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Wonderland - la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Sintesi del corso di Storia

Riassunto sostitutivo del libro del prof A.M. Banti per l'esame di Forme e modelli di comunicazione in età contemporanea (a.s 2019/2020)

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Wonderland - la cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Wonderland – La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd Prima parte: Over the Rainbow I. INDUSTRIA CULTURALE E CULTURA DI MASSA 1. L’industria culturale Era la primavera del 1933: gli Stati Uniti stanno attraversando un periodo di forte crisi sociale ed economica e nei cinema viene proiettato per la prima volta una storia animata prodotta dalla Walt Disney, “Three little pigs” (regia di Burt Gillet). La trama è semplice e lineare (ogni porcellino costruisce la propria casa: il primo in paglia, il secondo in legno e il terzo di mattoni. Le prime due vengono spazzate via dal soffio del lupo, mentre l’ultima, quella più resistente, rimane in piedi). Sembra apparentemente solo una storia per bambini, ma in realtà è un pezzo di eccezionale bravura che racchiude raffinatezza compositiva e densità narrativa, entrambe caratteristiche fondamentali che apparterranno alla produzione – a partire dagli anni ‘30 del 900 – della cultura di massa. La cultura di massa consiste in un sistema di produzione e circolazione di informazioni e narrazioni trasmesse attraverso una serie di media (libri, giornali, canzoni, film, ecc) pensati come strumento di informazione e intrattenimento per le persone mediamente colte. Data la semplicità narrativa e argomentativa ed essendo vendute a prezzi molto contenuti, queste produzioni culturali, riescono a raggiungere un pubblico molto vasto. Ci sono ambiti in cui non è necessario un training culturale: fotografia, radio, cinema e musica, per esempio, possono essere apprezzati da chiunque, anche da coloro che non possiedono un’elevata istruzione; al contempo, queste produzioni, possono attrarre anche un pubblico intellettuale. L’obiettivo di queste forme di produzione è di tipo commerciale: gli autori, editori, compositori, non creano le loro opere solo per esprimere la loro creatività, ma lo fanno principalmente per ottenere un ricavato. L’orientamento al profitto, fa di questo sistema produttivo una vera a propria “industria culturale”. Questo tipo di produzione, si concentra sopratutto in un numero ristretto di aziende e imprenditori (sopratutto negli USA dei primi quattro decenni del XX secolo). In campo cinematografico erano presenti 8 aziende di spicco che si occupavano della produzione e distribuzione delle pellicole nelle sale cinematografiche da loro possedute: • Paramount Pictures • 20th Century Fox • Warner Bros, Metro-Goldwyn-Meyer (MGM) • Radio-Keith-Orpheum (RKO) • Universal • Columbia • United Artists (che aveva distribuito “Three little pigs”) La radio è un altro importante strumento di comunicazione di massa: nasce all’inizio del XX secolo e inizialmente utilizzata per usi militari durante la Grande Guerra. In seguito, dai primi anni ‘20, negli USA e in Europa iniziano le trasmissioni per il pubblico. Negli Stati Uniti si fanno largo 3 grandi network nazionali: • National Broadcasting Company (NBC) • Columbia Broadcasting System (CBS) • Mutual Broadcasting System (MBS) Questi network privati acquistano le emittenti locali inserendole in una programmazione nazionale che obbliga le emittenti più piccole ad alternare le trasmissioni imposte dal network nazionale alla programmazione pensata per i gusti del pubblico regionale a cui l’emittente intende rivolgersi; tutte le trasmissioni sono finanziate dalle inserzioni pubblicitarie. Il mercato discografico, negli anni ‘20 e ‘30, muta ripetutamente a causa della crisi del ‘29: molte piccole aziende vengono acquistate da altre di dimensioni maggiori. Infatti, nel 1939 il mercato discografico è controllato da 3 etichette soltanto: • RCA Victor • Decca • Columbia /ARC I fumetti appartengono ad un altro campo altrettanto produttivo: sono una forma espressiva nata a fine del XIX secolo. Prima legata strettamente ai quotidiani e poi, nel 1939, lanciata con il comic book, pubblicazioni autonome, i cui protagonisti principali sono nuove figure dell’immaginario di massa: i supereroi. Il primo comic book lanciato sul mercato appare nel 1938 e contiene le avventure di Superman (creato da Jerry Siegel e disegnato da Joe Shuster). Il successo dato dal primo supereroe favorisce lo sviluppo di tanti altri come Captain Marvel (1940), Captain America (1941), Wonder Woman (1942) e tanti altri. Anche in questo caso si impongono grandi case editrici che dominano questo particolare ambito: • DC National • Timely Comic/Marvel • Fawcett Sin da questo periodo le industrie cercano di ampliarsi sempre di più, unendosi tra loro, creando grandi concentrazioni intermediali (rapporti tra case discografiche, cinematografiche e radiofoniche). 1938: CBS (network radiofonico) ha acquistato la Columbia/ARC (etichetta discografica) diventando così la Columbia Recording Company. Essendo già delle aziende grosse nel loro settore di competenza, questo porta – a cavallo della Seconda Guerra Mondiale – a delle operazioni di anti-trust che pongono dei limiti a queste funzioni tra aziende. 2. Generi Data la vastità e il numero dei generi narrativi, è quasi impossibile collocare con precisione opere letterarie, cinematografiche complesse all’interno di un genere piuttosto che un altro. Nonostante ciò, queste considerazioni non si possono applicare alle opere che appartengono alla sfera della cultura di massa. Infatti, se si osserva la letteratura popolare, il cinema hollywoodiano, i fumetti o i radiodrammi, non si fa fatica a distinguere un western dalle commedie sentimentali, o dalle vicende di fantascienza. E’ anche possibile però, che l’industria culturale offra un mescolarsi di queste connotazioni, senza però creare dei dubbi sulla collocazione del genere: un film con James Bond rientra nella sfera spy stories, ma ciò non toglie che sia presente anche la storia d’amore del protagonista o delle battute sparse per alleviare la tensione. Tutto ciò perchè l’identificazione di genere deriva da delle particolari caratteristiche: • ambientazione della storia nel tempo e nello spazio; • natura del protagonista; • compiti che sono assegnati al protagonista. Queste caratteristiche rendono facile allo spettatore identificare il genere e poter scegliere quello di suo gradimento. Inoltre, le narrazioni di genere hanno un impianto dualistico: contrappongono valori culturali positivi e negativi, per esempio Biancaneve e Grimilde (la strega cattiva), lo sceriffo e il fuori legge, ecc. Un importante caso è il rapporto inverso: • libro → film → soap opera radiofonica Il film in questione è “Stella Dallas” (Amore sublime) diretto da King Vidor. Tratto da un romanzo, venne prodotto nel 1925 un film muto e nel 1937 un film remake, per poi essere trasportato in radio tramite soap opera. Questa intermedialità è una caratteristica fondamentale della cultura di massa mainstream: l’impatto delle narrazioni di massa viene moltiplicato da questa soluzione narrativa che permette ai personaggi di rimanere vivi nell’immaginario collettivo. Questo discorso è ancora più d’impatto quando si parla dei racconti Disney: • “Biancaneve e i sette nani” (1937) è il primo lungometraggio di produzione Disney ad essere portato nei cinema, poi ancora negli anni ‘40, ‘50, ‘60, ‘70, ‘80, ‘90. poi passa ai VHS e DVD oltre che a svariati libri per bambini e parchi a tema. • “Cenerentola” (1950) esce nelle sale cinematografiche come lungometraggio e poi riportato ancora negli anni ‘60, ‘70, ‘80, poi anch’esso in VHS e DVD, parchi a tema, libri per bambini e gadget vari. Inoltre, due sequel animati: “Cenerentola II – quando i sogni diventano realtà” (2002) e “Cenerentola III – il gioco del destino” (2007). ________________________________________________________________________________ II. NARRAZIONI MAINSTREAM 1. There’s no place like home The Wizard of Oz è un film della Metro – Goldwyn – Mayer del 1939 tratto dall’omonimo romanzo per bambini di Frank L. Baum, uscito nel 1900. Al momento della sua uscita, il film ebbe un successo buono ma nontravolgente, mentre negli anni seguenti si impose come uno dei luoghi fondamentali dell’immaginario collettivo statunitense. Diviso in tre parti, il film è accompagnato da musiche che si imposero subito in classifica, fra le quali Over the Rainbow, cantata dall’attrice protagonista Judy Garland. La storia raccontata nel film è semplice, ma nella sua semplicità ripercorre una delle più importanti forme mitiche che ricorrono nella cultura occidentale: quella del viaggio di ricerca (= quest), in cui un eroe, accompagnato da uno o più compagni, deve allontanarsi da casa, intraprendere un viaggio pericoloso, sconfiggere i nemici e compiere un’azione che gli permetta di tornare alla sua comunità di appartenenza. Nel caso di Dorothy, la protagonista, il viaggio intrapreso è un percorso di formazione e di crescita, che consente alla piccola protagonista di acquistare la serenità e la sicurezza necessarie per sentirsi parte integrante della sua comunità. Secondo Paul Nathanson, la quest potrebbe assumere anche i caratteri di un rito di passaggio dall’infanzia alla pubertà (Strega cattiva come simbolo di immaturità sessuale, scarpe rosse come simbolo del sangue mestruale, manico discopa come simbolo fallico). Che la protagonista della storia sia una bambina che oltrepassa la soglia della pubertà è essenziale, giacché nella cultura mainstream diffusa all’epoca il luogo deputato per l’esistenza di una donna è la domesticità. Inoltre, un altro topos fondamentale presente in questo film ma anche in altri del periodo è la presenza di una famiglia ricostruita, più o meno disfunzionale, bisognosa di una ricomposizione, esperienza ben nota ai sopravvissuti alla Grande Depressione, alla migrazione e dalla guerra. Infine, il tono di speranza che accompagna il percorso di Dorothy ha sicuramente contribuito a dare un po’ di conforto ed una fugace serenità a molti spettatori oppressi dalle durezze della vita. 2. Terra di eroi Nel contesto dell’Europa di fine 700 e inizio 800, quando nasce un nuovo modo di concepire i rapporti di potere, il nazionalismo dà corpo alla figura degli eroi. Questi sono uomini che devono essere capaci di difendere la libertà e l’onore della nazione armi alla mano. Leali, puri, rispettosi, coraggiosi, sprezzanti del dolore fisico e del pericolo. Sono da molti punti di vista le figure più tipiche e rappresentative dell’eroismo nazional-patriottico europeo, perché rappresentano anche la figura del martirio. Sono pronti a morire per la causa. L’esempio sacrificale è essenziale perché gli altri abbiano il coraggio di fare lo stesso. Intorno a questa idea, si costruisce nel tempo un intensissimo culto dei caduti. Nella tradizione narrativa statunitense (e anche nelle storie prodotte dalla cultura di massa) l’eroe ha i tratti sacrificali che appartengono al contesto culturale europeo. Il caso più noto di questa particolare declinazione della figura dell’eroe è quello di George Armstrong Custer e della sua morte valorosa con i suoi soldati del 1876. Tuttavia, a questo, nella cultura mainstream statunitense si affianca anche l’eroe vittorioso, presentato fin dai Captivity Tales che raccontano degli attacchi indiani a qualche comunità di coloni e di qualche eroe vittorioso che salva la situazione. Nei Dime Novels la figura dell’eroe salvifico precisa il suo profilo fino a fissarsi nell’immaginario collettivo statunitense con la pubblicazione del romanzo “Il Virginiano” del 1902, dedicato al presidente Theodore Roosevelt. La storia racconta di una comunità di allevatori del Wyoming ossessionata da bade di ladri di cavalli. Le autorità sono corrotte e non sono adeguatamente attrezzate. Arriva un misterioso virginiano di cui non conosciamo il nome. È un uomo fiero e d’onore che decide di lottare con i membri della comunità, anche perché si innamora della maestra del paese. Lo scontro tra il bene e il male si risolve nel duello finale tra l’eroe e il capo dei cattivi, nel quale l’eroe ha la meglio. Il virginiano sposerà la bella maestra ponendo le fondamenta simboliche per un futuro sviluppo della comunità. Il libro ha tantissimo successo e viene usato anche come lettura nelle scuole. Da questo verranno tratti 4 film. Poi, negli anni seguenti, sopratutto dal 1929, personaggi analoghi vivono le loro avventure anche negli altri media. Citiamone alcuni come “Prince Valiant”, “The Lone Ranger”, “Tarzan”, “Dick Tracy” “Buck Rogers”, “Flash Gordon”. Diversamente dagli eroi sacrificali, tutti questi eroi sono personaggi che non muoiono mai. In qualche raro caso invecchiano, si sposano, hanno dei figli che continuano la saga del padre, come accade nella storia di “Prince Valiant”. Ma questa è un eccezione. Per la maggior parte dei casi, gli eroi vivono una vita infinita. Nonostante non lo siano fisicamente, ci sembrano essere immortali e invincibili. L’immortalità e l’invincibilità diventano invece un dato strutturale del personaggio eroico nel 1938, quando compare la prima storia a fumetti di “Superman”. Con lui il supereroe è immortale e ha superpoteri. È un eroe etico nel senso che non uccide nessuno, ricorre alla violenza solo quando è costretto, e non ha bisogno di armi per farlo. Usa insomma una specie di “violenza giusta”. A controbilanciare il potere del supereroe c’è il suo punto debole, in questo caso la Kryptonite, una roccia che i cattivi usano contro di lui. Inoltre Superman è in realtà Clark Kent, un giornalista imbranato, senza fascino, inutilmente innamorato della collega, che a sua volta è innamorata di Superman. Questo è un’altro modo di attenuare il connotato eroico, per consentire al lettore di identificarsi, per fargli capire che il supereroe è anche un tizio normalissimo con le sue fragilità. I tratti di Superman sono replicati dalla prima intera generazione di supereroi è anche in “Wonder Woman”. È un fumetto del 1942 il cui personaggio è tratteggiato psicologicamente da un dichiarato femminista. Wonder Woman è un amazzone che vive con il suo popolo fino a che Trevor, un aviatore americano non precipita nell’isola e se ne innamora, e decide di riportarlo in America, dove inizia la carriera di supereroina. E qui vive lo stesso triangolo amoroso di Superman: Trevor non è attratto da Diana, l’identità normale assunta segretamente dalla donna, perché è perdutamente innamorato di Wonder Woman. La presenza di un eroina come simbolo di emancipazione della donna, nell’immaginario del tempo, poteva essere un problema. Infatti la figura è ridimensionata da una serie di particolari narrativi. Ad esempio quando spesso Wonder Woman spiega che non vuole sposare Trevor perché non potrebbe sopportare di essere una moglie sottomessa e ubbidiente, poi in realtà in alcuni episodi sogna di diventarlo. Inoltre e più importante: la supereroina perde tutta la sua forza e non può più liberarsi se un maschio cattivo la imprigiona collegando i suoi braccialetti di Afrodite a delle catene. A quel punto solo un maschio buono può salvarla. Tutti questi supereroi combattono minacce rivolte contro la “home” alla quale appartengono o per la quale lottano. E non sorprende che spesso essi si arruolino per difendere la home intesa come madrepatria. Succede a Superman in primis, e sopratutto a Capitan America, che nasce proprio come esperimento scientifico finanziato dall’esercito americano per creare un super soldato combattente contro le truppe naziste. Spesso a fumetti, radiodrammi, film, sono collegati gadget messi in commercio soprattutto per gli adolescenti, fatti per dare spessore di realtà a storie fantasiose. Negli anni precedenti all’entrata degli USA nella seconda guerra, per esempio, i ragazzi che si iscrivevano alla Don Winslow’s Squadron of Peace (associazione fittizia collegata al fumetto “Don Winslow of the Navy) riceveva un attestato con un giuramento di adesione in cui, con tono bambinesco, si invitava a rispettare la gerarchia. Inoltre nei fumetti - succede in “Terry and the Pirates” potevano essere spiegate le ragioni ideologiche dell’impegno militare statunitense in guerra. Nel giugno 1980 addirittura il presidente Carter ha consegnato alla vedove di John Wayne la Presidential Medal of Freedom, dicendo che egli era stato un esempio di vera determinazione americana e che incorporava i valori americani del coraggio, della giustizia. Che era stato un vero patriota. Insomma, un’onorificenza conferita non alla persona, ma all’attore. Al ruolo. Questa confusione tra finzione e realtà è molto persuasiva. (Le figure eroiche compaiono naturalmente anche nel cinema). 