e più articolata → A Day in the Life. Esperimenti di questo tipo fanno sentire molti musicisti come liberati dalla gabbia della canzone pop e iniziano a sperimentare in tutte le direzioni. Per raccogliere tutte le costellazioni originarie di questa nuova musica, la stampa conia l’etichetta “musica rock”. partecipare attivamente all’evento, gridando, muovendosi e danzando (spesso sotto l’effetto di amfetamine e alcol). Dall’altro lato, col diffondersi dell’etica hippie e delle droghe “psichedeliche” l’atteggiamento si fa più contemplativo. Questo secondo modello è importante, perché si diffonde anche a prescindere dall’adesione all’etica hippie o dall’assunzione di droghe “psichedeliche”. Il pubblico è sempre composto di ragazzi e ragazze molto giovani (sia per le scelte in materie di consumi culturali, sia per il notevole impegno fisico). Se compariamo l’assenza di confort tipica dei grandi concerti e la tecnologia riproduttiva di quegli anni (che ha fatto passi da gigante), viene da chiedersi come abbia fatto il fenomeno dei grandi concerti ad imporsi. Il fatto è che la speciale importanza del concerto rock deriva più da fattori extra-musicali che da aspetti specificamente estetici e consiste essenzialmente nel tipo di relazione che si instaura tra musicisti e pubblico, che è sempre più di carattere rituale. Col termine “rito” si intende ogni atto, o insieme di atti, che venga eseguito secondo un’interazione codificata, sebbene non necessariamente formalizzata. I concerti rock hanno strutture morfologiche tali da farli considerare effettivamente dei riti di separazione e di ri-aggregazione liminale:  Sono riti di separazione perché attraversano l’esperienza del concerto ci si libera simbolicamente dell’appartenenza al “sistema”;  Sono riti di ricollocazione del sé in uno spazio liminale, perché per il concerto si adottano un abbigliamento, un’acconciatura, una pratica corporea, una gestualità che sono specifici di gruppi pensati come estranei, marginali, liminali rispetto al “sistema”, per questo sentiti ricchi di valori, di significati, di emozioni formative;  Sono, infine, riti di aggregazione, perché attraverso il concerto si entra a far parte di un corpo sociale nuovo e particolare, di una nuova comunitas, che comporta il nascere di una nuova vita spirituale e sociale. L’officiante del rito è il frontman della band, normalmente il cantante o il chitarrista. La sua gestualità strana, enfatica e teatrale, oppure, al contrario, la glaciale imperturbabilità degli altri componenti, devono essere letti in quest’ottica: sul palco dei concerti i musicisti non si limitano solo ad eseguire la loro musica nel modo migliore, ma officiano anche un rito denso di significati simbolici. Figura iconica di frontman officiante è Jim Morrison, che descrive i concerti come uno sforzo di metamorfosi, come un rituale di purificazione. Lo straniamento rituale indotto dalla partecipazione ai grandi concerti entra direttamente in cortocircuito con un sentimento diffuso da decenni: la distanza, e in certi casi la totale assenza di comunicazione, tra giovani e adulti. Adesso, questa struttura emotiva diventa oggetto di un’elaborazione rituale e culturale, compiuta nel contesto dei concerti rock, che, avvicinando giovani che appartengono a subculture diverse, li trasforma in una comunità interpretativa relativamente compatta. La constatazione di un clevage profondo e insanabile circola in una forma molto generale e trasversale. Emerge un atteggiamento oppositivo di molti giovani nei confronti del mondo degli adulti, sia esso rappresentato dai genitori, dai politici, dagli insegnanti, ecc. Questa opposizione risuona in The Times They Are a-Changin’ di Dylan, nel 1964. L’anno dopo irrompe l’inno generazionale per eccellenza, My Generation degli Who. Jim Morrison e i Doors, al contempo, danno il massimo spessore possibile alla frattura generazionale, quando, nell’agosto 1966 durante una persormance al Whisky a Go Go sul Sunset Boulevard di West Hollywood, nell’interpretazione di The End Morrison improvvisa verbi che riprendono l’Edipo Re. Il brano, nella sua bruciante esplorazione freudiana del contrasto generazionale, dà una quantità di suggestioni a tutti quelli che vogliono ragionare sul senso del solco che li separa dai loro genitori, o in generale dalle figure parentali (insegnanti, politici, opinion leaders). In questo modo la liminalità rituale che permea i concerti dal vivo acquista uno spessore e un contenuto precisi: andare dall’altra parte (Break on Through (To the Other Side), 1967). I concerti funzionano come portali virtuali per passare in uno spazio semantico e simbolico che di per sé resterebbe indefinito, se il processo generativo che accompagna la nascita della musica rock non ne precisasse panorami estetici ed etici. 