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Wonderland - La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, Sintesi del corso di Storia Della Radio E Della Televisione

Riassunto completo dell'opera di Banti

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 03/04/2023

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Scarica Wonderland - La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Radio E Della Televisione solo su Docsity! I – INDUSTRIA CULTURALE E CULTURA DI MASSA 1. L’industria culturale Ci troviamo negli USA nel 1933 quando nelle principali sale cinematografiche viene proiettata la produzione Disney de “I tre porcellini”; nonostante le apparenze, si tratta di un lungometraggio d’animazione di straordinaria bravura tecnica e raffinatezza compositiva, che può essere preso come esempio per introdurre aspetti importanti della cultura di massa. Ma in cosa consiste la cultura di massa? Essa consiste in un sistema di produzione e circolazione di informazioni trasmesse attraverso una serie di media (giornali, libri, immagini, film, musiche e canzoni), pensati come strumenti d’informazione e d’intrattenimento per persone mediamente colte e con disponibilità di reddito relativamente contenute. Basandosi sul principio della semplificazione argomentativa o narrativa, ed essendo offerte a prezzi molto contenuti, queste produzioni culturali sono in grado di raggiungere un pubblico di vaste dimensioni. In questi anni, l’incremento e l’affermazione di produzioni appartenenti alla cultura di massa (mainstream) è dato principalmente dal perseguimento di uno scopo meramente lucrativo. Infatti a produttori ed editori non interessa tanto creare opere intellettualmente riuscite, quanto raggiungere immediatamente il consenso del grande pubblico e di conseguenza i maggior profitti possibili. A dominare il sistema cinematografico statunitense degli anni Venti e Trenta sono otto grandi società, tra le quali la Warner Bros, la Paramount Pictures, la 20th Century Fox, la Universal, la Columbia e la Metro-Goldwyn-Mayer. Molte di queste posseggono anche le principali catene di sale cinematografiche, controllando così non solo la produzione, ma anche l’intera distribuzione dei loro prodotti. La radiofonia nasce invece per usi militari nei primi anni del XX secolo, ma presto iniziano le prime trasmissioni indirizzate al grande pubblico; tre grandi network (NBC, CBC, MBC) comprano o stringono accordi con le emittenti locali e si autofinanziano col sistema delle inserzioni pubblicitarie. Allo stesso modo il mercato discografico è monopolizzato da tre grandi etichette: la RCA Victor, la Decca e la Columbia/ARC. Nel campo del fumetto, forma nata alla fine del XIX sec., poche aziende hanno contratti esclusivi con disegnatori e allocano le strisce disegnate ai diversi giornali statunitensi con i quali hanno sottoscritto degli accordi. Il fumetto si emancipa da quotidiani e periodici nel 1938, con la pubblicazione del primo comic book autonomo, contenente le storie del primo famoso supereroe: Superman. In questi anni si sviluppa una chiara tendenza alla formazione di grandi concertazioni intermediali. Si tratta di strategie economiche e commerciali che mirano a costruire rapporti sinergici tra colossi di radio, discografia e cinema. Proprio per questo motivo, a cavallo della Seconda guerra mondiale le autorità sono costrette a porre dei limiti a queste aggregazioni seguendo politiche antitrust. In breve, negli anni '20 e '30 la cultura di massa è determinata dalla concomitanza di produzioni mainstream di vario genere (film hollywoodiani, fumetti, radiodrammi, musiche da hit parade e romanzi popolari). Queste sono indirizzate al grande pubblico, contengono pressoché i medesimi principi etici/morali e sono legate dall'intreccio di 3 fondamentali dispositivi: la suddivisione in generi, la struttura seriale delle narrazioni e un altissimo grado di intermediabilità. 2. Generi L’identificazione di un genere deriva da alcune semplici caratteristiche di base: l’ambientazione spazio-temporale, la natura del protagonista e i compiti che gli sono assegnati. Ed è proprio questa strutturazione che modella le aspettative del pubblico, che può facilmente orientarsi verso il genere che predilige. Inoltre, le narrazioni di genere hanno di regola un impianto dualistico – nel senso che contrappongono valori culturali positivi e negativi – tali da rendere le storie ripetitive e prevedibili, giacché utilizzano costantemente gli stessi sviluppi. Questo processo di standardizzazione che coinvolge tutti i media, forma un pubblico totalmente passivo, annullandone ogni capacità di pensiero critico e autonomo. In definitiva, tutto ciò che il pubblico vuole è annullare i problemi per qualche ora e lasciarsi convincere che il lieto fine arrivi sempre, specialmente nel duro periodo della Depressione e della guerra. 