3. ...e vissero (quasi sempre) felici e contenti Nei fumetti, nei film, nei radiodrammi, nei romanzi, è un sospiro di sollievo ciò che alla fine scaccia via le ansie. Tutte queste narrazioni ansiogene si risolvono con esiti rassicurante e postivi. Ma il plot essenziale di questi settori della cultura mainstream non è un invenzione degli hollywoodiani, ma è una delle modalità narrative della tradizione letteraria dell’Occidente: Un giovane vuole una ragazza (o viceversa) ma il compimento del loro desiderio è impedito da un ostacolo, finché alla fine l’impedimento viene superato, gli antagonisti sbaragliati, l’equivoco risolto, le incomprensioni capite, e i due cuori possono vivere per sempre felici e contenti. Le commedie romantiche in senso proprio, i cartoni animati e i musical che raccontano storie di innamoramento, ed hanno un andamento tra i più standardizzati in tutta la cultura mainstream, per questo non è difficile identificarne tre tratti struttali fondamentali: • L’amore romantico è considerato come ingrediente necessario perché due cuori possano incontrarsi. Il testo della canzone che Fred canta mentre danza con Ginger in uno dei numeri del musical “Top Hat” spiega la magia dell’innamoramento e suggerisce anche quanto il sentimento d’amore possa aiutare nella vita quotidiana. • L’obiettivo dell’innamoramento è uno: la fondazione di un nucleo matrimoniale felice, che è ciò che costituisce l’etica del lieto dine di queste storie. Visto che la home come famiglia è il nucleo microscopico della home come patria. I film di questo periodo non finiscono con un momento effettivo di matrimonio, ma lo fanno intendere. Ad esempio “Biancaneve” finisce con il principe azzurro che la porta via sul suo cavallo bianco, e la canzone che li accompagna fa capire proprio che ci sarà un probabile futuro evento nuziale. • Al sesso non si allude; al massimo con qualche bacio appassionato ma breve. Ovviamente tutti i personaggi sono eterosessuali. Tutte le case cinematografiche erano infatti sottomesse ad un Codice di censura dal 1934. Le commedie romantiche, i cartoni animati e i musical quindi chiudono con il “vissero per sempre felici e contenti”. Ma cosa succede dopo? Le coppie sono davvero felici e contente? Questo interrogativo si trova al centro della Soap Opera radiofonica, che si concentra prevalentemente su vicende postmatrimoniali osservate dall’interno della home. Le soap hanno generalmente uno sviluppo drammatico: c’è spazio per adulteri, stress, scoperte di segreti, crisi, incomprensioni. Normalmente tutti i drammi che si aprono arrivano ad un compimento con un esito moralmente positivo soprattutto per il genere femminile. La tavola della moralità è infatti stabilita da personaggi femminili di collocazione e convinzioni molto tradizionali: madri di famiglia, donne in carriera ma attive per i figli, nonne sagge. L’etica delle narrazioni è data dal matrimonio stabile e felice come massimo valore positivo. Un caso particolare è quello di “Stella Dallas”, che esordisce sugli schermi cinematografici nell’agosto 1937. È un melodramma strappalacrime particolarmente mortificante. → La protagonista, Stella, di umile estrazione sociale, riesce a sposarsi con un manager di buona famiglia: Stephen Dallas. Il rapporto ben presto naufraga per l’eccessiva distanza culturale dei due. Joad, in cerca di una nuova vita, che si conclude con la disgregazione della famiglia. Ogni cosa finisce in tragedia. Nel film non si ha lo stesso finale. I Joad sono diminuiti di numero ma non ancora piegati. Vanno a lavoro nei campi di cotone e non hanno ancora perso la speranza per un futuro migliore. 3. Il romanzo “Il grande sonno” (1939) di Chandler diviene film nel 1946 con regia di Hawks. Nel libro una coppia di giovani sorelle ricchissime, sono al cento di intricati eventi criminali, sui quali indaga il detective privato Philip Marlowe. La più giovane delle due Carmen è mentalmente squilibrata e ha ucciso il marito di Vivian che l’aveva rifiutata. In questo si fa aiutare dal proprietario di un casinò che poi la ricatta. Il detective uscire tutto ma invece di assicurarle alla giustizia le salva e le lascia libere. Nel film i riferimenti sessuali scompaiono. Nel finale il detective scopre che il marito di Vivian non è stato ucciso da Carmen, ma dal suo ricattatore. Inoltre Marlowe in questa versione è attratto da Vivian e si allude ad una loro relazione oltre la diegesi. Tutti e tre gli esempi ci fanno capire l’obbligo del lieto fine nel cinema hollywoodiano. Il lieto fine è necessario perché ha una funzione consolatoria. Lo spettatore si identifica nel personaggio con un meccanismo simile a quello che spinge una persona al gioco d’azzardo: sa che le probabilità di successo sono pochissime ma è talmente disperato che ci prova lo stesso. Il messaggio di ottimismo dell’happy ending riscuote successo volutamente negli anni più bui che seguono la crisi del ’29. Queste storie operano anche una rimozione quasi integrale della sofferenza e della morte. Se muore qualcuno, si tratti di personaggi che lo meritano. Le figure principali rischiano ma non muoiono mai. Insomma, lo spettatore si deve divertire. E divertirsi in questo senso vuol dire “distogliere lo sguardo”, “non pensare”, “essere d’accordo”. Ci sono ovviamente anche altre tipologie di opere più complesse, diverse. Gli esempi sono infiniti, come Hemingway, Fitzgerald, Gertrude Stein, Barnes… Ma la quantità di persone che si fanno conquistare da queste creazioni culturali più elaborate è infinitamente minore da quella che cede alle seduzioni del sistema narrativo mainstream. In ogni momenti di crisi, le opere impegnative crollano, i teatri di qualità chiudono, i film audaci non circolano. Al contrario, i lavori con minori ambizioni intellettuali riscuoto un successo enorme. ________________________________________________________________________________ III. CONTRONARRAZIONI IN MUSICA: BLUES, HILLBILLY, FOLK 1. La “Anthology of American Folk Music” Nel 1952 la Folkways Record, una piccola casa discografica newyorkese, pubblica la Anthology of American Folk Music, una specie di monumento discografico folk americano in 6 LP, per un totale di 84 brani. La Anthology contiene brani della hillbilly music, del country, del country western, del folk, del blues afroamericano. Un’operazione come quella della Anthology sarebbe stata impensabile prima della Seconda Guerra mondiale, giacché in quel periodo i segmenti del mercato musicale sono rigorosamente segregati. La musica hillbilly è eseguita esclusivamente da bianchi e per un pubblico bianco, la musica blues e quella gospel da neri per un pubblico nero. Tra gli anni ‘20 e ‘40 non ci sono interscambi di mercato, ma ci sono molte influenze reciproche giacché molti nessi legano i diversi stili documentati nella Anthology, sia dal punto di vista musicale ch dal punto di vista poetico. Peraltro, la costellazione folk statunitense non esaurisce con la musica hillbilly, gospel o blues, ma comprende almeno un’altra importante declinazione, ovvero il folk di protesta sindacale, non compresa nella raccolta, ma che si sviluppa dall’inizio del XX secolo fino agli anni del New Deal e della Seconda Guerra Mondiale. 2. Da New Orleans a Chicago E’ nel quartiere a luci rosse di New Orleans (chiamato “Storyville”) realizzato nel 1897 che si inizia a sentire una musica nuova e strana, suonata inizialmente solo da musicisti neri, e proveniente dai bordelli della zona. Una volta chiuso il quartiere nel 1917, molti musicisti che vi suonavano, cercarono lavoro altrove: • nelle città dove esistono grosse comunità afroamericane; • seguono i flussi migratori che stanno portando molti afroamericani del Sud a Filadelfia, Detroit, New York, Chicago, dove spesso continuano a suonare nei quartieri e locali malfamati. Il 1917, è anche l’anno della pubblicazione della prima incisione discografica di un gruppo che nel proprio nome esibisce il termine che finirà per disegnare stabilmente quel particolare genere musicale: la Dixieland Jass Band, che con il disco a 78 giri Dixieland Jass Band One – Step e Livery Stable Blues riscossero un grande successo presso il pubblico afroamericano. Molta della musica jazz sin dall’inizio mostra caratteristiche strutturali che la distanziano radicalmente dalla tradizione della musica occidentale (musica classica, produzioni di Tin Pan Allley), come: • improvvisazione • assenza di notazioni musicali • scansioni • strumentazioni ritmiche • dialogo tra voci e strumenti • libera performattività corporea. La musica jazz si diffonde nel primo dopoguerra come musica strumentale da ballo, adatta a forme coreutiche nuove, come il charleston, che si impongono tra i giovani delle comunità afroamericane e tra i ragazzi e le ragazze delle comunità bianche. Jazz band si accompagnano talvolta anche a delle cantanti nere, di cui la più nota è Mamie Smith. Da allora, la moda delle cantanti nere si impose sia nei teatri delle città del Sud che sul mercato discografico, dove le loro musiche sono apprezzate solo da acquirenti neri. → BLUES: La musica jazz ha un rapporto diretto con un’altra forma musicale di origine afroamericana, cioè il blues. Non è facile dire cosa sia il blues nei primi anni dell’inizio del secolo, perché l’etichetta è applicata a musiche varie. Tuttavia, una forma molto meglio definita di blues si sviluppa proprio in questi anni, in un circuito parallelo nascosto rispetto a quello delle cantanti e delle jazz band. E’ un circuito itinerante, percorso da musicisti neri che si muovono di città in città, villaggio in villaggio, per suonare alle feste, alle fiere, nei juke joints (= pub frequentati da donne e uomini della comunità afroamericana). L’area in cui vivono questi artisti è racchiusa tra il Texas, Luisiana, Missisipi, Alabama e Georgia, e ne sono esempi Blind Lemon Jefferson e Huddie “Leadbelly” Ledbetter, il primo dei quali fissò il modello delle prima canzoni blues, caratterizzate da: • una sequenza variabile di strofe organizzate interamente allo stesso modo • primi due versi uguali (tranne alcune eccezioni) La ragione di questa struttura complessiva sta nella natura originariamente improvvisata del blues, poiché la ripetizione dei due versi dà al cantante il tempo per escogitare il verso che chiude il ragionamento. Questo modello, che nasce come espediente, si trasforma poi in una matrice estetica che persiste anche quando il blues diventa musica registrata in studio e non può durare più di 2 o 3 minuti. Il blues è una delle musiche più standardizzate che si incontrano nel panorama della pop culture, e la semplicità della sua forma contribuisce al suo successo presso gli ascoltatori afroamericani. Nonostante ciò, la crisi del ‘29 dà un durissimo colpo al mercato, e le famiglie, molte della quali molto povere, devono affrontare tempi drammatici, e le prime spese ad essere tagliate sono, ovviamente, quelle superflue. La produzione di dischi crolla, ed a stento questa musica continua a vivere grazie alle performance dal vivo: ma è a questo punto che, a sostenerla, intervengono degli altri personaggi che vengono dal mondo dei bianchi, cioè gli etnomusicologi. 3. Canti dalle prigioni Sul modello della ricerca folclorica sviluppatasi in Europa sin dal XVIII secolo, anche gli USA assistono, nel corso del 1800, e poi ancora ai primi del 1900 ad un costante interesse per la musica folk da parte di un numero crescente di appassionati e studiosi impegnati nella ricerca di ciò che dovrebbe esprimere l’anima del popolo statunitense. Di tutti i ricercatori in questo campo, John Lomax e suo figlio Alan hanno un rilievo del tutto particolare, non solo per la continuità del loro lavoro di ricerca, che copre tutto il XX secolo, ma anche per una particolare sensibilità che li induce ad interessarsi tanto delle espressioni poetiche e musicali delle comunità rurali bianche, quano a quelle delle comunità afroamericane, superando la “linea di colore” che anche in quell’ambito aveva spessp impedito di vedere connessioni, prestiti e influenze tra le diverso tradizioni musicali. Lomax, in Louisiana, incontra Huddie Ledbetter, un galeotto nero con un passato burrascoso e grandi capacità musicali, mentre ricercava buoni esempi della musica folk all’interno delle prigioni, dove l’isolamento dal mondo esterno può aver conservato tracce di un precedente passato musicale. Ledbetter ottiene la grazia dal governatore della Luoisiana ein seguito, riesce a registrare alcune delle sue performance. Questo sarà uno sconto per la sua pena e Lomax diventerà il suo direttore musicale. Successivamente aspetti materiali del loro rapporto (come i profitti dal tour divisi in modo squilibrato) ed anche psicologici, portano a una rottura. Alan, il figlio di Lomax, si estranea dai disguidi tra i due, perché negli anni si è reso conto delle condizioni in cui versano gli afroamericani del Sud e ha maturato un orientamento culturale politicamente radicale. 4. Storie blues Quando la msucia blues viene registrata, perde sicuramente quell’aurea di purezza e di autenticità che John Lomax cercava testardamente di preservare, ed anche la forza creativs dell’esecuzione improvvisata si attenua o si perde. Tuttavia non si perde un intero universo narrativo che esercita su molti ascoltatori un fascino irresistibile: la musica, la melanconica o rude, ma sempkice e prevedibile, ospita storie che a stento o per niente si sarebbero potute trovare tra le narrazioni mainstream. Studiosi di blues hanno sostenuto che per capire questo particolare orizzonte narrativo bisogna ricordare in quali circostanze ed in quali luoghi il blues venisse originariamente suonato, ovvero juke joints o nelle barrelhouses (locali mal frequentati). La gente va in quei luoghi violenti, per liberarsi del peso della settimana, per divertirsi, ballare, dimenticare, ma forse anche per sentire qualcuno che condivida con la musica le sue stesse ansie (esistenziali o affettive), paure, e poi il giorno dopo si pensa a purificarsi andando in chiesa, e da lunedì si ricomincia a lavorare in posti dove la discriminazione è riconosciuta per legge e dove il razzismo e le aggressioni razziali sono all’ordine del giorno. Temi: Sebbene nascano in un contesto di degrado sociale, violenza e sfruttamento, sono pochi i blues che affrontano in modo diretto e polemico le condizioni di vita delle popolazioni afroamericane, e se lo fanno, non lo affrontano mai in modo esplicito, perché evidentemente avevano paura dell’aggressione e del linciaggio, che sono radicati in profondità nella loro esperienza di vita e nella loro psiche. I blues non raccontano per esteso delle stories ma offrono dei lampi esistenziali, raccontati come un dialogo con se stessi. I testi non danno alcun particolare dettaglio relativo al contesto narrativo e lavorano per sottrazione riassumendo intense situazioni esistenziali in abbaglianti flash poetici. Non c’è un “noi” ma un “io” soggettivo che è permanentemente assediato da una qualche minaccia esterna (la povertà, l’alluvione e la siccità ma anche qualcosa di indefinito, come “il blue”, “il jinx”, Tematiche: • come nel blues, questa costellazione di storie sentimentali infelici diventa una sorta di sublimata metafora per parlare indirettamente di vite difficili. • In alcuni casi i temi vengono affrontati direttamente e, le disaster songs (su incidenti ferroviari, stradali, sul lavoro), sono generi di maggior successo della prima onda hillbilly; • inoltre, temi che hanno a che fare con lo sfruttamento sociale ed economico sono intensamente esplorati. In nessun caso, però, questa sensibilità sociale si trasforma in un’agguerrita coscienza di classe, e le tragedie cantate sono raccontate senza una reale partecipazione emotiva, perché sono fatti normali che possono accadere a tutti. L’underworld criminale della canzone hillbilly è un mondo esclusivamente maschile dove le donne reagiscono in modo fiacco, e questa etica presente nella musica hillbilly è oggetto di una contestazione femminile piuttosto continua (Ptsy Montana – I wanna be a cowboy’s sweetheart; I only want a buddy, not a sweetheart.) 