6. Hey Joe! La liminalità rituale che dà un senso simbolico al sentimento di disaffiliazione e di distacco nei confronti delle “vecchie generazioni” fa sì che gruppi che propongono soluzioni stilistiche molto diverse possano essere accettati da una comunità interpretativa convergente. Ciò avviene anche perché nei vari stili musicali rock sono compresenti le figure profonde che appartengono ai generi- matrice di riferimento. Questa convergenza culturale fa sì che ai grandi festival nessuno trovi strano che si possano ascoltare, in sequenza, artisti apparentemente tanto diversi. Se osserviamo determinati brani, che definiamo brani-palinsesto, il loro complesso reticolo testuale, fatto di rimandi, citazioni, ibridazioni, sovrapposizioni tra generi emerge con assoluta chiarezza. Questo è il caso di Hey Joe di Jimi Hendrix, che mostra come funziona il processo generativo che struttura questa nuova musiva e quali ne siano le implicazioni culturali. La canzone esce prima nello UK nel dicembre del 1966 nel primo 45 giri della Jimi Hendrix Experience, che riceve un’ottima accoglienza. La band pubblica il brano negli USA nel maggio del 1967 e viene eseguito al Monterey Pop Festival a luglio dello stesso anno. Dato il successo, Hey Joe diventa ben presto uno dei brani-simbolo per il chitarrista. L’atmosfera sociale e politica negli USA e in Europa si è fatta particolarmente tesa. In Vietnam i soldati statunitensi aumentano; la pregiudiziale nonviolenta del Movimento per i diritti civili è stata criticata e superata da formazioni come la Organization of Afro-American Unity, fondata da Malcol X nel 1964. Le tensioni nei ghetti urbani riservati ai neri esplodono più volte in risposta a interventi brutali della polizia: gravi rivolte scoppiano il 18 luglio 1964 a Harlem, seguite da quelle scoppiate a Los Angeles, Detroit, Newark, Tampa, Cincinnati, Milwaukee, Atlanta. Nel febbraio 1965, Malcom X viene assassinato. Tutte queste circostanze concorrono alla radicalizzazione dei movimenti: nell’ottobre 1966 lo SNCC abbandona formalmente la pregiudiziale nonviolenta; nell’ottobre dello stesso anno nasce il Black Panther Party, una formazione politica dotata di piccoli gruppi paramilitari. Ma la storia di Hey Joe sembra appartenere a un altro tempo e un altro mondo. Strana storia, anzi, per i tempi che corrono: non ci sono eroi luminosi, valori positivi o riferimento alcuno al contesto contemporaneo. C’è un femminicidio descritto nel più indifferente dei modi. Perché inquietudine e rabbia (quali il testo trasuda) dovrebbero essere espresse proprio in questo modo? Molte reazioni giovanili antisistema, dettati dai più vari motivi, si manifestano spesso nella forma di resistenze rituali che nascono attraverso la costruzione di stili culturali dissonanti: attraverso l’impiego e il nuovo assemblaggio di materiali preesistenti. Inoltre, dalla metà degli anni Sessanta, anche attraverso la ritualità dei concerti, è la musica rock a diventare uno dei consumi culturali fondamentali per esprimere la propria alterità rispetto alla cultura di massa mainstream. La musica rock ha in sé un’autonoma carica controculturale che le deriva in modo determinante dal processo generativo attraverso cui si forma. Le forme del rock nascono da un sistematico crossover tra stili musicali e letterali che normalmente sono ai margini della cultura di massa mainstream. Grazie a questa marginalità, questi stili offrono due vantaggi: 1. Contengono soluzioni “esotiche”, talmente di nicchia da apparire inedite; 2. Contengono forme narrative che disegnano orizzonti etici inaspettati, dando vita a una struttura emotiva fondata su un profondo senso di estraneità rispetto al sistema di valori della cultura dominante. Il peso della tradizione che l’archivio stilistico dei singoli generi-matrice si porta con sé è fondamentale e condiziona in modo rilevante le forme della nuova musica. Questo processo generativo fa sì che le singole componenti dell’intero universo rock debbano essere viste come dei ricchissimi palinsesti sui quali di addensa una notevole molteplicità di relazioni intertestuali. La decifrazione di un palinsesto rock ci consente di osservare gli strati costitutivi e l’intensità del condizionamento che essi esercitano sulla nuova forma-canzone che ne deriva → [Palinsesto Hey Joe:]  [I strato] Hey Joe è stata scritta da un busker bianco che si esibisce a NY e in California, Billy Roberts. Otto versioni precedono la versione di Hendrix dal lato musicale, con un alto grado di mutazioni fra una versione e l’altra, mentre dal punto di vista testuale le varianti significative sono poche. L’interpretazione più significativa è quella di Tim