3. Serialità + 4. Intermedialità Un altro dispositivo che accomuna le diverse produzioni della cultura di massa mainstream è la serialità, che consiste nel ricorso frequente al racconto intervallato e sequenziale. Le storie possono essere serializzate secondo tre distinte modalità: ➢ Singola storia a puntate: narra una vicenda sequenziale nell’arco limitato di episodi con la tecnica del cliffhanger (suspence mozzafiato) nella parte conclusiva di ciascuna puntata. Nate già all’inizio dell’Ottocento, negli Usa le storie a puntate diventano popolari con i pulp magazines, periodici a basso prezzo; ➢ Storia articolata in una sequenza di episodi autonomi: storie legate dal medesimo protagonista o medesimo gruppo di protagonisti (i c.d. sequel o prequel), che trovano successo in personaggi come Nick Carter o Sherlock Holmes. Lo stesso sistema viene usato nei fumetti e nella radio come i radiodrammi (dove i personaggi sono già conosciuti nel mondo letterario e cinematografico e adesso vengono raccontati dalla voce di attori o attrici in brevi puntate); ➢ Serial continuo, con storie che si snodano in un numero di puntate illimitato: narrazione composta da un indeterminato numero di episodi, con molti temi narrativi che si intrecciano, la maggior parte dei quali raccontati in una determinata successione di puntate. In questo caso è radio che impone con enorme questo successo questo modello narrativo, nella forma specifica delle soap opera, trasmissioni radiofoniche a puntate che in qualche caso durano anche per decenni. Nata nel 1932 con la prima soap Clara, Lu ’n’ Em, le storie sono ambientate in interni domestici, e descrivono le vicende di una famiglia eventualmente allargata ai vicini; quasi mai intervengono eventi pubblici a “turbare” la vita di queste famiglie, mentre sconvolgono gli equilibri le scelte di vita dei personaggi in campo sentimentale o professionale. Dominano i personaggi femminili – soprattutto quelli materni – mentre è tipica delle soap è la fissità dei personaggi, che tendono a reagire in modo sempre coerente con gli assunti di fondo che li caratterizzano. Infine una delle caratteristiche proprie della cultura di massa mainstream è la fittissima intermedialità, che consente ad alcuni personaggi di restare quasi permanentemente “vivi” nell’immaginario collettivo attraverso la loro molteplice presenza nei più diversi spazi mediatici. A maggior ragione questo discorso va fatto per i cartoni Disney che, fra le loro varie caratteristiche, possiedono anche quella di essere riproposti sugli schermi cinematografici a cadenza periodica, avendo peraltro anche numerosi sequel. II – NARRAZIONI MAINSTREAM 1. There’s no place like home Prendiamo in esame il cult “Il Mago di Oz”, una produzione MGM del 1938 con la giovane Judy Garland nei panni di Dorothy. In poche parole tutta la vicenda è una metafora per raccontare il viaggio di crescita della protagonista e il suo passaggio dall’infanzia alla pubertà, allontanandosi dal luogo di nascita e attraversando mille peripezie per poi riuscire finalmente a tornare a casa e integrarsi nella comunità come una giovane donna. Qui, come anche ad esempio nel classici della Disney, si assiste a un’esaltazione della sfera domestica e familiare, luogo di eterna felicità. Le quanto non segue una precisa struttura, ma si basa contrariamente su un principio di improvvisazione e libera performatività. Con la sua diffusione nascono anche balli abbinati, come il charleston e le prime artiste afroamericane, come Mamie Smith, hanno un enorme successo nei teatri e nel mercato discografico. Un'altra forma musicale di origine afroamericana strettamente correlata al jazz è il blues. Che cosa sia il blues non è facile da dire poiché questa etichetta è applicata a musiche molto varie. Tuttavia, una forma molto meglio definita di blues di sviluppa proprio in questi anni in un circuito parallelo e – almeno inizialmente – più nascosto rispetto a quello delle cantanti e delle jazz band. I blues men infatti si spostano di città in città con mezzi di fortuna e si esibiscono alla fiere o nei pub. La maggioranza viene dal Sud, dove hanno vissuto infanzie difficili e costellate di sfruttamenti, violenze e dipendenze. La canzone blues è semplice, sia strutturalmente sia poeticamente ed è caratterizzata dalla doppia ripetizione del primo verso, caratteristica che permetteva almeno inizialmente al cantante di prendere tempo ed escogitarne un terzo. Il primo successo discografico è quello di Blind Lemon Jefferson che nel marzo del 1926 a Chicago incide quattro brani blues per la Paramount; ma nonostante i primi investimenti su questo genere, il mercato discografico subisce un grave danno con la crisi del ‘29 e il blues sopravvive solo grazie alle performance dal vivo e alle numerose stazioni radio che continuano a trasmetterla. Ed è a questo punto che, a sostenerla, intervengono degli altri personaggi vengono dal mondo dei bianchi, e che peraltro sono fondamentali per lo sviluppo dell’intera costellazione folk: gli etnomusicologi. 