7. Folk radicale Il jazz, il blues e la musica hillbilly non hanno una dichiarata valenza politica. Sono lamentele individuali, descrizioni di eventi più o meno particolari, più o meno dolorosi, che possono capitare in una qualche comunità popolare bianca o afroamericana degli USA contemporanei, o in qualche luogo indecifrato di una qualche parte del mondo. Esprimono emozioni, cercano di coinvolgere, lasciano agli ascoltatori il compito di attribuire un senso alle storie cantate. E in ogni caso le storie non traggono quasi mai delle confusioni morali, e certamente mai delle conclusioni politiche. Tuttavia, nel panorama folclorico statunitense di questi anni, cominciano ad emergere canzoni che, invece, vogliono prendere una chiara posizione politica. Diffusione: • Organizzazioni sindacali radicali promossi dai lavoratori tessili di Gastonia (Carolina del nord), nel 1929; • Minatori del Kentuky nel 1931. Durante gli scioperi, manifestazioni, riunioni, vengono cantate canzoni che parlano dei fatti che stanno avvenendo o delle ragioni per le quali si sta combattendo: canzoni create da donne e uomini che partecipano attivamente alle battaglie sindacali. Caratteristiche: • musiche semplici derivate dal patrimonio di canzoni appartenenti alla musica Hillbilly; • testi adattati alle esigenze delle lotte sindacali; Da allora fioriscono le iniziative che intendono lanciare musicisti afroamericani o bianchi, meglio se in grado di scrivere ed eseguire canzoni con un contenuto politico di manifesto. Sono esempi di cantanti hillbilly di orientamento politico: 1. Woody Guthrie: cantò durante una trasmissione radiofonica canzoni contro le “ricche classi dei sognatori inutili, gli uffici degli imbroglioni, gli accaparratori di terre, i ladri di petrolio, i latifondisti, i poliziotti corrotti” Sempre lei, incise “Dust Bowl Ballads”, una raccolta di 6 dischi su quella tragedia che egli aveva vissuto in prima persona; 2. Billie Holiday: cantò, tra le altre canzoni. “Strange fruit”, suscitando grande ammirazione. La canzone conteneva immagini di grande suggestione degli effetti di un linciaggio, al Cafè society di Manhattan, locale che accettava di far esibire sia bianchi che neri. 3. Almanac Singers: una band di giovani radicali che suonò musiche di impostazione militante ed incostante polemica con music business e , inizialmente, anche con la guerra, per poi successivamente convertirsi alla guerra patriottica dopo che un U-bot tedesco affodnò una nave della marina statunitense di scorta ad un convoglio di pattugliamento neutrale al largo delle coste irlandesi nel 1941. l’incoerenza della band e la loro improvvisa conversione filo bellica non passò inosservata agli occhi dei commentatori mainstream e il gruppo andò in crisi. 8. Canzoni militanti Se si esamina l’insieme dei brani politicamente impegnati, cantati dai musicisti appena elencati, ci troviamo di fronte a 3 tipi diversi di narrazione: 1. Narrazione straniata: una voce esterna narrante descrive, in tono neutro, eventi sui quali non esprime alcun giudizio morale. In questo registro narrativo, il vertice espressivo è raggiunto da “Strange Fruit”, che però si pone come un caso a parte, sia dal punto di vista musicale che poetico. Il suo testo, che ha una sua struggente nobiltà, non ha bisogno di aggiunte che spieghino il senso morale dello spettacolo che descrive. Billie Holiday, in assoluta coerenza con il testo, non ha bisogno di enfatizzare nulla. Ma la canzone non ha praticamente nulla in comune col resto della produzione militante, pur nascendo negli stessi ambienti, l’impianto complessivo, infatti, è decisamente diverso, nel senso che l’elegante minimalismo che è proprio sia del testo sia della musica sia dell’interpretazione vocale, è sideralmente distante dalla produzione di Guthrie o degli Almanac Singers. Inoltre, se “Strange Fruit” non ha bisogno di imporre all’ascoltatore una morale, il folk militante (molto più povero e semplice in confronto) non può trattenersi dal farlo. 2. Narrazione in soggettiva: quando si canta in soggettiva, il pubblico militante si aspetta che il musicista sia “uno di noi” o quanto meno uno che abbia fatto esperienza diretta con le sofferenze di cui parla. Autenticità, però, non significa necessariamente autobiografismo, ciò vale sia per Guthrie che per Ledbelly. 3. Narrazione esterna: la voce narrante esterna sa come sono andati i fatti, e per questo si colloca su un piano morale superiore a quello dei suoi ascoltatori, che devono essere istruiti, illuminati e guidati verso la verità. E’ la modalità narrativa tipica del sermone religioso, del testo politico e del comizio pubblico. Tuttavia, questa modalità narrativa costruisce uno scarto netto rispetto alla maggior parte della produzione poetica blues o hillbilly, nella quale la voce narrante è una voce della comunità che non si pone mai su un piano morale superiore ai suoi potenziali ascoltatori. Le storie raccontate in queste canzoni devono essere esse stesse passion plays, cioè dei resoconti dotati di una loro evidente verità etica, che però viene rimarcata in forma dialettica, in modo tale che la libertà interpretativa di chi ascolta viene ridotta solo all’alternativa secca tra accettare o rifiutare in toto (Guthrie – Two good men). In quel caso la struttura etica della narrazione mainstream si insinua nella prospettiva militante: ne è un esempio Union Main di Guthrie, in cui la protagonista è una specie di Wonder Woman sindacale che, a differenza della supereroina dei fumetti, riesce anche a costruirsi una famiglia felice. 9. Mappe dell’audience Nel febbraio del 1940 Guthrie scrive “This Love is your land”, un contro inno con testo originale (ma la musica no) che diventa bandiera della sinistra radicale. Il modello a cui attinge è interessante: si tratta della linea melodica di due canzoni originariamente incise dalla Carter Fmaily (“Little darling pal of mine” e “When the world’s on fire”). Decine e decine di sono le cover incrociate di canzoni che nascono come blue o hillbilly, e che sono cantate rispettivamente da cantanti bianchi o da cantati neri. Il reticolo degli scambi intertestuali, infatti, è fittissimo, e non può sorprendere, poiché i musicisti di questo universo musicale si conoscono, si frequentano, si scambiano informazioni, si ascoltano gli uni con gli altri alla radio o sui dischi,e mescolano matrici e modelli, superando la “linea del colore” che divide le due comunità. Ma, a dispetto del fitto reticolo intertestuale che lega questi diversi stili, fino afli anni della seconda guerra mondiale, essi continuano ad appartenere a circuiti comunicativi nettamente distinti, salvo rarissime eccezioni, i luoghi in cui si eseguono queste musiche, il pubblico dei concerti e gli acquirenti dei dischi sono razzialmente o politicamente separati, e tutte queste contro narrazioni restano, di fatto, isolate le une dalle altre, confermando a pieno la geografia razziale degli USA alla vigilia della seconda guerra mondiale. E proprio per questo, al momento, non sono in grado di minacciare l’egemonia delle musiche e delle narrazioni mainstream. Del resto, se la separatezza è la cifra essenziale di questi particolari stili musicali, quasi l’esatto contrario vale invece per la cultura di massa mainstream, le cui produzioni sono pensate per rimuovere o ignorare i confini di classe, di etnia, di orientamento politico, di età, offrendosi in questi anni di crisi come una panacea per tutti coloro che hanno bisogno di qualche tipo di sollievo. ________________________________________________________________________________ IV. UN MONDO GIOVANE E INQUIETO 1. Essere giovani negli States Il mondo giovanile dei teenager degli States tra gli anni 30 e la seconda guerra mondiale, è descritto dalle autorità scientifiche riconosciute (come il sociologo Talcott Parsons) come uno spazio sociale relativamente compatto al suo interno, dotato di rituali, pratiche e valori propri che lo separano dal mondo degli adulti. La cosa è più importante, ad esempio, per una teenager di quegli anni è di far parte di un gruppo di altre ragazze della stessa età e comportarsi, parlare e vestire esattamente come loro. Tuttavia, anche fuori dalla scuola i giovani tendono a frequentare altri giovani, e , inoltre non tutti i giovani sono nelle high schools, poiché molti abbandonano la scuola dopo l’ottava classe, poco dopo aver cominciato il curriculum superiore, il che comporta una più alta segmentazione nelle forme di aggregazione giovanile, dato che a fianco della sociabilità scolastica si delinea una vivace e variegata sociabilità di strada. Inoltre, anche l’ambiente delle high schools o quello del college è segnato da profonde separazioni e acute fratture relazionali. Sin dagli anni 70 80 del 1800, gran parte degli stati degli usa ha portato l’obbligo scolastico fino ai 14 anni con l’intento di togliere dalle strade adolescenti privi di controllo, che spesso vengono da famiglie di recente immigrazione e che sono considerati, a torto o a ragione, come dei potenziali delinquenti. Anche i genitori sono soddisfatti di questa iniziativa, perché convinti che con una migliore educazione i propri figli possano ottenere lavori più gratificanti e retribuzioni più alte. Dal 1870 al 1910, le high schools crescono da 500 a 10,000, i loro curricula educativi si rinnovano integralmente (curricula preparatori al college, formazione generale e professionalizzanti) e dopo le ore di lezioni i ragazzi e le ragazze possono stare a scuola anche nel tardo pomeriggio per partecipare a varie attività sportive o ricreative. La crescita globale delle frequenza delle high schools statunitensi rimane costante anche in periodi particolarmente sfavorevoli, ad esempio durante la Grande Depressioni, e tale scelta è attivamente incoraggiata dall’amministrazione di Roosvelt. Nonostante tutti gli sforzi, però, circa il 50% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa tra i 15 e 19 anni è ancora fuori dalla scuola, o perché dopo l’ottava classe interrompe il curriculum, o perché, pur essendosi iscritto in una high school, non completa il curriculum fino al diploma, ed ancora più selettivi sono i college, poiché nonostante un diploma universitario comportasse sbocchi lavorativi dalle ottime retribuzioni, i costi delle iscrizioni erano molto alti e le istruzioni statali di quel tempo non concedevano alcun tipo di sostegno allo studio. La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che abbandonano precocemente la scuola, cercando di procurarsi un qualche tipo di impiego, e le loro possibilità dipendono molto dalla collocazione sociale e dal radicamento locale della loro famiglia di provenienza, generalmente molto povere e, non di rado, gravemente disfunzionali. Nonostante ciò, anche i giovani provenienti da famiglie stabili fanno fatica a trovare offerte di lavoro negli anni immediatamente successivi alla crisi del 29. Una tale situazione comporta la formazione di gruppi amicali di strada, che stazionano all’angolo di realizzabile attraverso lo scatenamento che solo il giovane può affrontare (e anche il cantante che è giovane quanto il giovane) significa rimarcare l’allontanamento rispetto all’adulto. Per le ragazze, ancora di più: perdere il controllo, gridare, svenire, muoversi è un modo di manifestare in forma esplosiva l’insofferenza nei confronti delle regole che condizionano la sessualità femminile. Come se si liberassero da un sistema di norme, valori, segni falsi messi in atto per tramettere un’immagine di ragazze per bene, autocontrollate. Al concerto le ragazze possono per qualche ora vivere senza limiti, senza esser giudicate. Questi gruppi mostrano che gli universi giovanili stanno sperimentando autonomi percorsi di identità. Ciascuno dei gruppi riprende materiali già diffusi nella cultura di massa (abiti da mafiosi, balli alla moda, grida isteriche dei film horror) e li ricompone con un nuovo senso di sfida, distinzione. Inoltre le forme espressive create, proprio per la loro indeterminatezza, possono attrarre chiunque (il caso dei balli tra i bianchi). Questa è la forza, ma anche la fragilità di queste nuove strategie della distinzione. 4. Khaki – wackies Quando l’America entra in guerra, dopo l’attacco a peral arbor, molte donne devono abbandonare il ruolo di casalinge per sostituire gli uomini nelle fabbriche e sostenere il paese colpito dalla guerra. Le autorità fondano diversi locali da ballo e di svago per animare lo spirito dei giovani militari e selezionano alcune ragazze volontarie che possano ballare e divertirsi con loro. Ovviamente il fenomeno si espande e molte ragazze intrecciano relazioni sessuali con i soldati, venendo etichettate come “Khaki – wachies” (pazze per il grigio verde). Nei loro confronti nasce una lunga serie di pregiudizi sessisti, secondo cui le malattie sessualmente trasmissibili siano colpa della donna dissoluta e mai del soldato valoroso che ha invece diritto a una vita sessuale variegata e soddisfacente. Pertanto in questo periodo si promuovono due tipi di femminilità: 1. la donna che presenta una morale, anche bruttina, che lavora duramente per il paese in guerra; 2. la donna seducente e sottomessa, pronta a tornare a servire il marito come casalinga una volta terminati i conflitti. In questo periodo le donne sono considerate dei soggetti pericolosamente sensuali: questo porta alla costruzione di una figura femminile nuova → una donna rassicurante ma al tempo stesso volitiva, impegnata ad occupare momentaneamente il posto di lavoro lasciato dagli uomini in guerra, dedite alla famiglia e non particolarmente dotate di attività sessuale. 1943: Norman Rockwell dipinge per la copertina del Saturday Evening Post la figura di Rosie the Riveter (Rosie la rivettatrice), una delle più note immagini di questa nuova figura della donna. Caratteristiche: • operaia in salopette di jeans • non particolarmente seducente • espressione decisa di una vera democratica (che calpesta il Main Kampf) Tutta via il problema che ci si pone è il fatto che dar sostegno ad una donna determinata e forte, potrebbe portare poi ad una minaccia per gli uomini che temono che, a guerra finita, le donne non saranno più docili e tipicamente casalinghe. Grazie a vari sondaggi effettuati, viene fuori il desiderio di una donna più graziosa e seducente: questo porta alla creazione di grafiche pubblicitarie - in tempo di guerra – con delle figure femminili che presentano determinate caratteristiche: • giovani donne attraenti • struttura corporea slanciata Queste figure vengono utilizzate per promuovere le merci più variegate. E’ da questo particolare contesto storico che nascono le pin-up. 5. Pin – Up La figura della pin – up nasce negli anni della seconda guerra mondiale e sono il sogno di milioni di soldati (e civili) americani. Si diffondono le cartoline rappresentanti “la vera donna americana” destinate ai soldati in guerra contro le forze dell’Asse. Le immagini sono di due tipi: 1. Attrici in voga del periodo, le cui foto promozionali vengono prodotte dalle case cinematografiche, come quelle di Betty Grable (1941) per la 20th Century Fox, richiestissima tra i soldati e militari al fronte. 