Rose, eseguita con chitarra acustica e batteria a ritmo lento e, soprattutto, nella quale i singoli versi sono cantati divisi nettamente in due emistichi distinti. Questa versione costituisce il modello per Hendrix: la sua versione accoglie proprio questa caratteristica testuale scelta da Rose. Questa soluzione dà all’interpretazione del brano una connotazione che manca a tutte le altre versioni. Se la versione di Rose conserva una coloritura country, dall’esecuzione di Hendrix viene fuori un blues diviso in tre strofe di quattro versi. Del blues, Hendrix conserva il tono colloquiale e l’abitudine di aggiungere frasi ponte fra una strofa e l’altra per dare maggior pathos ai diversi momenti narrativi. Dunque, la nuova versione di Hendrix intreccia una relazione intertestuale intensa con il blues, genere rimasto di nicchia negli USA per lungo tempo. L’universo narrativo blues resta all’interno di un paesaggio etico attraversato da un’inquietudine che sembra non avere fine. Hendrix non è il solo in quegli anni ad appoggiarsi al repertorio blues: questo colloca stabilmente la sua versione di Hey Joe all’interno di un quadro più generale (oltre a spiegarne il successo).  [II strato] Tuttavia, Hey Joe non è propriamente un blues. Joe non parla in prima persona: il blues è sempre un’effusione narrativa soggettiva, mai una narrazione esterna di vicende che accadono ad altri. La narrazione esterna appartiene all’hard country. Ricordiamo a tal proposito i numerosi rapporti intertestuali che legano questo genere al blues, accomunati da una medesima sensibilità per un underworld di perdenti, antieroi. Non è solo l’impostazione narrativa a segnalare gli innesti hard country presenti in Hey Joe. Anche le fonti individuate per la versione originaria del brano provano la compresenza di questo genere: Billy Roberts, autore del brano, si è mosso lavorando su tre esempi testuali → 1. Hey Joe di Boudleaux Bryant, incisa da Carl Smith nel 1953. La canzone parla di due amici che litigano per una bella ragazza; struttura dialogica. 2. Baby, Please Don’t Go To Town di Niela Miller. Struttura dialogica con un’imprecisata voce narrante che si rivolge alla protagonista che vuole andare per i bar della città dopo una delusione amorosa. 3. Una tradizionale murder song incisa nel 1930 da Clarence Ashley, banjoista hillbilly bianco  [III strato] Se analizziamo l’esibizione del brano a Monterey, possiamo aggiungere un terzo strato al palinsesto. Hendrix suona la chitarra coi denti; esegue l’assolo tenendo la chitarra dietro la schiena; dà fuoco alla sua chitarra e la sfascia per terra, per poi gettarla al pubblico. Hendrix impiega un codice performativo già da tempo sperimentato da numerosi artisti afroamericani R&B o blues. Questa soluzione visuale apre un canale intertestuale con un universo artistico del tutto diverso, ossia quello dell’arte d’avanguardia. Townshend, chitarrista degli Who (che si esibiscono a Monterey prima di Hendrix) ha già sfasciato la sua chitarra contro il palco. Sono gesti estremi di ribellione e di autodistruzione sta percorrendo. Si tratta di offrire una tragica istantanea di vita contemporanea: ciascuno, a seguire, si regola come meglio preferisce. Il maschilismo di certe canzoni di questi anni deriva dalle radici blues e hard country del rock. Il modo in cui funzionano le relazioni amorose in questi due generi consiste nel dichiarare, perfino ideologicamente, l’adesione a una scatenata aggressività di genere, per sovvertirla poi dall’interno e sbriciolarne la sostanza nel suo inverso, cioè nella più disperante e impotente debolezza. Questo si evince, ad esempio, dai testi dei Rolling Stones, come Under My Thumb o Brown Sugar, o dal manifesto promozionale dell’album Black and Blue. Ciascuno dei flash qui evocati trova il suo simmetrico rovesciamento in molti altri testi del canzoniere degli Stones, poiché l’autosovversione avviene nello spazio comunicativo avviene nello spazio comunicativo dell’album stesso. Se la voce narrante si presenta come selvaggio dominatore (Brown Sugar), presto gli altri personaggi maschili che popolano l’album Sticky Fingers operano una sovversione del “macho” in un uomo estremamente fragile, che fa abuso di sostante stupefacenti e che necessita disperatamente di una donna da cui dipendere integralmente, sia sul piano psicologico, che su quello affettivo, che su quello erotico. I rapporti di forza sono completamente capovolti e si apre la strada per il classico tema blues dell’uomo abbandonato dalla donna e pieno di rimpianti (I Got the Blues, Wild Horses). La struttura autosovversiva è fondamentale anche nell’album Black and Blue. Allo stesso modo, la matrice blues-hard country funziona anche da una prospettiva femminile. Ne