2. Disegni realizzati da Alberto Vargas per una rivista orientata a un pubblico maschile, accompagnati da una piccola poesia. Sono figure femminili con un corpo di proporzioni quasi impossibili (vita stretta, seno prosperoso e gambe lunghissime) ed esplicitamente sessualizzate. Lo scopo iniziale è quello di inviare questo tipo di immagini agli uomini in guerra (anche tramite giornali appositi), in modo da consolarli e motivarli a combattere per le loro belle e fedeli ragazze americane. La febbre delle pin – up colpisce moltissime ragazze, imponendosi come modello di vita femminile e standard di bellezza nelle pubblicità: la ragazza ingenua ma accattivante, seducente ma casta, intrigante ma fedele e genuina → questa è la donna che i soldati vogliono trovare a casa al rientro dalla guerra. Tuttavia non tutti accettano volentieri questo nuovo modello femminile: l’opinione pubblica statunitense, sopratutto di schieramento cattolico si professa assolutamente contro. Nonostante ciò, alla fine della guerra, i disegni di Vargas “prendono vita” attraverso le nuove star del cinema come Elizabeth Taylor e Marylin Monroe. Le donne, quindi, devono essere seducenti ma capaci di avere autocontrollo, trovare “il principe azzurro”, sposarsi,a vere dei figli e stare a casa. Intanto però, la retorica bellica esalta la difesa della “home” intesa come patria e nucleo familiare → questo porta a ridefinire la “home” come luogo esclusivamente femminile. Si parla di come i soldati tornino dalla guerra spinti dal desiderio di tornare dalla loro donna, sposarsi, avere dei figli e vivere una vita serena, respirando l’aria fresca dei sobborghi. Guerra = lotta per rendere il proprio paese sicuro e libero per le loro mogli e famiglie → su questa linea di pensiero nasce l’American Dream. ________________________________________________________________________________ V. PROVE DI NORMALIZZAZIONE 1. La casa dei nostri sogni Alla fine della guerra, il sogno di ogni famiglia americana di estrazione medio – alta è quello di trasferirsi dalla città ai sobborghi residenziali, in una villetta a schiera con giardinetto dove crescere i propri bambini. Questi sobborghi sono la patria del conformismo, dove le case sono tutte uguali, i redditi delle famiglie sono all’incirca i medesimi così come le scelte di consumo, abbigliamento, alimentazione, impiego del tempo libero e ideologie. Vige un profondo senso di razzismo: in questi quartieri periferici, le persone di colore non sono ammesse, nemmeno se aventi un reddito che glielo permetterebbe, in quanto le banche non gli concedono mutui, e vi fanno ingresso solo in qualità di manovali o governanti. I bianchi più poveri e la comunità afroamericana, vivono nei ghetti nelle città. Donne casalinghe, seguono assiduamente le soap che ritraggono lo stesso modello di donna casalinga nella sua villetta, creando un circolo vizioso di necessità reciproca tra il programma e l’audience. → nel film “La casa dei sogni” – commedia del 1948 - viene rappresentato proprio questo stile di vita. 2. Allarme rosso negli anni successivi alla guerra, la “home” viene vista come un misto incontenibile di ottimismo e cupa paranoia. La società si deve riorganizzare, le industrie belliche devono convertire la loro produzione in altro. Quindi lo stato decide di prestare dei soldi ai milioni di soldati che cercano di comprare casa, di aprire un’attività o di iniziare dei nuovi studi professionali. Nel 1947, il Piano Marshall, aprirà il mercato europeo alle aziende statunitensi: • cresce il PIL • Diminuisce la disoccupazione; • Aumentano stipendi e redditi; Si diffonde l’ottimismo tra le persone e i gusti del pubblico ne sono la prova: il numero di commedie, musical o drammi cinematografici a lieto fine sono ai primi posti nelle classifiche d’incasso • Cindarella, Peter Pan, Alice in Wonderland → di produzione Walt Disney. • Singing in the rain. Questo desiderio di happy ending però, è accompagnato dalle paure date dai rapporti internazionali, con le tensioni tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. La Guerra Fredda inizia nel 1949, quando i sovietici lanciano una bomba atomica per un test → nasce così la psicosi da bomba (le industrie vendono costruzioni antiatomiche, a scuola vengono fatte delle esercitazioni in caso di guerra atomica). Il contesto internazionale ha pesantissime ripercussioni interne, tanto che l’amministrazione democratica e repubblicana, mettono in atto una repressione dei comunisti, fino al 1954, che proibisce l’esistenza di un partito comunista. Con Joseph McCarthy (senatore repubblicano) inizia la “caccia alle streghe” con il quale si indica questa operazione. Però solo i diplomati con un curriculum buono vengono ammessi ai corsi quadriennali offerti dai senior colleges, mentre gli altri vengono dirottati verso i corsi biennali dei community colleges. Però, sia nelle high schools che nelle università, continuano ancora ad essere presenti divisioni relazionali per genere, etnia, religione, ricchezza ecc. Anzi, forse la selettività è ancora maggiore di quel che fosse prima della guerra, perché l’aumento della frequenza scolastica richiede la messa in atto di più efficaci strategie di distinzione. Il principale motivo di divisione è tra gruppi centrati sulla scuola e sulle attività scolastiche, e tra i gruppi che rifiutano l’inserimento, e che spesso si trovano in strada e si organizzano in gang. Nel dopoguerra c’è un cambiamento del concetto del dating system, poiché non c’è più la pratica della rapida e frequente rotazione del partner, ma c’è il going steady: la formazione di una coppia fissa (che nell’anteguerra era una pratica diffusa quasi solo tra ragazzi non delle high schools). Per i genitori di classe medio-alta non è una modalità positiva perché ammette un’intimità sessuale inaccettabile all’epoca. Ma per i giovani è diverso, è sicuramente una situazione meno ansiogena rispetto all’altra e inoltre è strettamente legata all’idea dell’amore romantico, quindi più generalmente all’idea del matrimonio e della home, influenzata dal clima culturale dell’epoca. Molte ragazze dichiarano che il loro ideale è un matrimonio con un buon numero di figli a cui dedicarsi, per questo spesso interrompono gli studi sia superiori che universitari a favore di un matrimonio precoce e di un ruolo da casalinga. È un quadro sconfortante per la figura della donna, pressato fortemente sia dalla cultura mainstream che da pubblicazioni “scientifiche” di successo all’epoca, duramente colpevolizzati nei confronti delle donne che lavorano e che, addirittura, sostengono che le donne che si sono arruolate nei servizi ausiliari durante la guerra, soffrono di deviazioni mentali e sessuali. Pensiamo al numero di donne sposate con figli che negli anni 50 vanno anche a lavoro (il numero di donne lavoratrici in quel periodo è in crescita a causa delle esigenze economiche che portavano le famiglie a cercare una seconda fonte di entrate). Si può immaginare con quale serenità queste donne vivano la loro scelta. 6. Gli uomini preferiscono le bionde I personaggi interpretati da Marilyn Monroe sono complessi. L’anno 1953 per lei è cruciale. Escono tre film in cui lei è protagonista o co-protagonista e a dicembre esce anche il primo numero di una nuova rivista, “Playboy”, che dedica all’attrice sia la copertina che la foto nella pagina centrale. Le narrazioni cinematografiche di Marilyn sdoppiano la sua immagine. → In “Niagara”, il personaggio di Rose Loomis è la tipica femme fatale hollywoodiana sexy e perversa. Rose ha un amante che lo convince ad uccidere il marito George, ma il piano va storto. Sarà George a uccidere l’amante e poi la moglie, suicidandosi infine facendosi cadere con un motoscafo dalle cascate del Niagara. Così i peccatori, come da formula, trovano la loro punizione. → In “How to marry a Millionaire” il personaggio è molto diverso. Pola Debevoise è bionda, sessualmente attraente ma intimamente casta e di buoni sentimenti, sebbene tentata dal mondo del successo e della ricchezza. Fa parte di un terzetto di cacciatrici di dote, composto dalle altre due sue amiche. Diverse ma tutte e tre molto simpatiche, condividono un materialismo senza nessuna critica. Il film ha comunque una sua morale, perché tutte e tre decidono di sposarsi con un uomo del quale si sono innamorate, rinunciando ai soldi. Una di loro ad esempio proprio al momento del sì con un riccone molto più vecchio di lei, cambia idea e preferisce dire addio ai soldi per sposarsi con il suo giovane amore. → In “Gli uomini preferiscono le bionde” Marilyn interpreta Lorelei: è grande amica di Dorothy (interpretata da Jane Russell) e sono entrambe ballerine e cantanti, entrambe alla ricerca di un uomo. Lorelei è una cacciatrice di dote che è riuscita a incastrare un giovane milionario un po’ tonto, Gus. L’altra è meno interessata ai soldi e più alla bellezza dell’uomo. Alla fine le ragazze si sposano con una doppia cerimonia. Dorothy con un ex detective privato e Lorelei con Gus. Il finale matrimoniale nobilita il materialismo di entrambe. L’ultimo film si mantiene in bilico tra l’essere favorevole alla morale matrimoniale e l’abbracciare un’ideologia materialistica spregiudicata. Entrambi aspetti accolti positivamente dall’etica mainstream. Queste sono caratteristiche anche di “A qualcuno piace caldo” del 1959 di Wilder. → Il film racconta di due musicisti jazz, Joe e Jerry che, per fuggire ai sicari della mafia che li vogliono far fuori perché hanno assistito a un’esecuzione, si travestono da donne e si fanno assumere in un’orchestra femminile, nella quale si esibisce Sugar Kane (Marilyn) cantante e suonatrice di ukulele. Il gioco del travestimento mette in ridicolo il maschilismo eroico dell’etica mainstream. Ma c’è di più. Joe, innamorato di Sugar, architetta un marchingegno al dine di sedurla, e per realizzarlo si traverse ulteriormente da milionario impotente bisognoso delle cure di Sugar per sbloccarsi. Intanto Jerry fa innamorare di sé un ricchissimo milionario. La conclusione è un paradossale lieto fine: Joe e Sugar si innamorano e lei supera il fatto che lui si sia finto ricco per sedurla (quindi l’oca bionda materialista che in realtà supera tutto e ha un cuore di Cenerentola in cerca del principe); e Joe\Josephine si chiarisce con il suo ricco innamorato in un dialogo simbolo del film. Il film di Wilder manifesta un intelligente disagio per i valori di massa comuni. Ma non li esamina a fonda e non prova nemmeno a decostruirli. La chiave comica, invece di produrre una presa di coscienza, serve da premessa per un’archiviazione immediatamente successiva. “Vabbè, ridiamoci sù”. Come in tutta la cultura mainstream, ridere serve a rimuovere divertendosi. Divertirsi significa volgere lo sguardo dall’altra parte. ________________________________________________________________________________ VI. POPULAR MUSIC 1. La popular music nel secondo dopoguerra Nel dicembre 1949, al numero 1 delle classifiche delle pop songs si piazza “Rudolph the Red-Nosed Reindeer”, una buffa canzoncina natalizia sulla storia della renna emarginata perché ha il naso rosso e brillante; ma che diventerà la più ammirata quando babbo natale la metterà in prima fila per illuminare la strada nebbiosa durante la notte di Natale. È una tipica storia americana dove l’emarginato alla fine fa successo. Ma da tempo ormai le hit natalizie spopolano: “Let it snow let it snow let it snow”, “Have yourself a merry little Christmas” e sopratutto “White Christmas” di Bing Crosby, che aveva incantato tutti in tempo di guerra, nel Natale 1942. Ancora nel 1948 la canzone ha un enorme successo. Il mercato discografico è dominato da 6 majors tutte con sede a New York, ma dopo la guerra molti imprenditori mettono sù piccole etichette discografiche specializzate in stili di nicchia. Nel 1949 a fianco delle 6 più grandi, ne esistono diverse centinaia più piccole. La forma del mercato discografico ha un suo corrispettivo nell’ambito delle trasmissioni radiofoniche. Da un lato i grandi network (NBC, CBS, ABC) quando arriva la TV, concentrano la loro attenzione e sforzi sul nuovo settore televisivo molto promettente. Dall’altro però, subiscono la concorrenza della tv e molti programmi radio (soap, sitcom, gialli) si trasferiscono in video, lasciando uno spazio nel palinsesto radiofonico che viene riempito da programmi musicali. Inoltre agli inizi degli anni Cinquanta il numero delle stazioni indipendenti con trasmissioni musicali di successo aumenta e il ruolo dei dj si fa significavo: dalle loro scelte può dipendere il successo o l’insuccesso di una nuova canzone, specialmente se decidono di mandarla in heavy rotation. 2. Pop songs Nonostante questi mutamenti, sul mercato discografico e in radio, le pop song vanno sempre alla grande. Una ricerca del 1947 mostra che il pubblico delle pop songs è socialmente variegato e che in generale, sopratutto i giovani e in particolare le ragazze apprezzano questo stile. Questo ha una sua rilevanza economica visto che i teenager sono le forze trainanti nella ripresa dei consumi postbellici. La canzone pop ha una configurazione “listener friendly” perché rassicura chi ascolta, ponendolo all’interno di un orizzonte di aspettative stabilite. La struttura è: introduzione, strofe, ritornello, interludio. Rassicuranti sono anche le pop star, per come si presentano sulla scena, dal vivo, in radio, in tv. Intanto non sono giovanissime: le cantanti hanno una media di 28 anni e i cantanti di 33 anni. Sono quasi tutti bianchi e si vestono allo stesso modo; gli uomini hanno giacca e cravatta e le donne vestiti a vita stretta con una gonna molto decorata. La gestualità in scena è poco ritmica come lo è la loro musica: normalmente stanno fermi e ondeggiano leggermente il corpo e le braccia. Si parla quasi sempre di canzoni d’amore, che descrivono il corteggiamento pieno di trasporto romantico, ma anche di esperienze infelici, amori finiti, amanti che devono separarsi ecc. L’infelicità è contemplata ma non è considerata devastante. In questo orizzonte solo in un caso si sfiora il dramma: è con “Goodnight Irene” scritto da Huddy Leadbelly, ma portato al successo nel 1950 dal gruppo degli Weavers. La canzone originale narra di un uomo sposato che incontra Irene, se ne innamora e va in giro minacciando di uccidersi gettandosi in un fiume a causa di quell’amore impossibile. La versione che va in classifica sarà appropriatamente modificata in modo che sia la donna a volersi suicidare. Nell’universo delle pop songs le cose non possono andare male. È un mondo in cui tutto è bene quel che finisce bene, in cui tutto è solo un passeggero turbamento amoroso. La violenza, la guerra, la povertà, il dolore non riescono a rovinare la generale felicità. In definitiva, fin dalla nascita di un’industria culturale di massa, è proprio per questo che qualcuno scrive e canta le canzoni pop: per divertire e allontanare turbamenti e preoccupazioni. Questo devono fare le canzoni alla moda. 3. Hard country La musica country si è imposta fin dagli anni 30 ad un pubblico specifico: ascoltatori di classe meglio-bassa delle aree centro-sud-orientali degli USA. All'interno del genere c’erano due filoni narrativi, uno più drammatico e l’altro più vicino al mondo delle dopo songs. Col secondo dopoguerra la divaricazione si approfondisce ulteriormente. Da un lato prosperano i cantanti che propongono canzoni con testi su temi classici del pop. Tra questi Gene Autry è uno di quelli che ha maggior successo. Non solo, come abbiamo visto, con la canzone di Rudolph del 1939, ma anche con altre natalizie, qualificandosi come uno specialista del genere. Il lato soft della musica country viene rovesciato da Hank Williams che propone un panorama più aspro, piroettato verso la descrizione di antieroi senza speranza, alcolizzati e incapaci di riscattarsi. Una parte di pulvino che apprezza la musica country viene da ambienti disagiati, per questo Williams viene apprezzato. Per molti il “disagio” creato dal cantante e espresso con una dolorosa intensità poetica, è credibile ed è vicino al loro, di disagio. Le canzoni di Williams divengono il modello fondamentale dello stile Hard Country, al quale si ispireranno altri autori successivi. Dal 1947 al 1952, quasi tutte le sue canzoni sono al primo posto delle classifiche country, e proprio nel 1952 raggiunge l’apice del successo. Il 1952 è anche, però, un anno infelice per il cantante: la moglie chiede il divorzio, lui incontra un’altra e la sposa, una terza donna lo accusa di averla messa incinta e lui accetta di pagare per il figlio (anche se poi verrà fuori che il padre non è lui). In tutto ciò Williams si alcolizza, e abusa di morfina e farmaci. Morirà a 29 anni. Come terribile ironia, l’ultimo suo singolo, è “Non uscirò vivo da questo mondo”. Dopo la morte il cantante godrà di un successo ancor maggiore. Vengono richieste foto su foto alla sua Il direttore della casa non ne resta impressionato, ma la segretaria registra il suo nome: Elvis Presley. Un anno dopo il direttore ha un bel pezzo da incidere ma non un cantante. La segretaria si ricorda del ragazzo, e lo chiama. Il direttore gli affianca due esperti di session: Scotty Moore e Bill Black. In un primo momento di registrazione, il cantante non sembra niente di speciale. Ma durante la pausa, Elvis si mette a cantare un blues saltando per la stanza e facendo anche un po’ lo scemo. I due musicisti si uniscono a lui, e il pezzo viene registrato. E’ “That’s all right”, e viene passato a un DJ molto celebre nella località. Il pezzo riscuote successo incredibile. L’aspetto interessante è che Presley, bianco, canta una musica che appartiene alla tradizione afroamericana e lo fa senza mutare nulla del blues. Poi, nel 1955, “Blackboard Jungle” a impone definitivamente la nuova musica. 3. Rock and roll e “ moral panic ” La nuova musica si afferma con il nome “rock and roll”. Nell’imporre questo nome, ha un ruolo importante Alan Freed, un DJ che intitola il suo programma “Rock ’n’ Roll Party”. Qui egli ospita le nuove musiche di Presley e altri che stanno facendo musica simile. Così estende il nome dal programma al nuovo stile. In realtà l’espressione esisteva già nella musica nera. E non solo il nome, anche la struttura musicale di diversi brani R&B si fonda su un accelerazione ritmica della forma musicale del blues. Però i musicisti r’n’r imprimono un ritmo ancora più sostenuto. Quindi Freed non inventa niente visto che nei suoi programma fa largo spazio anche a brani R&B, anche se di certo lancia il termine. Nel 1956 il termine viene consacrato. Il mercato discografico parla: più di 600 milioni di dischi venduti nel 1959, soprattutto da parte di teenager. Ma le critiche non mancano. Nella rivista “Time”, autorevoli psicologi, sostengono che i giovani fa del r’n’r seguono i loro idoli come i nazisti seguivano Hitler. Si parla di musica cannibalistica e tribale che fa appello alle insicurezze e alle inclinazioni ribelli dei giovani. Si parla di pazzia collettiva. Anche ai genitori la musica non piace. 