è esempio la cover che i Jefferson Airplane interpretano di Chauffeur Blues, in cui una lei vuole che lui sia il suo autista e che se provasse a portare in giro altre ragazze farebbe una brutta fine. Legata a lungo al blues è Janis Joplin, il cui repertorio oscilla incessantemente tra i due poli classici della poetica blues autodenigrazione/aggressività affettiva. Joplin esprime un incontenibile tormento interiore: lei, voce narrante, vorrebbe disperatamente conformarsi al modello normativo vigente, essere perdutamente innamorata del suo principe (I Need a Man to Love) e, quando sia arrivato, lei sarebbe disposta a fare di tutto (Try [Just a Litle Bit Harder]), purché dimostri di essere la persona giusta, l’amore di una vita (One Good Man). Tuttavia, il sogno non ha alcuna possibilità di realizzazione e anzi rischia di trasformarsi in un incubo: lui è un principe azzurro che vittimizza e poi scappa (Kozmic Blues), un carnefice (Piece of My Heart); lei è sottoposta a crudeltà psicologica imposta dall’avidità sessuale e dall’aridità affettiva del mondo maschile (Ball and Chain) e oscilla fra il desiderio di tornare (Maybe) e l’impulso a ripagare con la stessa moneta (As Good as You’ve Been to This World). Non c’è alcun lieto fine salvifico (To Love Somebody). La donna è al tempo stesso capace di reazioni che rovescino del tutto i rapporti di forza. Janis Joplin propone una dialettica che polverizza l’immagine normativa della brava ragazza, controllata, dolce, al massimo un po’ manipolatrice. L’anti-brava ragazza è Pearl, personaggio interpretato sul palco da Joplin: Pearl è sessualmente disinibita, sboccata, estrema nell’aggressività come nella tenerezza. Janis è anche una consapevole antistar: non è bella, anche se sessualmente attraente; ed è dolorosamente consapevole di ciò. Al fianco degli emarginati “classici”, con Lou Reed si aggiunge alla lista anche chi possiede identità di genere “altre”, come transessuali e omosessuali, usando il registro della descrizione realistica, sia quello della deformazione onirica. In canzoni come Lady Godiva’s Operation e Sister Ray, Reed si limita a raccontare storie estreme, storie possibili, ampliando di molto la gamma delle tematiche che possono essere ammesse dall’industria culturale. Queste canzoni circolano un anno prima che Stonewall faccia del tema dell’omosessualità una questione di rilievo pubblico, nel 1969. Dall’episodio dello Stonewall Inn, infatti, nasce il Fronte di liberazione gay, movimento che difende il diritto all’amore, tematica della grande narrativa romantica del XIX secolo. Un anno dopo, nel 1970, Marc Bolan e soprattutto David Bowie danno una piena dignità artistica all’ambiguità sessuale, presentandosi sul palco con sembianze femminili e generando una perturbante e seducente immagine bisessuale. Anche le donne fanno altrettanto: nel 1974 Suzi Quatro canta I Wanna Be Your Man senza cambiare il genere del testo e dando al brano un possibile significato doppio (può voler dire che nella coppia etero è lei il vero uomo, ma anche che lo è nel rapporto lesbico). Nel 1975 Patti Smith rovescia il senso del grande successo dei Van Morrison, Gloria, appassionata dichiarazione di amore eterosessuale. La natura provocatoria e trasgressiva di queste canzoni è resa possibile dallo statuto di parlabilità che il rock riconosce a esperienze fin allora considerate “oscene”. È naturale constatare che sono soprattutto i gruppi che dialogano col blues a essere in grado di affrontare il tema dell’erotismo, come in Back Door Man dei Doors, o Light My Fire. Nelle esibizioni dal vivo, musicisti come Jimi Hendrix o Jim Morrison usano la chitarra o l’asta del microfono come un’estensione del fallo. La grafica degli album è egualmente utilizzata per enfatizzare una nuova libertà nell’avvicinarsi al corpo, alla nudità o all’erotismo. Esemplare in questo senso è la copertina del primo album registrato da John Lennon e Yoko Ono, Unfinished Music No. 1: Two Virgins, che ritrae gli artisti completamente nudi. L’aspetto più rilevante di questo lavoro è l’evidente relazione che intrattiene con le recenti elaborazioni dell’avanguardia musicale e visuale, con la quale Yoko Ono è stata a contatto, soprattutto nell’ambito del movimento Fluxus, che già svelano una spinta verso un diverso rapporto con la nudità. Ancor più importanti sono i rapporti che l’immagine della copertina intrattiene con altri due lavori dell’avanguardia del periodo: Word Words (1963), balletto di Yvonne Rainer e Steve Paxton che ballano all’unisono indossando solo un perizoma, sovvertendo la tradizione del balletto classico in cui i ruoli maschili e femminili sono nettamente differenziati; e It’s a Man’s World I (1964) insieme a It’s a Man’s World II (1965) di Pauline Boty, che coglie la differente rappresentazione delle presenze maschili e femminili nella vita pubblica. Lennon e Ono, presentando con naturalezza le loro nudità come introduzione a un’opera alla quale hanno lavorato insieme, elaborano un ragionamento concettuale che appartiene allo stesso ordine del discorso al quale appartengono i quadri di Boty e la performance di Rainer e Paxton. Un altro elemento che costituisce la sovversione sistematica delle strutture etiche che dominano la cultura di massa mainstream operata dal rock sono le groupies. Le reazioni negative che criticano pesantemente la moralità delle groupies sono animata dal senso di disagio che si impadronisce di uomini che si trovano di fronte a modelli di femminilità inediti ed evidentemente del tutto trasgressivi. Il rock apre prospettive inedite per quanto riguarda le dimensioni private dell’amore, del sesso, dell’identità di genere. 3. Rock e movimenti Delle canzoni che trattano il tema della guerra, poche vengono illuminate da una tenue speranza, come accade per Imagine di John Lennon (1971). Molti testi non lasciano alcuno spazio alla speranza, come A Hard Rain’s a-Gonna Fall di Bob Dylan, Gimme Shelter dei Rolling Stones (1969) o Unknown Soldier dei Doors. Peraltro, non tutti gli artisti rock hanno una posizione chiara di fronte alla questione della guerra, o in generale di fronte ai temi di natura più schiettamente politica. Jimi Hendrix, ad esempio, se in qualche occasione sembra aderire agli ideali pacifisti, in alcune canzoni come Machine Gun o in dichiarazioni che rilascia non sembra palesare sentimenti altrettanto integralmente pacifisti. Considera la guerra orribile, ma ritiene che gli USA stiano combattendo per una giusta causa. Dal 1965 in avanti la protesta giovanile contro la guerra in Vietnam è andata progressivamente crescendo e negli USA ha finito per spostare un buon numero di giovani militanti di SDS verso un apprezzamento positivo dell’esperienza comunista. Nel 1969 l’SDS si spezza in gruppi diversi, uno dei quali (Weather Underground Organization) accoglie l’idea del ricorso alla violenza come strumento di lotta politica. In Europa tra il 1967 e il 1968 si forma un grande movimento studentesco che aderisce all’idea del valore positivo della violenza come “levatrice di storia”. In parallelo si alzano voci critiche sulla posizione riservata alle donne nella società statunitense e all’interno dei vari movimenti: è dall’insoddisfazione delle donne che partecipano al movimento studentesco che nasce l’impulso alla formazione di un nuovo movimento femminista (come la National Organization for Women, NOW, 1966). La maggior parte dei musicisti rock semplicemente ignora le questioni più direttamente politiche ed essenzialmente sceglie di non esprimersi in alcun modo. I casi più rilevanti di eccezione sono tre: 1. Il primo caso è un chiaro esempio di ricezione deviata. Nel marzo 1968 Mick Jagger partecipa a una manifestazione contro la guerra in Vietnam; nel maggio dello stesso anno rilascia un’intervista all’ “International Times”, giornale della controcultura inglese, nella quale non prende le distanze dal movimento, ma nemmeno sostiene apertamente le ragioni di una rivolta sociale. È la posizione rispecchiata in Street Fighting Man, del 1968. Il testo ha la forma di un dialogo tra un militante, che sostiene che sia il momento giusto per combattere, e la voce del leader della band che risponde chiedendosi cosa possa fare; 2. Il secondo caso è quello di John Lennon. Nel 1968 esce il brano Revolution, che sembra prendere le distanze dalla radicalizzazione politica. Nel novembre dello stesso anno esce Revolution 1, con un leggero ma significativo cambiamento nel testo che esprime incertezza rispetto alla precedente versione. Da allora, l’orientamento di Lennon si chiarisce in direzione di un “pacifismo rivoluzionario”. Nel marzo e nel maggio del 1969 Lennon e Ono organizzano il famoso bed-in contro la guerra in Vietnam e, nello stesso anno, pubblicano Give Peace a Chance. Lennon e Ono vanno oltre alla battaglia contro la guerra, accogliendo anche le battaglie sociali dei lavoratori (Working Class Hero, 1971) e del femminismo (Woman Is The Nigger of the World, 1972); 3. I Jefferson Airplane dal 1968-1969 prendono una posizione netta e manifestano una chiara simpatia per i movimenti che nascono intorno a loro, assumendo atteggiamenti provocatori e irriverenti (come il blackface col pugno nero alzato di Grace Slick nella puntata della Smothers Brothers Comedy Hour nel novembre 1968). Nelle loro canzoni di leggono le intenzioni di chi vuole compiere una violenta rivoluzione politica e sociale (We Can Be Together, Volunteers). Ciò che allontana la narrazione