4. Parabole r’n’r Il rock and roll Parla di noia per la scuola, di corse in macchina, di amore adolescenziale, capace di esplorare molti aspetti delle esperienze giovanili. Lo specialista delle canzoni d’amore è proprio Elvis. Mentre Chuck Berry è geniale nel contestualizzare: il testo di “School Days” ad esempio contrappone brillantemente il dovere della scuola alla libertà offerta dalla musica, il ballo e dall'interazione con la propria ragazza. Col r’n’r non si può fare a meno di muovere il corpo. D’altronde nelle loro esibizioni, i musicisti danno della corporeità una componente essenziale dello show. E non sono solo gli afroamericani a impiegare il corpo ma anche i bianchi. Quindi il r’n’r è una musica molto fisica che invita al ballo e al divertimento, mentre le storie che racconta esaltano identità centrifughe rispetto alla scuola, al lavoro, al dovere, tipiche delle gang giovanili socialmente marginali. Per queste ragioni, all’inizio il genere acquista una specifica connotazione sociale: non è il tipo di musica d'elite nelle high school ma è accolto con entusiasmo nei juke joints dai ragazzi socialmente più bassi. Per loro investire in musica rock significa rovesciare il senso di inferiorità che sentono nei confronti delle gerarchie scolastiche e sociali. E’ come se si sentissero uniti da qualcosa di molto forte, qualcosa che li rende meno sfigati e falliti. Alla musica si uniscono abbigliamenti e acconciature fatti apposta per capovolgere o negare gli stili prevalenti diffusi: giubbotti di pelle, t-shirt bianche attillate, colori brillanti e contrastanti, capelli dal ciuffo folto e imbrillantinato. Nonostante tutta questa aura ribelle, i musicisti r’n’r sono abbastanza cauti nel realizzare canzoni con contenuti sessualmente evidenti. Semmai la sessualità è incarnata non nei testi, ma nei cantanti. Il movimento di bacino di Elvis, nonostante non abbia significati particolari per Elvis stesso, viene interpretato dalle fan come qualcosa di selvaggio ed erotico. Così che Presley diventa una specie di pin-up maschio che faceva letteralmente gettare a terra le fan dall’entusiasmo. Una delle principali preoccupazioni di chi critica i genere riguarda proprio i significati sessuali impliciti che le fan di Elvis e degli altri, vedono nelle loro performance e in quello stile di musica. Ma le ragioni più profonde sono due: • il r’n’r è la prova del “contagio” che la cultura delle classi inferiori sta diffondendo tra la più sana gioventù d’America. • c’è il superamento della linea del colore, della confusione razziale. Nell’aprile del 1956, Nat Cole viene aggredito da un gruppo di razzisti bianchi durante una sua esibizione. Nei mesi seguenti Carter comincia una campagna proprio contro Cole perché si esibisce con cantanti bianche, alludendo così alla minaccia sessuale nera alla purezza delle donne bianche. Carter, prendendosela con Cole (cantante puramente pop) voleva denunciare il rock and roll come una “musica negra, bestiale, erosiva, volgare”. In realtà questa musica non contiene niente di davvero eversivo. Le sue matrici originarie sono il blues e il country: ma la prima musica è filtrata attraverso il R&B, di cui il rock and roll è una variante; e della seconda si scelgono le declinazioni più pop, certo non l’hard country. E dal punto di vista testuale, c’è solo una tematica indirizzata verso gruppi più marginali. Nient’altro. Ecco perché molto presto il r’n’r viene assorbito dalla cultura di massa mainstream. Operazione facilitata dal lancio di musicisti e programmi che ripuliscono il genere agli occhi degli adulti benpensanti e degli studenti alti delle high schools. I protagonisti di questa operazione sono Pat Boone e Dick Clark. - Pat Boone, bianco, belloccio, famiglia cristiana, frequenta l’università e a 19 anni viene lanciato con successo: il suo repertorio comprende canzoni pop sentimentali. Nel 1958, a 24 anni, pubblica un libro indirizzato agli adolescenti in cui espone la sua idea di vita riassumibile in “obbedite ai genitori e rispettate i valori del paese”. - Dick Clark si forma come dj radiofonico e giornalista tv, a 27 anni conduce un programma in cui si presentano i nuovi successi musicali, accompagnati da danze dove ballano ragazzi e ragazze giovani. Questi sviluppi non sono da considerare come un complotto per mettere a tacere il r’n’r ribelle. Il rock and roll è già consumista; gli interessi dei primi rocker non erano altro che fare carriera nella cultura di massa mainstream. Elvis è un esempio: Hollywood sforna molti film musicali, ed il cantante vi partecipa (Gangster cerca moglie, 1956). Film di impianto assolutamente didattico e valoriale, dove non c’è niente di ribelle. Ma l’integrazione non riguarda solo Elvis, è totale. Ciò testimonia la capacità attrattiva esercitata dalla cultura mainstream anche nei confronti di una subcultura che sembrava estremamente ribelle. 5. Tipi da spiaggia La stessa dinamica avviene nella comunità dei surfisti californiani. Nella California del sud ci sono circa 500 surfisti della classe media. Allo scoppio della seconda guerra, molti di loro devono partire, e lasciano solo un gruppo di giovani adolescenti che passano la giornata sulle spiagge. Tra di loro c’è Dale Velzy, un giovanissimo e bravissimo serfista, leader di un gruppo dai pantaloni da marinaio corti, camicie floreali, piedi scalzi. Questo nuovo nucleo comunitario si caratterizza per il voler avere una vita selvaggia a contatto con la natura. La spettacolarità dello sport, la bellezza dei luoghi, la rischiosa competizione con le onde, l’abbigliamento, conferiscono alla comunità postbellica dei surfisti notevoli elementi di attrattiva e ribellione. In realtà questo è un mood ribelle dal contenuto incerto: l’asse della filosofia esistenziale della comunità sta nel fuggire dalla scuola, dal lavoro, dal dovere, espandendo il tempo libero. Queste connotazioni bastano a suscitare sdegnati attacchi critici dei media locali, e anche la netta opposizione dei giovani dell’elite delle high schools, che si contrappongono a questo nuovo stile di vita, apprezzato invece dagli studenti marginali. Ma poi il mondo del surf trova la via della cultura di massa mainstream, attraverso la pubblicazione di riviste specializzate, cinema, musica pop. Al cinema esce nel 1959 “Gidget”, che narra l’ingresso di una ragazza di buona famiglia in una comunità di surfisti. Dove alla fine il leader abbandona la vita selvaggia e trova lavoro. Per la musica abbiamo i Beach Boys, giovanissimi californiani che esordiscono nel 1961 con canzoni tutte contenenti la parola “surf” o allusioni ad esso. A questo punto la moda del surf (abbigliamento e sport) non ci mette molto ad essere adottata anche dalle élite delle high schools. E le originarie peculiarità controcorrente della comunità vanno perdute. ________________________________________________________________________________ VIII. BEAT GENERATION 1. Hipsters testadangelo In “Urlo” (1956), Ginsberg crea uno degli incipit più incisivi della letteratura americana. E’ un urlo di rabbia, una celebrazione dell’autodistruzione che l’autore condivide con altri giovani intellettuali, tra alcol e droghe. E’ un po’ ciò che faceva la Lost Generation prima della Seconda Guerra (Fitzgerald, Hemingway, Stein...) ma Ginsberg non va in Europa, resta in America alla disperata ricerca di un’identità che gli consenta di fuggire alla normalizzazione della cultura mainstream. Egli aveva conosciuto e condiviso con altri giovani come lui, il suo “inferno”. Lo aveva fatto una decina di anni prima, quando entrò in contatto con un gruppo di studenti ed ex-studenti della Columbia, con i quali aveva scambiato sogni, progetti, ambizioni. Tra questi, Burroughs, Kerouac, Cassidy, Corso, Carr... 1. William Burroughs, nato nel 1914. Suo nonno ha inventato la prima macchina calcolatrice, quindi ha una certa stabilità economica. La famiglia però ha problemi di altro genere e William ne porta i segni, la sua personalità è complessa; è un po’ strano. Crescendo scoprirà di essere omosessuale. Si laurea in letteratura a Harvard. A 25 anni è fidanzato con un ragazzo che lo fa soffrire e questo lo porta ad automutilarsi un mignolo. Viene per questo ricoverato, ed una volta uscito va a New York, dove per amici in comune entra in contatto proprio con Ginsberg. 2. Allen Ginsberg, 1926. Entrambi i genitori sono ebraici, la madre soffre di schizofrenia ed il padre fa di tutto per crescere lui e suo fratello. Allen soffre molto per la sua omosessualità; dopo la maturità entra alla Columbia dove conosce il suo gruppo e anche Kerouac, di cui si innamora, non corrisposto. 3. Jack Kerouac, 1922. Genitori operai. A 4 anni perde il fratello più grande; il lutto segna lui e tutta la famiglia. Riesce comunque ad emergere come uno dei migliori giocatori di football della scuola, e questo gli fa ottenere una borsa di studia per la Columbia. Dopo un anno abbandona l’università e torna a casa, in un tira e molla che si interrompe solo quando conoscerà il gruppo di amici. 4. Neal Cassidy, 1926, ha genitori separati, da piccolissimo vive con il padre, un barbiere alcolizzato che lo fa crescere in condizioni di povertà e abbandono. Torna con la madre, la sorellina e il fratellastro, un sadico che lo tormenta. Neal deve crescere troppo in fretta, fin da 9 anni ha rapporti con femmine e maschi, lo avrà anche con Ginsberg. Nel 1945 sposa una quindicenne e si trasferiscono a New York con una macchina rubata e soldi rubati. Lì conosce Kerouac e Ginsberg, suoi amici inseparabili. Kerouac lo farà personaggio del suo “On the Road” nelle vesti di Dean Moriarty. → Nel 1959 esce “Beat Generation” in cui il protagonista è un beat-stupratore, alla fine catturato da un poliziotto la cui moglie è una sua vittima. → Nel 1960 esce “The subterraneans”, tratto dal romanzo di Kerouac, e la sceneggiatura ne cambia aspetti essenziali. Mardou non è nera ma bianca; la storia tormentata si conclude quando la donna annuncia a Leo la sua gravidanza, e lui si rende conto del suo immenso amore per lei. I due si fidanzano e decidono di abbandonare la comunità beat per vivere una vita “normale”. → Nel 1959 “Life” pubblica un articolo, costruito in modo perfidamente efficace, in contrappone la vita square a Hutchinson e la vita beat a Venice Beach. Il confronto impressiona con foto e descrizioni molto attente al lessico: “La casa ordinata e felice del quartiere Hutchinson”, “La traballante e caotica casa in affitto di Venice Beach”, “I giovani possono andare in piscina, al bowling, a pattinare, al cinema il venerdì sera a Hutchinson”, “A Venice se ne vanno in sale bingo dismesse con i loro bongo a declamare poesie e ascoltare jazz, finché i vicini non chiamano la polizia”. Il tentativo di normalizzare, e soprattutto criminalizzare l’immaginario beat riesce solo a metà. Soprattutto non riesce l’integrazione, come invece era successo per il rock e per il surf, del beat nella cultura mainstream; perché in questo caso, le caratteristiche del genere sono troppo in controtendenza e troppo estreme. 5. Calamite beat Giovani ragazzi e ragazze trovane nel beat una via da seguire. Coloro che sentono di aver trovato in Ginsberg o Kerouac (che diventa una specie di star, spesso associato a Brando o Dean) dei modelli spirituali, entrano a far parte delle comunità beat che si formano a North Beach - San Francisco, Venice Beach - Los Angeles e Greenwich Village New York; tre aree che ospitano artisti e intellettuali, e che diventano le capitali di questa cultura. Tra il 1957 e il 1960 i numeri crescono a dismisura, arricchiti da un numero molto alto di teenager (13-15 anni) che hanno abbandonato la scuola e la famiglia. Non è una comunità che vuole dare nell’occhio o voglia imporre la sua presenza. I beat dei villaggi evitano, generalmente, di lavorare, criticando così la società a cui appartengono. Sono degli scioperanti permanenti, vivono con poco: e dichiarano che sia molto meglio così piuttosto che accettare i ritmi della società. E’ una comunità senza capo, Ginsberg è apprezzato, ma non è il loro leader. L’uso delle droghe e la libera sessualità sono tratti identitari. La cultura afroamericana è eletta a modello etico ed estetico. Le comunità non sono molte, ma la moda beat si diffonde rapidamente, contagiando il modo di vestirsi, di esprimersi, e riaffermando il gusto per il jazz e per il folk. Più in generale si tratta di un interesse per i giovani di ampliare il loro orizzonte culturale, in tutti i campi, dalla letteratura, al teatro, alla musica, alle esperienze. ________________________________________________________________________________ IX. I WANT TO HOLD YOUR HAND 1. Gioventù ribelle Qualcosa di importante sta accadendo: la scena artistica del Village è più viva che mai e si sta espandendo. Fioriscono locali, teatri, gallerie d’arte che ospitano alcune tra le più belle sperimentazioni artistiche in atto. La vera novità del momento è il folk revival: nel giro di pochi anni, a partire dal 1958, vengono inaugurati numerosi locali dove si può passare la serata ascoltando musicisti con la chitarra acustica, armonica a bocca e percussione, che eseguono canzoni tratte dal repertorio folk, hard country e anche blues. L’espandersi del folk si lega alla rinascita di movimenti politici di protesta, il più importante dei quali è il Movimento per i diritti civili. La prima manifestazione di questo ha luogo tra dicembre 1955 e dicembre 1956 a Montgomery, Alabama, dove la comunità afroamericana locale organizza un boicottaggio ai mezzi pubblici dopo che Rosa Parks è stata arrestata per essersi seduta in autobus in un posto riservato ai bianchi. Il movimento contro la segregazione razziale, guidato da Martin Luther King, è basato su principi gandhiani e nonviolenti, e si appoggia sulle organizzazioni delle chiese protestanti nere del Sud degli States, oltre che su organizzazioni come la NAACP (Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore) o il CORE. La protesta non violenta si sviluppa in episodi diversi. Uno dei più conosciuti è il sit-in di quattro studenti universitari neri, che nel febbraio 1960 si siedono ad un ristorante per bianchi chiedendo di essere serviti. I camerieri si rifiutano e loro rimangono lì fino a sera. Tornano anche il giorno dopo, e ai ragazzi si uniranno altri, alternandosi per portare avanti l'iniziativa. Nell’aprile 1960 viene fondato il SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee). Il programma dell’associazione ha come obiettivo la costruzione di una comunità integrata e interrazziale. Nonostante attacchi verbali, giudiziari e anche fisici dei razzisti bianchi, il Movimento ottiene successo. Il maggiore è celebrato il 28 agosto 1963 a Washington, quando 250.000 persone sfilano per la città, fino al Lincoln Memorial, dove King tiene un emozionante ed esemplare discorso: “I have a dream”. Tra il 1964 e il 1965, su iniziativa del presidente Johnson, il Congresso approva una serie di norme fondamentali che cancellano ogni base legale per la discriminazione razziale. Il successo è anche per l’attenzione che i media nazionali, per la prima volta, riservano alle iniziative del movimento, contribuendone anche alla popolarità. Nell’università di Ann Arbor, Michigan, Al Haber e Tom Hayden, prendono l’iniziativa di far rinascere una preesistente associazione giovanile socialista anticomunista (LID): nasce così Students for a Democratic Society (SDS). E’ una nuova esperienza della Left: l’organizzazione comincia a diffondersi in altre università del paese e i militanti si uniscono per definire meglio il programma. Nel giugno 1962 c’è un importante incontro a cui partecipano anche rappresentanti della LID, CORE, SNCC, NACCP e altre organizzazioni giovanili. In questa circostanza viene approvato il Manifesto di Port Huron. Il Manifesto era fortemente influenzato dal movimento per i diritti civili. Criticava il sistema, la discriminazione razziale, la diseguaglianza economica, e si poneva su posizioni pacifiste. Era attento anche ai temi del disagio esistenziale e generazionale. Il movimento cresce sempre di più e attira studenti anche fino ad allora non interessati alla politica. La diffusione è spinta anche dalla decisione di Johnson, nel 1964, di inviare truppe americane in Vietnam, e dalla conseguente diffusione di un grande movimento pacifista, di cui SDS è un importante rappresentante. 2. We shall overcome In queste iniziative, la musica svolge un ruolo essenziale. Nei primi anni del Movimento per i diritti civili è importante la musica religiosa di origine afroamericana, gli spiritual, gospel: sia perché parte è integrante delle chiese protestanti afroamericane, sia perché è un genere funzionale alle esigenze militanti. I testi infatti descrivono la speranza di raggiungere un mondo migliore, e la struttura a “call e response” fa sentire uniti e dà coraggio. Ma soprattutto la “Highlander Folk School” dà un contributo essenziale; fondata nel 1932 nel Tennessee da due giovani educatori e teologi, la scuola collabora con sindacati e organizzazioni come la NAACP e anche con il Movimento stesso. Nelle attività didattiche della scuola, la musica ha un ruolo rilevante, anche grazie a studiosi e ricercatori del genere folk come Guy Carawan. Questo trasmette al Movimento una parte della tradizione della canzone folk di protesta, fiorito tra gli anni ‘30 e la Seconda Guerra. In particolare, il Movimento si impossessa di una canzone che finisce per diventare il suo inno: We Shall Overcome. La canzone viene scritta nel 1900 da Charles Tindley; per il Movimento ne viene arrangiato il titolo, il ritmo e qualche verso. E verrà eseguita anche alla grande marcia di Washington, cui partecipano anche noti musicisti come Mahalia Jackson, Josh White, Joan Baez e Bob Dylan. 3. Il primo Bob Dylan Bob arriva a 20 anni a New York con l’obiettivo di inserirsi nel circuito della musica folk. Da ragazzino, quando frequenta il liceo, si appassiona alle musiche di Johnnie Ray e Hank Williams, ma anche al blues. Ama il cinema e ama Elvis, il suo idolo, anche se il r’n’r non lo rappresenta in modo realistico. Nel 1959 va a Minneapolis per frequentare l’università e scopre il folk, la letteratura beat e in particolare “Sulla strada”. Tutto questo lo colpisce profondamente e si avvicina musicalmente al mondo del folk. Legge anche “Questa terra è la mia terra”, una specie di autobiografia di Woody Guthrie: inizia l’infatuazione per lui, che all’epoca è ricoverato in un ospedale del New Jersey. Nel gennaio 1961 va a visitarlo. Intanto, Bob comincia a costruirsi una fama locale, esibendosi spesso col suo nuovo repertorio folk in diversi locali del Greenwich Village. Qualcuno si sta accorgendo di lui: sul New York Times del settembre del 1961, una sua esibizione viene recensita con toni entusiastici. Un mese più tardi, firma un contratto con la CBS. Il suo primo album è del 1962 e contiene 11 cover e solo 2 originali, uno dei quali è dedicato a Guthrie. Ma il disco si perde nella miriade di lavori folk promossi in quel periodo e non riscuote molto successo. Il secondo (1963) e terzo album “The times they are a- changin” (1964) contengono tutte, o quasi, canzoni originali. Musicalmente molto semplici, suonate con la chitarra acustica e l’armonica, timbro vocale molto particolare. Tra tutte le musiche, spicca “Blowin'in the wind”. Le sue canzoni mostrano sensibilità per i marginali, neri, poveri, che gli deriva dalle matrici beat, folk e blues. Mostrano un modo nuovo di guardare la società, e toccano corde profonde tra i giovani della SDS o SNCC. L’autore si impone nel repertorio del Movimento per i diritti civili o del nascente movimento studentesco e sembra così candidarsi al ruolo di portavoce dei movimenti di protesta, e in effetti vi partecipa anche. Nonostante, però, la politicità dei suoi testi, Dylan non vuole farsi portavoce di nessuno, né le sue parole sono di propaganda. La sua posizione è polemica ma aperta, non ha risposte ai problemi del suo tempo: la risposta, come canta nella sua canzone, soffia nel vento. Ma di domande ne ha tante, di cose da dire ne ha tante. La sua è una riconquista di una piena autonomia di pensiero che può condurre alla libertà. 4. Dall’altra parte dell’Atlantico Fino ad ora, l’Europa ha subito l'impatto delle varie forme che l’intrattenimento culturale ha assunto negli USA. Sia per la loro forza seduttiva, sia per il rapporto di dipendenza economica e politica derivante dalla fine delle due guerre. Ovviamente ci sono autori validi, ci sono i registi del neorealismo italiano, della nouvelle vague francese, ma questa costellazione di autori, anche se innovativa, colpisce solo un’area piccola e d’avanguardia del pubblico statunitense. Così lo scambio culturale resta ineguale: prodotti di massa economicamente e socialmente di grande impatto dagli USA all’Europa; prodotti di nicchia e colti dall’Europa agli USA. Negli anni ‘60, in Gran Bretagna, le produzioni statunitensi sono apprezzate in blocco come il moderno che finalmente irrompe in una società molto tradizionale, anche se non mancano reazioni negative di stampa conservatrice. Il pubblico britannico si apre al jazz, al r’n’r, al R&B ed anche a un genere di nicchia come il blues. All’operazione contribuisce anche Lomax, che è emigrato in Gran Bretagna per sfuggire alla “caccia alle streghe” in USA, e che dal 1951 ha curato due trasmissioni su folk e blues afroamericano per la BBC. In particolare Lomax nota che a eseguire il doloroso repertorio blues, tra cui anche le prisons songs, sono: “dei giovani bianchi che hanno sofferto poco rispetto alle comunità afroamericane del sud degli States. Infatti le loro nuove versioni vanno ai primi posti delle classifiche. Mostrano le potenzialità comunicative e commerciali della nuova strumentazione elettrica, e aprono universi narrativi lontani dalle rassicuranti storie dei Beatles. “The house of the rising Sun” per esempio parla di un ragazzo che segue le orme del padre e tenta la carriera di giocatore d’azzardo per finire male e meritarsi il carcere. I Rolling Stones cominciano a formarsi nel 1961, quando Mick Jagger e Keith Richards si incontrano nei sobborghi di Londra, avevano frequentato le elementari insieme ma poi avevano preso strade diverse. A loro si unisce Brian Jones, che come gli altri ha la passione del blues. Proprio dal blues nasce il nome della band, adattando il titolo di un brano di Muddy Waters (Rollin’ Stone del 1950). Due anni dopo si uniranno al gruppo anche Bill Wyman e Charlie Watts. Cominciano ad esibirsi in vari locali londinesi e riescono ad avere un contratto. Nell’aprile del 1964 il loro disco va in vetta alle classifiche. A giugno i Rolling Stones sono in America (come fecero i Beatles) per lanciare il tour; ma non riscuotono grande successo, nonostante in patria siano già degli idoli indiscussi. La svolta arriva con “Satisfaction” e sopratutto con il nuovo album “December’s Children”. Gli Stones sono strafottenti, arroganti, trasandati, cantano versi aggressivi e forti, e per l’epoca sono decisamente insoliti nell’universo pop. Ma le narrazioni scabrose e l’atmosfera poetica rude, è propria dell’esperienza blues e R&B che loro hanno abbracciato. E grazie al loro successo, il blues (l’inquietudine profonda, l’amore andato male, la forza del desiderio sessuale ecc) che sempre è rimasto in territori marginali, viene lanciato sul mercato di massa. Gli elementi di novità degli Stones sono due: • l’uso del riff (breve cellula melodica che introduce un brano e ricorre poi nel corso dell’esposizione come leitmotiv) • il saper interpretare in modo nuovo il disagio dei giovani. Per queste due caratteristiche, citiamo “I Can’t Get No Satisfaction”) del 1965, con il riff iniziale forse più famoso della storia della popular music: così rabbioso, ripetuto, insistito da Richards; e con il testo che fa riferimento al consumismo contemporaneo. “Paint it Black” del 1966 affronta il tema della morte (tema tabù nella cultura di massa e invece molto trattato nel blues) o meglio, dell’elaborazione del lutto di fronte alla morte della ragazza amata. In questo brano, la struttura emotiva è assolutamente blues. 2. Dylan goes electric Dylan matura il suo cambiamento negli anni, sia entrando in contatto con i Beatles (agosto 1964) sia ascoltando gli Animals e i Rolling Stones. La sua chiave di volta è nell’uso della strumentazione elettrica e nel cambio di ritmo. In un concerto del luglio 1965, Bob sale sul palco con una band elettrica. Il mixer sballa. La gente comincia a fischiare sia per la pessima qualità del suono sia perché quello del cantante sembrava un tradimento, una resa al music business. Dopo tre brani il gruppo esce di scena e Dylan riprende la sua chitarra acustica e l’armonica. E’ l’inizio del mutamento stilistico. → I tre album elettrici (Bringing it all back home; Highway 61 Revisited; Blonde on blonde) segnano una svolta fondamentale per l’intera storia della popular music. La trasformazione non è solo musicale, ma anche nello stile poetico. Dylan gira in direzione del r’n’r, del R&B e del blues elettrico, adottando una poetica derivata dall’esperienza beat. Dimostra che la musica popolare non è solo fatta di testi semplici e musica semplici. “Outlaw Blues”, per esempio, ci fa capire la sua svolta blues: infatti la struttura della strofa segue la struttura tipica della poetica blues (tre versi per ogni strofa divisi in due emistichi; i primi due versi si ripetono, il terzo porta a una soluzione la premessa introdotta dai due precedenti). Anche nel testo stesso ci sono riferimenti velati al suo allontanamento dal folk. “Like a Rolling stone”, parla di una ragazza di buona famiglia che comincia ad abusare di alcol e a frequentare persone sbagliate. Il peggiore di loro le ha rubato tutto quello che aveva e adesso vive come una homeless. Quindi abbiamo anche la prima figura di “antieroe” nel repertorio di Dylan. Una tematica legata all’approccio Beat, che fa spazio, con empatia, ai sofferenti e ai marginali. “Visions of Johanna” mostra la sperimentazione della scrittura. Dylan in modo cubista alterna l’identità con pronomi di prima, seconda e terza persona. Il narratore è uno ma si dissocia da sé stesso, entrando nelle “visions” di Johanna che prendono possesso della sua mente. È un testo molto onirico e surreale. Dylan in questi testi intende ancora sfidare chi ascolta, come aveva già fatto in precedenza. Ma se prima, nelle sue canzoni “di protesta”, lo faceva con un linguaggio semplice e chiaro, adesso lo fa in modo più ricco ed evocativo. Ma ci dice ancora che lui non ha la verità in tasca. Ha intuizioni, suggestioni, che ognuno può elaborare. Nessuno ha una chiave schematica per decifrare niente. Ci dice ancora che la realtà è dura, spesso cattiva. 3. La metamorfosi dei Beatles L’incontro dei Beatles con Dylan serve a qualcosa: l’autore li riprovera di essersi adagiati in brani accattivanti ma testualmente banali. Nel 1966 il gruppo decide di non esibirsi più dal vivo e dedicarsi alla sua musica: una scelta coraggiosa visti gli ingaggi. Con questa nuova sensibilità, gli album successivi dei Beatles si rivoluzionano. In parte forse, la loro nuova creatività è incoraggiata dall’uso di qualche droga, ma ciò che cambia è sopratutto la consapevolezza di sapere e poter affrontare temi estranei alla popular music: solitudine, sofferenza, morte. • “Yesterday” sembra essere la storia di un amore che sta finendo, ma il vero soggetto è l’atteggiamento di un giovane che sta crescendo e l’ansia della crescita. La canzone è molto elegante e sembra essere un qualcosa a sé nel campo della popular music. • “Eleanor Rigby” parla di gente sola: Eleanor è una donna che passa le giornate raccogliendo riso nella chiesa dove si è appena celebrato un matrimonio, e ne sogna anche uno per lei che non arriverà mai. Sta in casa, allora, sola a fare i conti con sé stessa. Poi c’è il parroco McKenzie, che scrive sermoni che nessuno ascolta, non è in contatto con nessuno e non ha più passioni, nemmeno per il suo ruolo. Alla fine i due si incontrano, perché Eleanor muore e al funerale non verrà nessuno, solo il parroco. • “She’s leaving home” ha il tema del conflitto generazionale. Una ragazzina fugge da casa sua per costruire una nuova vita con il suo uomo. La vicenda è raccontata sia dal punto di vista della giovane ribelle, sia di quello dei genitori preoccupati. Non c’è rabbia nel suo gesto, anzi c’è anche commozione. Poi, come in un film, la prospettiva cambia: il padre dorme ancora e la madre scopre il biglietto lasciato dalla figlia. C’è sconcerto, rammarico, dolore per non essere riusciti a stringere un vero rapporto con lei, nonostante non le abbiano fatto mancare mai nulla. • “A day in the life” è un giorno della vita in cui accadono le cose più svariate, dalle più tragiche alle più normali. Un uomo muore in un incidente, un altro tizio va al cinema, un altro va a lavoro anche se non ne ha voglia, e su un quotidiano si legge quante buche ci siano in una strada di Blackburn. Quest’ultima notizia funziona da commento ironico su come la vita possa essere senza senso e inaspettata. Man mano che sperimentano nuovi testi, i Beatles rendono anche più complessa la struttura delle canzoni. Qui infatti, l’architettura è creata da due nuclei compositivi distinti. • Oppure in “Tomorrow never knows” (1966), nonostante ci sia una struttura molto semplice, contiene inserimenti molto particolari in loop: come la risata distorta di McCartney simile al canto di un gabbiano. 4. Sulla West Coast Da North Beach (San Francisco) e Venice Beach (Los Angeles), i giovani restano colpiti dalle soluzioni stilistiche dei colleghi britannici, e cominciano a cambiare suonando blues con strumenti elettrici e nuove combinazioni. Gruppi come i Byrds, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, avrebbero però rischiato di cadere nel vuoto se non avessero trovato un ambiente locale pronto ad accoglierli. Il nuovo pubblico locale infatti si sta trasformando. Oltre ai reduci dell’esperienza beat, ci sono nuove leve di giovani di varia estrazione sociale, prevalentemente di classe media, che cercano una via di fuga dalla high school, da college, dalla rat race. Il nome con il quale i membri di questa comunità vengono identificati è hippie, che è una deformazione di “hip”, “hipster”. Anche qui, il vestiario è centrale, vario e stravagante. Giacche da cowboy con lunghe franche, scarpa alte, occhialini tondi, fasce da indiani. Inoltre i giovani hippie hanno spesso capelli lunghi e un’apertura assoluta ad ogni forma di sessualità. Gli ideali sono antibellici (soprattutto ora che la guerra in Vietnam è in corso), agnostici per quanto riguarda la politica, e orientali per quanto riguarda la religione (buddismo e induismo sono i punti di riferimento). Fondamentale è l’uso di sostanze allucinogene, distinguendo in modo chiaro tra “droghe buone” e “droghe cattive”. L’uso delle sostanze è di gruppo, per rafforzare i vincoli comunitari, anche se la diffusione dell’eroina fa spesso breccia in personalità più fragili portandoli all’autodistruzione. Spesso si organizzano raduni video-musicali a base di droghe. Uno di questi, tenutosi in un piccolo gruppo hippie di San Francisco, è una festa “Tributo a Dr. Strange” personaggio dei fumetti Marvel. Vi suonano anche i Jefferson Airplane, e si radunano più 1000 persone. Così si apre la strada ad altre manifestazioni del genere. Tra la fine del 1965 e il 1966, sulla scena di San Francisco emergono due manager che organizzano decine di eventi → Bill Graham, di approccio prettamente imprenditoriale e Chet Helms, più interno alla comunità ed etica hippie. Insieme preparano sia concerti nei locali (principalmente al Fillmore e all’Avalon nel quartiere nero di San Francisco) ma anche all’erto, tra cui significativo è lo Human be-in, nel gennaio 1967. Qui si uniscono poeti beat come Ginsberg e band come i Jefferson, i Grateful Dead e molti altri, attirando una folla di circa 20.000 persone. Gli eventi hippie-rock si moltiplicano, fino ad arrivare a Woodstock tra il 15-18 agosto 1969. La stampa trasforma il fenomeno hippie in un argomento di rilevanza nazionale. E il modello comportamentale ed etico della comunità si diffonde negli USA come in Europa. 5. Straniamento rituale Se consideriamo la pluralità delle subculture giovanili dal 1960 al 1967, ci si chiede come abbia potuto formarsi un’omogenea controcultura di massa fondata sul rock. Le ragioni principali sono tre: 1. le nuove musiche condividono tutti alcune tematiche comuni. 2. i vari generi del rock hanno dei ricorrenti stili-matrice, dalla cui ibridazione la musica rock prende forma. 