politicamente militante dei Jefferson dalla più banale propaganda rivoluzionaria è la descrizione dell’esito di questa possibile rivoluzione: ogni racconto del dopo, nelle loro canzoni, è il racconto di un dopo- catastrofe, che può essere causata da una guerra atomica o anche dai fallimenti della rivoluzione e dall’incapacità di cambiare una società repressiva e totalitaria. La fuga è l’unica possibilità, ma non sappiamo se sarà coronata da successo. In questa struttura narrativa si fondono due temi importanti della tradizione controculturale: il tema del viaggio come straniamento sociale; la totale assenza di happy ending. Ribellarsi è giusto: se poi questo porti davvero a qualcosa di positivo non sono in grado di dirlo. Il ragionamento non ammette un esito consolante, rassicurante e positivo. 4. Un-happy ending La stragrande maggioranza delle narrazioni rock sovverte sistematicamente uno dei capisaldi etico-narrativi della cultura mainstream, ovvero l’happy ending. La negazione del lieto fine giunge al termine di complessi concept album nei quali una sofisticata concatenazione narrativa tra le diverse canzoni costruisce storie ricche di suggestioni → 1. In the Court of the Crimson King, 1969, King Crimson. I KC invitano a provare a guardare nel futuro: ciò che vedi è il panorama della devastazione futura che opprimerò (e perciò li uccidono senza apparente motivo). In The Graduate, il neolaureato protagonista del film è disgustato dal modello che i suoi genitori e i loro amici sembrano offrirgli. I protagonisti di Bonnie and Clyde sono due giovani socialmente disadattati che si gettano in una corsa a capofitto verso il niente: se in apparenza la soluzione del film sembra rispettare la struttura del noir classico (i cattivi sono puniti e la giustizia trionfa), diversamente dalla struttura classica colui che propizia il ritorno all’ordine è un personaggio inquietante, un Texas Ranger che fa fuori i protagonisti in un violentissimo agguato finale. La giustizia non è una vera giustizia e si fa fatica ad attribuire un significato o una qualunque eticità all’epilogo della storia. 2. Assoluta mancanza di un happy ending che conferisca un senso che non sia tragico o nichilistico alle storie narrate. Al di là della fine tragica di antieroi votati all’autodistruzione, colpiscono alcune vicende così dure da mettere a disagio, in cui perfino la speranza di riscatto viene annientata dalla tragedia. Ne sono esempio Midnight Cowboy e They Shoot Horses, Don’t They?. Il genere che resiste maggiormente a questa sovversione di una delle norme fondamentali nelle narrazioni hollywoodiane è la commedia romantica. The Graduate offre uno scardinamento brillantissimo del finale felice. Il protagonista riesce a portare via con sé l’amata, che si è appena sposata, con una fuga rocambolesca. E, tuttavia, ciò non conduce ad un lieto fine: nel finale c’è inquietudine, suggerita dagli sguardi sempre più perplessi della coppia e dalla canzone con cui si chiude il film, The Sound of Silence di Simon & Garfunkel. Parimenti, Annie Hall di Woody Allen (1977) nega il classico lieto fine romantico, pur dopo averlo messo in scena: l’happy ending appartiene solo alla fantasia del protagonista, che fa il commediografo e che, poco prima del finale, rompe la quarta parete dialogando col pubblico e spiegandogli che lui e Annie non si sono rimessi insieme. Il finale viene affidato ad un’ultima battuta di Alvy (Woody Allen) che, con surreale ironia, dà una propria visione delle relazioni uomo-donna, ben distante dall’idealizzazione romantica dell’amore mainstream. Di tutti i film di questo periodo, forse quello che con maggiore lucidità e determinazione colpisce al cuore uno dei fondamentali modelli narrativi della cultura di massa mainstream (la “home” assediata e poi salvata) è Night of the Living Dead, noto per aver fondato il sottogenere horror degli zombie. Il salvataggio non è veramente tale: l’unico sopravvissuto (peraltro di colore) viene ucciso e i presunti salvatori (forze di polizia coordinate da una schiera di volontari che si atteggiano come dei redneck) si rivelano non meno letali degli zombie. Il finale del film è visivamente ed eticamente brillante: gli ultimi fotogrammi riproducono immagini fotografiche piuttosto sgranate dei “salvatori” che con uncini da macellaio arpionano il corpo di Ben (l’ultimo sopravvissuto da loro ucciso), lo trascinano all’esterno e lo gettano sulla catasta composta dai corpi degli zombie uccisi. Sembra la documentazione fotografica di un linciaggio. Il riferimento alle tensioni razziali è evidente ma del tutto incidentale. Il tema è sistematicamente assente nelle produzioni della Hollywood Renaissance, così come lo è la guerra in Vietnam (anche se allusioni implicite possono essere colte negli antiwestern). Egualmente pochi sono i film che documentano le vicende del movimento studentesco. Questi film si rivelano piuttosto cauti anche sul versante dell’erotismo e della sessualità. 