3. si creano spazi rituali all’interno dei quali fruire tutti i diversi generi del campo culturale rock. Cominciamo dal punto 3 → Il principale luogo che dà omogeneità alla cultura rock è il concerto, in particolare il grande festival a cui partecipano musicisti di diverso tipo e stile. Il modello viene sperimentato, come visto, inizialmente nel contesto delle comunità hippie in California. Gli spettatori hanno due diverse modalità di comportamento. Da un lato c’è chi partecipa attivamente all’evento gridando, muovendosi con notevole fisicità: spesso l’assunzione di droghe e alcol stimola XI. SUONI E PAROLE ROCK 1. Nuovi suoni Si accende un forte anticommercialismo. I musicisti rock vogliono fare qualcosa di molto diverso, sperimentare sempre forme nuove che certifichino la loro superiorità nei confronti dei musicisti che creano, suonano, solo dal desiderio di fare soldi. L’impiego del riff e dell’improvvisazione chitarristica sono fondamentali. In questo contesto, nel 1966, emerge Frank Zappa. → La polemica contro il consumismo e il conformismo ricorre costantemente nei suoi lavori. Ma l’assunto fondamentale che lo guida è la polemica contro la commercializzazione della musica, esposta per esempio in “Flower Punk” (1968). Qui Zappa interpreta il ruolo di un musicista ipocrita, che dice con tono retorico quanto sia bello stare in una rock band e fare musica che fa stare bene i ragazzi; per poi confessare senza ritegno che quel che gli interessa davvero sono i soldi e le ragazze. In molti brani la musica è strutturata per collage musicali che mettono insieme gli stili più disparati; normalmente Zappa procede per giustapposizione o per sovrapposizione: per esempio si inizia con un brano in stile riconoscibile e poi lo fa esplodere con l’inserimento di parti vocali o melodie aliene rispetto all’inizio. L’effetto è di scuotere sempre l’ascoltatore, richiamando la sua attenzione. Zappa è tra i maggiori geni musicali del ‘900; la sua musica si muove nelle più diverse direzioni: hard rock, jazz, classica, country. E tra le varie vesti musicali indossate, da chitarrista a direttore di orchestra, forse quella che gli si addice di più è la veste di compositore classico. Qui si vede l’artista vero. → artisti appartenenti alle band come i Led Zeppelin (Jimmy Page), i Cream (Eric Clapton), Black Sabbath (Tony Iommi) sono in grado di ampliare le strutture del blues, piuttosto costrittive, grazie ad uno peculiare della chitarra elettrica; il riff è fondamentale, portando alla creazione di un nuovo panorama sonoro, come per esempio in “Whole lotta love” dei Led Zeppelin. La curiosità nei confronti di generi musicali diversi e della loro combinazione, tipica di Zappa, appartiene anche a un sottacere rock che prende forma dal 1969 soprattuto in Europa: il “prog” progressive rock. I gruppi (tra cui anche i Gentle Giant e i Jethro Tull) condividono con Zappa il disprezzo per la commercializzazione dell’arte e del consumismo. La loro caratteristica sta nell’ibridazione totale del rock in un dialogo con musica classica del 700-800, con classica contemporanea, jazz, folk, musica etnica, hard rock. Ne risulta una musica innovativa, ricca ed espressiva. I brani strumentali diventano più lunghi e costringono gli ascoltatori ad un atteggiamento concentrato. Le sequenze musicali si fanno multiformi, con improvvisi mutamenti di ritmo e con suggestioni emotive. Non si sa mai cosa aspettarsi. Prendiamo il caso di “The house, The street, The room” dei Gentle Giant (1971). Suonata con strumenti insoliti (clavicembalo, violino, vibrafono, celeste, flauto dolce e altri), ha dei cambiamenti repentini di atmosfera e sonorità. Il testo parla del senso di disagio profondo della voce narrante, che riesce a uscirne solo attraverso un cambio a uno stato di liminalità comunitaria. In questo modo la complessità della musica si collega alla narrazione. 2. Narrazioni rock Nel giugno 1968, “Life” esce con i Jefferson Airplane in copertina e con un servizio sul nuovo rock in particolare su Janis Joplin, Zappa, Doors, Who. La nuova musica viene apprezzata: “Il rock è sovversivo non perché sembri autorizzare sesso, droga e brividi facili, ma perché incoraggia il suo pubblico a farsi un’idea propria intorno ai tabù sociali”. La sensibilità che guida questi artisti è tutta blues e hard country. Essi non rendono le cose semplici, sia dal punto di vista testuale che musicale, ma riescono ad arrivare al cuore di gran parte del pubblico, perché mostrano empatia per tutta la gente, per tutte le storie. “Chimes of Freedom” (1964), Dylan esprime la filosofia dell’antieroismo, essenza delle narrazioni di questi due generi. Strofa dopo strofa, si infittisce l’elenco dei marginali per i quali suonano le campane della libertà: ribelle, sfortunato, abbandonato, poeta, pittore, cieco, muto, sordo, condannato. Il suo elenco è un invito all’empatia. L’atteggiamento però non è di denuncia: è di sospensione del giudizio, è di chi vuole con uno sguardo mostrarci qualcosa. “Berlin” di Lou Reed (1973): - Due americani, Jim e Caroline, sono a Berlino. Amore romantico, ma poi ciascuno si fa prendere dalle sue fragilità. Lei vorrebbe cantare ma può farlo solo in posti malfamati. Jim non gli basta più, e lui reagisce dandosi alla droga e con violenza ne suoi confronti. Lei è forte e piena di lividi resiste; ma le vengono portati via i figli. Alla fine non regge e si suicida. Jim descrive la scena con stracciamento robotico, con un minuscolo cenno di rimorso, che alla fine si trasforma in cattiveria. La forza della storia sta nella scelta musicale che la accompagna. È semplice e delicata, gentile, crea un contrasto forte che invita alla riflessione. L'ideale di amore romantico, imposto dalla cultura di massa, pensiamo a Cenerentola, non appartiene alla realtà. La verità invece è che le famiglie possono essere felici ma a volte anche tragicamente infelici. E chi è infelice merita più attenzione degli altri. Si potrebbe considerare questa (e anche “Hey Joe”) una canzone maschilista. Ma il modo in cui funzionano le relazioni amorose nel blues e nel country, generi fondatori della musica rock, consiste nel dichiarare l’adesione ad un’aggressività di genere, che verrà poi sovvertita dall’interno e trasformata nel suo inverso. Cioè nella impotente reale debolezza. Può essere anche una prospettiva femminile: i Jefferson Airplane in un loro brano, con voce della loro cantante, racconta do di una lei che vuole che lui sia il suo autista, e che la porti in giro per il mondo: ma se provasse a portare altre ragazze, lei è pronta a sparargli. Tipico brano da “guerra dei sessi blues”. Janis Joplin oscilla tra i due poli classici blues: l’autodenigrazione e l’aggressività affettiva. Da un lato lei, la voce narrante, ha un terribile tormento interiore, si innamora del principe azzurro come in una classica storia mainstream, ma non c’è il lieto fine. L’amore si trasforma in un incubo, l’uomo non fa che ferirla e prendere pezzi del suo cuore (“Piece of my heart”), lei è sottomessa psicologicamente e si ritrova sola, sotto la pioggia, sentendosi finita, fragile e sensibile. Ma come un ciclo perverso è sempre pronta a riaccogliere il suo lui. Dall’altro, sebbene devastata la donna è capace di reazioni di rivalsa. La donna si arrabbia, è spavalda e diversa. Polverizza l’immagine normativa della brava ragazza controllata e dolce. Janis è un antistar, non bella ma attraente, passionale, sessualmente disinibita, estrema, aggressiva ma anche tenera, vestita da hippie. Ragazzi e ragazze la adorano, “é una di noi”, dicono. È vera. In “Lady Godiva’s operation” e “Sister Ray”, Lou Reed aggiunge alla lista di Dylan anche i transessuali e gli omosessuali. In due storie tragiche e vere, due storie possibili che si limita a raccontare. Una che parla di un transessuale che si opera per cambiare sesso, ma muore sotto i ferri. L’altra di un gruppo di travestiti che porta a casa dei marinai, e tutti insieme si fanno di eroina e di orge. Queste due canzoni escono un anno prima del caso “Stonewall Inn”. Questo è un locale frequentato da gay, lesbiche e drag quei nel Greenwich Village a New York. Puntualmente la polizia fa irruzione, arresta, e chiude il locale che poi viene riaperto pagando mazzette. Nel giugno 1969, dopo l’ennesima incursione e arresto da parte della polizia, ha inizio una rivolta a cui partecipano anche persone comuni. Sulla scia dell’episodio, nasce il Fronte di liberazione gay, un organizzazione che difende l’amore. Un amore naturale che si scontra con la società grigia e artificiale. La natura trasgressiva e provocatoria di queste canzoni è resa possibile dal fatto che il rock riconosca queste esperienze, fino ad allora oscene, come considerabili. Inizialmente, ad essere in grado di affrontare il tema dell’erotismo sono soprattutto i Doors in testi come “Light my fire”. Jim Morrison esprime la sua passione erotica anche sul palco. Usa la chitarra o l’asta del microfono come un’estensione sostitutiva del fallo, mimando e provocando; azioni che gli costano anche un’incriminazione per atti osceni in luogo pubblico. Anche la grafica degli album è usata per esprimere la nuova libertà dei corpi. Si pensi al primo album di Lennon e Yoko Ono. La copertina all’epoca suscita scandalo perché venduta dentro una busta di carta marrone che lascia vedere solo il volto. Anche la musica è diversa dalla classica produzione dei Beatles. Ciò che la coppia vuole dire è in linea con un concetto più ampio, appartenente alla comunità hippie: un corpo nudo è parte della natura, non c’è motivo per nasconderlo. L’immagine si lega con altri due lavori del periodo. Uno è un balletto, “Word Words” (1963) in cui due ballerini danzano all’unisono indossando solo il perizoma, e sovvertendo i ruoli stereotipati di maschio e femmina. L’altro è “It’s a man’s world I” (1964) e “It’s a man’s world II” (1965) di Pauline Boty. Un collage di autorevoli figure maschili di varia epoca ed età (Proust, Lenin, Fellini, Einstein, Kennedy, Mastroianni), e una sequenza di nudi femminili, a sottolineare la pesante asimmetria nella rappresentazione visiva dei generi, propria della cultura contemporanea. Nel secondo album dei Santana, “Abraxas” (1970), il tema del desiderio è giocato tra la copertina, un’opera di Mati Klarwein, e un loro brano “Black Magic woman”. Nel contesto di questa nuova libertà dei corpi, fin dalla fine degli anni ’60, intorno ai concerti e alle band si addensano le groupies. Grazie la gestione della propria sessualità con anticoncezionali, intraprendono rapporti con i musicisti dei più diversi gruppi rock. Questo fenomeno ha ricevuto valutazioni negative. Ma può anche essere considerato come un gesto gioioso e trasgressivo di ragazze che vanno in direzione diversa rispetto al sistema che le vorrebbe docili e angeliche. Quindi possiamo dire che le reazioni negative dell’epoca sono animate dal senso di disagio di uomini che si trovano di fronte a modelli di femminilità inediti e trasgressivi. 3. Rock e movimenti Non tutti gli artisti rock hanno una posizione chiara di fronte alla questione della guerra, o in generale di fronte alla politica. Di fronte alle proteste giovanili contro la guerra in Vietnam; formazioni di movimenti che accolgono il ricorso alla violenza come strumento di forza; nascita delle voci delle donne e del movimento femminista; di fronte a questi scenari, la maggior parte dei musicisti rock o ignorano le questioni o non si esprimono. • Hendrix, che sembra aderire agli ideali pacifisti. Questo suo approccio fa sì che alcuni suoi brani siano interpretati come testimonianze della sua critica alla società statunitense dell’epoca e alla guerra. Ma poi rilascia dichiarazioni in cui sembra essere un buon patriota statunitense. Sulla guerra in Vietnam dichiara: “Gli americani stanno combattendo in guerra per un mondo completamente libero. Ovviamente la guerra è una cosa orribile ma al momento è l’unico modo sicuro di mantenere la pace”. • Mick Jagger, nel marzo ‘68 partecipa a Londra ad una manifestazione contro la guerra in Vietnam: dal corteo deriva una giornata di duri scontri con la polizia. In un’intervista successiva il musicista non prende le distanze dal movimento, ma nemmeno lo sostiene con convinzione, soprattutto nelle sue declinazioni radicali. Questa posizione ambigua è Ma qualcosa sta cambiando. Nel 1967 escono “Il laureato” di Mike Nichols e “Bonnie e Clyde” di Penn. Film in controtendenza rispetto agli standard mainstream, che ottengono un successo incredibile. Da qui fino alla metà degli anni ’70, film insoliti o marginali, conquisteranno i vertici dei box office e riceveranno apprezzamenti. Per citarne alcuni: “2001: Odissea nello spazio”, “Rosemary’s Baby”, “Il pianeta delle scimmie”, “Easy Rider”, “Arancia meccanica”. Sono film apprezzati da un pubblico giovane (70% dei telespettatori dell’epoca). Si può immaginare che gran parte di questa sezione di pubblico appartenga a qualche subcultura attratta dalla controcultura rock. Ma evidentemente questi film coinvolgono anche altri gruppi generazionali, attirati dalla spinta conformistica che li induce a curiosare nella nuova moda cinematografica. Questi film, anche se vari, si legano tutti alla controcultura rock: hanno come protagonisti antieroi e non hanno l’happy ending, anzi spesso la fine è tragica. Il genere che maggiormente resiste a questo ribaltamento delle norme fondamentali è la commedia romantica. “Il laureato” offre un finale felice. Però, i due sposati, seduti nell’ultima fila del pullman mentre se ne vanno, mentre ridono felici, vengono seguiti dalla cinepresa che si sofferma sui loro sguardi che diventano sempre più perplessi, tristi; in sottofondo comincia “The sound of silence”. “Io e Annie” (1977) ha un finale brillante: l’happy ending è solo all’interno della sceneggiatura che il protagonista sta scrivendo, mentre nella realtà i due amanti non si rimettono insieme. Tra tutti, il film che forse colpisce più nel cuore dei temi mainstream, è “La notte dei morti viventi” di George Romero, dove ciò che viene assediato è la home. → Una ragazza, suo fratello e un afroamericano, riescono a sottrarsi dall’attacco degli zombie rifugiandosi in una casa abbandonata. Dentro si sono rifugiati una coppia una famiglia di padre, madre e figlia ferita dal morso di uno zombie. La casa intanto viene assediata, moriranno tutti tranne Ben, che si rifugia in cantina. Ma alla fine, ecco i salvatori. Arriva la polizia che uccide gli zombie. Ben sente di essere al sicuro, esce ma un poliziotto lo scambia per il nemico e gli spara alla testa. Il riferimento al linciaggio è evidente, ma nelle produzioni della Hollywood Renaissance sono assenti riferimenti alla guerra, alle tensioni razziali che stanno scuotendo l’USA, alle rivolte studentesche. 2. Broadway e dintorni Alcuni dei temi che Hollywood non affronta volentieri sono messi in scena a Broadway in musical. Tra le compagnie, c’è il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck. È caratterizzato dalla fusione tra elaborazione artistica e vita quotidiana, che trova la sua massima espressione in “The Connection” (1959) → storia di un gruppo di drogati, dove recitano persone davvero tossicodipendenti. Inoltre il loro teatro è un “teatro della crudeltà”: una rappresentazione teatrale deve aggredire emotivamente lo spettatore con scene intensamente violente, succede in “The bring” (1963) → descrive la giornata dopo di un marine recluso in una prigione militare. Il lavoro di questa compagnia resta comunque ai margini. Chi invece riesce ad imporsi al pubblico di massa è “Hair”. Debutta a New York nell’ottobre 1967, ma visto il grande successo, viene accolto in uno dei teatri maggiori di Broadway: il Baltimore Theatre. → La storia narra di Claude, un ragazzo di classe media che abbandona la casa per unirsi a una comunità hippie del Greenwich Village, dove conosce altri ragazzi con cui si creano rapporti affettivi anche sentimentalmente complessi. Questi sperimentano insieme la libertà sessuale, l’uso di droghe, marcando la distanza che li separa dalla società normale. Alla fine Claude decide però di partire per il Vietnam, dove rimane ucciso. Nel finale i suoi amici e le sue amiche celebrano la sua morte in uno dei brani di maggiore successo: “Let the sunshine in”. Un grande impatto emotivo intorno al corpo senza vita di Claude. “Hair” ha delle caratteristiche che lo rendono fondamentale nella storia della cultura di massa: è il primo musical dedicato alla descrizione di una comunità hippie, ad affrontare in modo diretto il dramma della guerra in Vietnam, ad usare intensamente le forme musicali rock. È per questo che il musical attira molti spettatori giovani, cosa piuttosto insolita per la tradizione di Broadway. Inoltre ha successo anche in Europa, Sudamerica, Australia, Giappone, e la colonna sonora esce in disco. Non mancano le polemiche, provocate da ciò che succede alla fine del primo atto, quando i membri della comunità hippie si spogliano, nel corso di una manifestazione, rimanendo completamente nudi. La questione della sessualità è stata affrontata in diverse occasioni: da Andy Warhol a Barbara Rubi a Carolee Schneemannn. → In questi lavori la sessualità è ben diversificata dalla pornografia: sono produzioni assolutamente artistiche che vogliono rendere l’esibizione della nudità e dell’erotismo come qualcosa di sereno e naturale. Ma il musical offre un esempio piuttosto clamoroso: “Oh Calcutta” di Kenneth Tynan (il cui titolo è la deformazione del titolo di un dipinto che rappresenta un sensuale deretano di una donna sdraiata) offre scene in cui attori e attrici bianchi si trovano in viarie situazioni erotiche. Il lavoro riceve enorme apprezzamento e viene replicato anche 5000 volte. L’esempio apre la strada ad altre produzioni sul tema. “The Rocky horror show” (1973) di Sharman, con trama fantascientifica illustra la legittimità dell’erotismo plurimo, eterosessuale, amo e bisessuale. Anche questo ha così tanto successo da essere riprodotto in un film della Fox, e diventa un fenomeno di culto con fedelissimi fan. “Let my people come: a sexual musical” descrive il sesso in tutte le sue dimensioni come cosa positiva, e i titoli di alcune canzoni dello spettacolo possono dare un’idea del contenuto di varie scene (i’m gay; come in my mounth; give it to me). Come si intuisce, quindi, si parla di relazioni omosessuali. Nel campo del cinema, il primo film con scene esplicite che circola nelle sale USA è “Blue Monday” di Warhol, che seguendo l’estetica della quotidianità che l’artista da tempo sostiene, descrive una coppia che all’interno della propria casa compie gesti quotidiani: parla di politica, discute e fa anche l’amore. “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci (1972), di impatto commerciale maggiore, narra di un’intensa relazione sessuale tra un americano e una ragazza parigina, con finale tragico. 