2. Broadway e dintorni Ciò che il cinema non osa, lo fa Broadway, soprattutto con il musical, che subisce una decostruzione che lo riorienta verso temi narrativi e visivi che appartengono pienamente alla controcultura rock. Alle spalle delle produzioni di maggior successo c’è tuttavia un’importante elaborazione teatrale d’avanguardia che ha luogo nel Greenwich Village o nel circuito Off- e Off- Off-Broadway [Broadway: teatro da più di 499 posti; Off-Broadway: 99 – 499 posti; Off-Off- Broadway: meno di 99 posti]. Particolarmente influente in questo processo è stato il collettivo teatrale “Living Theatre” di Judith Malina e Julian Beck: tra le sue caratteristiche c0è da un lato l’idea di una diretta fusione tra elaborazione artistica e vita quotidiana (The Connection, 1959, storia di un gruppo di drogati recitati da effettivi tossicodipendenti); dall’altro c’è il “teatro della crudeltà”, teorizzato negli anni Trenta da Antonin Artaud, secondo il quale una rappresentazione teatrale deve aggredire emotivamente lo spettatore con scene intensamente violente. La prima rappresentazione che cambia radicalmente le coordinate dei musical di Broadway è Hair: The American Tribal Love-Rock Musical. Il debutto avviene nell’ottobre del 1967 in un teatro del circuito Off-Broadway, ma il successo gli vale presto il passaggio al circuito Broadway un anno dopo. Nel passaggio, insieme alla regia, cambia anche la trama. Protagonista è un ragazzo della classe media che abbandona la casa dei suoi per unirsi a una comunità hippie nel Greenwich Village. I personaggi della comunità sperimentano una nuova libertà sessuale, fanno uso di droghe, marcano le distanze che li separano dalla società normale e criticano la violenza imperialista che attraversa la storia degli USA. Il protagonista, tuttavia, viene reclutato per il Vietnam, da cui non farà più ritorno. In questo musical troviamo testi che commentano questioni politiche o sociali d’attualità, l’uso della droga, l’amore libero e il gap generazionale. Hair ha diverse caratteristiche che lo rendono fondamentale nella storia della cultura di massa: è il primo musical dedicato alla descrizione di una comunità hippie; il primo ad affrontare in modo diretto il dramma della guerra in Vietnam; il primo a usare intensivamente forme musicali rock. Questo porta ad un’audience composta consistentemente da giovani (insolito per Broadway). Il musical ha inoltre un successo che travalica l’ambiente specificamente newyorkese. La colonna sonora del musical viene pubblicata come LP nel maggio 1969 e dieci anni più tardi dal musical viene tratto un film, ma con una trama significativamente rimaneggiata. Caratteristiche del musical sono le polemiche scatenate dall’ultima scena del primo atto, in cui gli attori rimangono per un breve momento integralmente nudi sul palco. Come già detto nel capitolo precedente, nemmeno qui all’esposizione dei corpi nudi fa seguito una rappresentazione di un atto sessuale. Agli inizi degli anni Sessanta i lavori sperimentali di un gruppo di registi conferiscono alla rappresentazione di atti sessuali il valore di una trasgressione etica e di un gesto esteticamente significativo. L’idea chiave che guida questi registi dell’avanguardia artistica newyorkese verso la rappresentazione della sessualità consiste nel dare dignità a banali atti di vita quotidiana sulla base dell’insegnamento di Duchamp e di Cage. Nei lavori di Andy Warhol, Barbara Rubin e Carolee Schneemann, la presentazione dei gesti quotidiani è filtrata attraverso una peculiare interpretazione visiva che invita chi guarda a una sorta di straniamento radicale, che allontana queste pellicole dalle produzioni puramente pornografiche. L’importanza di queste produzioni sta nello strappare la visualità erotica sia al dominio pornografico, sia alla più nascosta intimità, rendendola dunque pubblica e legittimandola da un punto di vista estetico. Un musical in particolare porta a un pubblico più vasto la rappresentazione della sessualità: Oh! Calcutta!, che esordisce Off-Broadway nel giugno 1969. Lo spettacolo (che riscuote presto un buon successo) è composto da singole scene in cui attori e attrici, tutti bianchi, descrivono varie possibili situazioni erotiche, non di rado con accenti surreali o umoristici: è il primo momento in cui a teatro si può affrontare la sessualità. Questo esempio apre la strada ad altre produzioni che affrontano il tema della sessualità con maggiore audacia. Nel giugno 1973 esordisce a Londra The Rocky