3. Pop art E’ una proposta artistica che riesce ad imporsi nel pubblico di massa. Nasce in Inghilterra e arriva in USA come una relazione all’espressionismo astratto di Pollock. Una forma d’arte nelle cui opere si può estrapolare la non accettazione degli orrori del mondo contemporaneo, e per questo si fugge da ogni rappresentazione realistica, rifugiandosi in un mondo visivo rarefatto ed ermetico. La pop art nasce quindi come reazione a questo, ma anche come un’attrazione\repulsione nei confronti della cultura di massa, dei sui oggetti, divi, forme espressive, che diventano altrettanti temi cruciali dello stile. Peter Blake, capofila del pop britannico, è un appassionato cultore di jazz e r’n’r, e fan di Elvis, tanto che nel ’61 si ritrae in un “Self-portrait” vestito di jeans, col giacchetto pieno di spille e con in mano una rivista dedicata al suo mito Elvis. Il messaggio è chiaro: è un arte che dialoga con la cultura di massa. Altri, come Andy Warhol e Roy Lichtenstein, lavorano usando fumetti e oggetti quotidiani come oggetto artistico principale. Ad esempio lattine della zuppa Campbell o le scatole del sapone brillo. Questo per dire che la pop art è una popular art, che non ha paura di prendere come punto di riferimento fondamentale la quotidianità delle masse e dei loro consumi. Le critiche non mancano, ma intanto, alcuni artisti-cartine del movimento, sono autori delle copertine di alcuni degli album più influenti nella storia del rock. • Peter Blake e Jann Havort realizzano la copertina di un disco dei Beatles; • Warhol lavora per i Rolling Stone e per i Velvet Underground. Il rapporto di Warhol con i Velvet era già consolidato: è grazie a lui che il gruppo viene lanciato. Nel 1965, l’artista li ascolta in un bar e li invita a diventare la band del gruppo di artisti che si radunano nel suo studio. Warhol impone però ai Velvet di accogliere Nico (Maureen Tucker) come vocalist. Warhol realizza un film su di loro, organizza anche uno strano spettacolo sadomaso con sottofondo dei Velvet e nel 1967 disegna la copertina del loro album. Nello stesso anno però, i rapporti di Warhol e Nico da un lato, e i Velvet dall’altro, si dividono. Il debito dichiarato che i lavori pop hanno nei confronti del consumismo e della cultura di massa, esprime un atteggiamento di accettazione o di distacco critico? Spesso le opere degli artisti pop sottopongono le icone della contemporaneità ad una operazione di stracciamento che sradica fumetti, lattine, scatole di detersivo, star, dallo scenario abituale e li ricolloca in uno spazio assoluto, privo di contesto. Questa operazione è ambivalente, perché affida allo spettatore il compito di decidere se quegli oggetti meritino rispetto o disprezzo. In effetti si considerare l’opera pop sia come una manifestazione di stendenti anti-sistema, che come una produzione conformista. Se ci sono opere ambivalenti, ce ne sono poi altre che tolgono i dubbi: la serie “Death and Disaster” (1962-1965) di Warhol è una di queste. Ci viene mostrata l’America non tanto come celebrata terra promessa, ma come un inferno. La morte qui non conosce volte, mimetizza le sue vittima, è una morte astratta con tutti i volti possibili: da Marilyn a qualsiasi americano. Si susseguono incidenti automobilistici, sedie elettriche, scontri, cibi avariati, incendi. “Love” di Marisol Escobar (1962) è una metafora della ferocia del desiderio maschile e dell’impari battaglia tra i sessi. È una versione più incisiva dell’idea espressa l’anno seguente dalla Strider. Love rappresenta una violazione del nostro spazio personale da parte del capitalismo, ma il sottotetto inerente la sessualità è ciò che conferisce alla scultura un senso femminista. “Green Triptych” (1963) di Marjorie Strider, illustra una giovane bellezza americana ritratta in tre pose diverse, con seni e deretano che materialmente escono fuori dal quadro, a rimarcare polemicamente ciò che può interessare davvero ad uno sguardo maschile (“stavo prendendo in giro riviste per uomini”). In “Love e violence” Rosalyn Drexler esprime il tema della violenza fisica contro le donne. La caratteristica di queste opere è la loro capacità di dialogare con la cultura artistica ma anche con la cultura di massa. Qual è il rapporto di questa produzione con l’universo della controcultura rock? Da un lato va rimarcata una convergenza nell’atteggiamento: porre agli spettatori materiali per niente scioccanti (una scatola di Brillo); molto scioccanti (un aggressione sessuale), lasciando a chi guarda il peso di decidere cosa ci sia da dire in merito, è la soluzione che accomuna la pop art e il rock. Per fare un esempio: “Death and Disaster” costituisce la migliore interpretazione visiva della grafica costellazione di murder, prison e disaster songs della tradizione blues e hard country. Non tutta la grafica che accompagna il rock è pop art. Ci sono lavori più eclettici caratterizzati da un uso particolare della linea curva, monocroma o policroma che avvolge personaggi femminili; ci sono lavori segnati da una vena surreale - fantasy – onirica (es Led Zeppelin) sopratutto nel contesto britannico. Il trauma è forte soprattutto per i giovani (o ex giovani) vissuti nel mondo dell’abbondanza, che si trovano dall’oggi al domani a dover fare i conti con un mondo sfavorevole. In un ambiente così, molti iniziano a non aver più desiderio di immergersi in narrazioni tragiche, in storie di antieroi, in vicende senza happy ending. C’è bisogno di positività e le produzioni mainstraim la offrono. Inoltre bisogna considerare che nel panorama della controcultura di massa, una parte enorme di pubblico USA ed europeo aveva continuato comunque a preferire produzioni mainstream. È così che nel 1966 “The ballad of the green berets” una canzone patriottica cantata da un militare americano, si pazza al primo posto delle classiche americane e ad un buon posto in quelle europee. Nel 1968 la WB lancia “Berretti verdi”, un’epica patriottica ambientata in Vietnam, e anche questo film ottiene un risutlato positivo. Si capisce allora come mai, dalla metà degli anni Settanta, si chiude la stagione della Hollywood Renaissance. All’epoca si sceglie di puntare di nuovo sull’intrattenimento puro, anche perché i film con struttura classica sembrano attrarre maggiormente il pubblico; complice il desiderio di trovare un sollievo alla dolorosa crisi economica. Tornano film d’azione, fantasy, commedie romantiche, cartoni animati con lieto fine, messaggi rassicuranti, eroi muscolosi che salvano la comunità, amori felici. Film fantascientifici da ricordare sono: • “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (Spielberg, 1977); • “Superaman” (Donner, 1978); • “ET” (Spielberg, 1982); • “Star Wars Saga” (George Lucas, 1977); • “Ritorno al futuro” (Robert Zemeckis, 1985 – 1990). Tra i film d’azione spiccano quelli che hanno come protagonisti Schwarzenegger e Stallone. Tra le commedie: • “La febbre del sabato sera” (Badham, 1977); • “Ghostbusters” (Ivan Reitman, 1984); • “Dirty Dancing” (Emile Ardolino, 1987); Tra i film degli anni ‘90 in poi: • “Jurassik Park” (Steven Spielberg, 1993 – 2015); • “Harry Potter” (vari registi, 2001 – 2015); • “Il Signore degli Anelli” (Peter Jackson, 2001 – 2003); • “Pirati dei Caraibi” (vari registi, 2001 – 2003). Molti di questi film sono costosissimi, ma le case di produzione accettano di rischiare perché si trova a centro di un processo di ristrutturazione proprietaria, che prende forma dagli anni ’80, quando le politica neoliberista punta versi il gigantismo (le dimensioni delle corporations diventano spropositate.) Queste formazioni possiedono simultaneamente case di produzione cinematografica, emittenti tv, giornali, radio. La maggior parte delle più potenti megacorps ha sede in USA. Tra di esse c’è: • Comcast Corporation, che possiede anche NBC Universal (azienda nata dalla fusione tra il network tv NBC e la casa cinematografica Universal); • la Microsoft creata da Bill Gates, azienda dominante nel campo dei software; • la Time Warner possedente testate giornalistiche e televisive (tra cui la CNN) e la Warner; • la Walt Disney Corp; • la Sony… - Le megacorps rilanciano modalità di intrattenimento che ripropongono in blocco le strutture narrative della cultura di massa degli anni Trenta. Sia al cinema che alla tv, le storie tornano standardizzate e agli spettatori di chiede solo che si divertano, cioè alla lettera, che si voltino e smettano di guardare i problemi che li circondano. - Dentro le megacorps, anche i sistemi informativi di stampa e tv cambiano. I media modellano le notizie sulla base degli interessi economici e politici dei gruppi di direzione. Le informazioni devono essere a flusso continuo; per questo i giornalisti si concentrano sopratutto nei pressi dei luoghi di potere (Washington, Casa Bianca, Pentagono). Localmente invece le notizie vengono dall’amministrazione cittadine o dalle stazioni di polizia, così le fonti appaiono credibili e legittimate. In questo modo, poggiando su queste fonti di informazione, molti giornali o servizi tv, tendono a replicare gli orientamenti dominanti nei centri di potere, invece di sorvegliarli e criticarli. - Le megacorps dipendono dalla pubblicità. Gli inserzionisti non vogliono che i prodotti pubblicizzati siano associati a programmi tv che suscitino critica nei confronti del mercato e del consumo; né vogliano che siano associati a programmi di intrattenimento che risultino problematici o troppo innovativi per i gusti degli spettatori. Così preferiscono piazzare la pubblicità a ridosso di innocui programmi di intrattenimento (quiz, eventi sportivi, commedie romantiche) condizionando in tal modo la programmazione dei palinsesti. - Le megacorps restaurano le storie cinematografiche e televisive. Vengono incorporate figure che, in origine, erano escluse come inaccettabili: protagonismo eroico femminile (“Hunger Games” 2012 - 2015) omosessuali, afroamericani o altre minoranze; presenze femminili che si fanno più complesse. Al tempo stesso anche i supereroi, da sempre presenti, vengono modificati: sono spesso orfani, sofferenti, con un’infanzia difficile, disadattati. Così le storie diventano meno banali, visto che poi la struttura narrativa non cambia e rimane la stessa di sempre. Con tutto ciò, le stesse major si preoccupano di non desertificare l’intero campo delle narrazioni alternative. In questo caso il sistema è quello dell’appalto a sezioni specializzate delle majors, oppure a case di produzione indipendenti, con risultati cinematografici più marginali (“Melancholia” - Lars Von Trier, 2011 → indipendente; film di Nolan). In questo processo di concentrazione sono incluse anche le case discografiche, che a partire dagli anni Settanta puntano investimenti in direzione della musica pop. Enorme rilevanza ha anche la nascita di MTV (1981). Nello spazio della pop music vengono rinnovate le figure, come succede per i protagonisti del cinema e della tv: figure sessualmente ambigue e figure femminili potenti (che però puntano anche molto sul proprio corpo come oggetto di desiderio, ma può valere anche per il sesso opposto: “Take that” e “One Direction”). L’esperienza di Madonna costituisce una rilettura in controtendenza dei profili di femminilità dominanti. Dal suo primo album “Like a virgin” (1984) gli elementi di novità stanno nella copertina ipersessualizzata, nel testo della canzone, nel gioco di rimandi e nello stesso nome della cantante. Ma la differenza con le altre è che l’attrattiva di Madonna si basa sul fatto di presentarsi non tanto come un oggetto del desiderio, ma come un soggetto femminile desiderante. Insieme a queste novità c’è la crisi profonda della musica rock. • Alla lunga i costi di produzioni di dischi con musiche ricche e varie, e di concerti con scenografie imponenti, portano i produttori a incoraggiare altri generi di canzoni brevi e semplici, tipo la pop music. • La stretta relazione tra stili musicali distinti viene meno. Il sistema dei generi, principio d’ordine tipico della cultura di massa mainstream, si impone anche nel campo del rock. I musicisti, dischi, programmi radio, cominciano a distinguersi a seconda del sottogenere (hard rock, country rock, prog rock) e poi più avanti anche in altre etichette (heavy metal, punk, indie ecc). Non sono etichette che servono solo ad orientarsi meglio. Perché chi è fan heavy metal difficilmente ascolta musica indie. È una divisione materiale. • Inoltre, nei primi anni ’70, quando i movimenti giovanili più politicizzati si radicalizzano, la natura non politica della musica rock non viene apprezzata. Le persone si aspettano che gli astisti controculturali diventino dei portabandiera: e il fatto che non sia così da parte di gruppi come i Doors, Zappa, Santana, crea separazione, quasi come fosse un tradimento • I nuovi gruppi rock (Nirvana, U2, Radiohead, REM ecc) e le classifiche di vendita che ne celebrano i trionfi anche commerciali, non vanno letti come manifestazione di un pubblico globale, ma di singole e specifiche comunità interpretative, molto nettamente connotate da un punto di vista generazionale. Gli stessi concerti cambiano di significato, visto che da rituali di aggregazione a una comunità alternativa, com’erano i raduni di fine anni ’60, si trasformano in semplici e temporanee esperienze. Così le produzioni rock cambiano natura, non sono più parte di un complessivo panorama controculturale ma tornano ad essere delle manifestazioni culturalmente circoscritte. Le espressioni di disagio si fanno individuali, chiuse in famiglia o tra amici(reparti psichiatrici, centri di disintossicazione); una parte sempre più ampia di giovani si avvicina ai modelli mainstream attraverso manifestazione di dissenso nei confronti delle istituzioni. Al tempo stesso, si formano nuove scene giovanili → apericena, rave, così come era accaduto nelle controculture a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del 1900. Ma nonostante l’assenza di una controcultura integrata, “materiali resistenti” alle logiche mainstream, continuano ad esistere, in ambito musicale e cinmetografico. Ambito musicale → My bloody valentine, The knife, ecc. Ambito cinematografico → Nelle serie tv odierne (“I Soprano”, “Game of Thrones” (HBO), “House of Cards”) troviamo personaggi complessi, figure ambigue che non sono né totalmente buone né totalmente cattive, il finale incerto, dilemmi morali, assenza di stereotipi. Inoltre internet offre opportunità potenziali per sottrarsi alla presa delle narrazioni egemoni. E siti musicali permettono di tenersi aggiornati sulle sperimentazioni musicali. E non solo: secondo alcuni la rapidissima evoluzione tecnologica sta ponendo le basi per una nuova società tecnologica che consente a chi naviga in internet (social), di collocarsi al centro di una rete interattiva e partecipe, aperta alle spinte dal basso che provengono dagli utenti.
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