Horror Picture Show che, seguendo una trama fantascientifica, illustra liberamente la legittimità di un erotismo plurimo – eterosessuale, omosessuale o bisessuale. Più impegnativo e diretto è Let My People Come: A Sexual Musical, una risposta a Oh! Calcutta!. Qui il sesso viene descritto in tutte le sue dimensioni come una cosa positiva. All’interno del musical, tre scene sono dedicate all’illustrazione di amori omosessuali e, per la prima volta, i gay non si fanno fuori, in un modo o nell’altro, alla fine della storia. Lo spettacolo diventa film nel 1970 per la regia di William Friedkin (regista di The Exorcist), portando per la prima volta sul grande schermo le tematiche omosessuali in forma esplicita (e fu un secco insuccesso al box office). Per quanto riguarda la rappresentazione del sesso etero, la produzione cinematografica non è solo influenzata dai lavori cinematografici e teatrali d’avanguardia. Essa deriva anche da una generale depenalizzazione della produzione e della fruizione dei materiali pornografici, che ha luogo sul finire degli anni Sessanta. Il primo film con scene esplicite negli USA è Blue Movie, di Andy Warhol (1969). Di impatto commerciale incomparabilmente maggiore è Ultimo tango a Parigi (Bertolucci, 1972), che narra dell’incontro casuale tra un americano disilluso (Marlon Brando) e una borghese annoiata (Maria Schneider). Le scene di sesso sono intensissime nella resa drammaturgica e il finale è tragico, con l’uccisione di lui da parte di lei. Nasce l’etichetta “porno chic”, coniata dal giornalista Ralph Blumenthal nel gennaio 1973 e che si riferisce a film come Deep Throat (Jerry Gerard, 1972), che accendono intende discussioni sul loro significato culturale. 3. Pop art La pop art è una proposta artistica che emerge dagli ambienti dell’avanguardia più oltranzista e che riesce a imporsi all’attenzione di un pubblico di massa. Essa si propone come reazione al modernismo antifigurativo (o “espressionismo astratto”), cioè alla corrente di Pollock, Rothko, ecc. Quest’ultima proposta artistica genera (solo in un secondo momento) un imprevedibile successo commerciale, giacché nel corso degli anni Cinquanta questi artisti cominciano a essere presentati come la testimonianza più evidente della straordinaria libertà creativa che vige negli USA. Il fatto che tutti questi artisti siano bianchi e che le loro opere siano connotate da un’assoluta irrilevanza narrativa fa sì che la loro proposta estetica appaia piuttosto inoffensiva, quindi socialmente e politicamente accettabile: l’esatto contrario di ciò che in quegli stessi anni accade al jazz d’avanguardia o alla letteratura beat. Da un lato la proposta artistica pop nasce proprio come reazione al dominio antifigurativo dell’espressionismo astratto. Dall’altro nasce anche una sorta di attrazione/repulsione nei confronti della cultura di massa, dei suoi oggetti, dei suoi divi, delle sue forme espressive, che diventano altrettanti temi cruciali del ritorno al visuale che connota questo nuovo stile. Per esempio, Peter Blake, capofila del pop britannico, è un appassionato cultore di jazz e di r’n’r, ed è fan di Elvis Presley. Ciò che Blake si ripropone di fare è realizzare un’arte che possa dialogare immediatamente con la cultura di massa. Artisti come Warhol o Roy Lichtenstein lavorano utilizzando i fumetti come oggetto principale della loro elaborazione artistica, o le lattine della zuppa Campbell o le scatole del sapone Brillo. “Pop” art sta nel senso di “popular”, arte che non ha paura di prendere come punto di riferimento fondamentale la più banale quotidianità delle masse, delle loro scelte di consumo, delle loro preferenze culturali. Non senza iniziali resistenze, la pop art si impone sul mercato, sulle riviste di tendenza, nelle istituzioni museali e nella grafica pubblicitaria. Quali nessi collegano la pop art alla controcultura rock? Intanto alcuni artisti-cardine del movimento pop sono autori delle copertine di alcuni degli album più influenti nella storia del rock, come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Blake e Haworth), White Album (Richard Hamilton), The Velvet Underground & Nico, Sticky Fingers, ecc. di Warhol. Il rapport di quest’ultimo col rock è anche più profondo e strutturato, avendo lanciato la carriera di uno dei più influenti gruppi rock, i Velvet Underground, che diventano (con la partecipazione di Nico) la band della famosa Factory e soggetto delle riprese e degli happening organizzati da Warhol. Il dichiarato debito che molti lavori pop hanno nei confronti del consumismo e della cultura di massa esprime un atteggiamento di accettazione o di distacco critico? Spesso le opere degli artisti
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