3. Canti dalle prigioni Nel corso dell’Ottocento e ancora ai primi del Novecento, il crescente interesse per la musica folk spinge molti studiosi a ricercare le vere origini della tradizione musicale americana. Tra questi l’etnomusicologo John Lomax e il figlio Alan effettuano diversi studi e ricerche non solo sugli stili delle comunità rurali bianche, ma anche su quelli afro-americani, oltrepassando la “linea del colore”. John, essendo un purista che disprezza il jazz o le contaminazioni commerciali della musica folk, pensa di cercare testimonianze incontaminate all’interno delle prigioni, dove l’isolamento dal mondo esterno può aver conservato tracce di un precedente passato musicale. È così che, nel 1933, all’Angola State Penitentiary della Louisiana conosce Huddie Ledbetter, un promettente musicista blues dal passato burrascoso. Uscito dal penitenziario, Ledbetter ottiene un notevole successo grazie ai Lomax che gli fanno da managers, ma il velato razzismo di John porta a una rottura dei rapporti, che si conservano invece con Alan, di ideali molto più radicali e aperti rispetto al padre. Alla fine degli anni Trenta si assiste a una netta ripresa del settore discografico, grazie alla complessiva ripresa economica e all’abolizione del proibizionismo e inizia così un processo di commercializzazione del blues. 4. Storie blues Le tematiche blues sono totalmente agli antipodi di quelle mainstream. Venendo da contesti sociali di degrado, discriminazione, violenza e sfruttamento ed esibendosi in locali malfamati dove alcool e droga sono all’ordine del giorno, i blues man condividono con i loro testi le ansie affettive ed esistenziali, senza per questo affrontare direttamente temi forti e sociopolitici della segregazione razziale e della diffusa pratica del linciaggio. Le storie narrate sono solo dei flash, estratti di vita che vengono esplorati da una prospettiva individuale e soggettiva. La solitudine è straziante, il timore di essere aggrediti da qualche minaccia esterna è forte e l’unica via di fuga è il viaggio. Viaggio che sa di libertà, dopo tanti secoli di prigionia nelle piantagioni, ma anche viaggio infinito, finché non si arriva in qualche luogo in cui si può sperare di stare meglio. Se gli uomini descrivono scene di violenza e vendette, le donne non sono da meno. Anche le cantanti blues descrivono infatti i temi della tossicodipendenza, della disperazione amorosa e della vendetta, allontanandosi radicalmente da quella passività femminile tipica della cultura di massa. Non sono rare infatti nemmeno le canzoni in cui sono gli uomini ad essere traditi e abbandonati, richiudendosi nel dolore e prendendo le distanze dal maschilismo mainstream. Nel blues non ci sono amori a lieto fine e gli unici momenti positivi di coppia sono quelli legati alla sfera sessuale, descritta nei testi anche piuttosto esplicitamente. Uomini e donne hanno quindi atteggiamenti simili e dialogano alla pari, senza gerarchie di genere e con una rimarcabile emancipazione femminile. Le prison songs parlano invece della dura vita di galera, senza nessun accenno di pentimento o redenzione, e in cui manifesta tutta la sua nostalgia per i luoghi e le persone amate. Sebbene il blues e il gospel derivino da due ambienti di contrasto (il sacro e il profano), rappresentano in qualche modo i due lati della stessa medaglia, versando allo stesso modo le ansie e le preoccupazioni nella musica (strumento di espiazione e sopravvivenza) ed esprimendo diversamente lo stesso tormento. Comunque stiano le cose, qualsiasi cosa sia immersa nel mercato discografico da musicisti neri in questi anni finisce sotto l’etichetta race records, un modo per incoraggiare la conservazione della segregazione razziale anche nel mercato discografico. E difatti, negli USA degli anni Venti e Trenta, solo pochissimi bianchi prendono minimamente in considerazione questo particolare universo sonoro e poetico. 5. Musica dalle campagne, dalle montagne e dalle pianure + 6 Costellazioni hillbilly Nei primi anni Venti un giovane commerciante di Atlanta, Polk Brockman, si propone come talent scout a Ralph Peer, che all’epoca lavora per la OKeh come produttore di dischi per i mercati etnici. Essi organizzano così diversi audizioni per scovare nuove promesse e stili musicali da proporre in commercio, facendo esordire i primi grandi nomi della musica hillbilly come il violinista John Carson. Il nuovo genere - chiamato “old time tunes” poi dal 1925 hillbilly, termine dispregiativo che indicava i campagnoli bianchi del Sud o i montanari bianchi degli Appalachi – basato sul violino comincia ad esaurirsi quindi Ralph Peel parte per cercare di rinnovare il repertorio. Scopre un gruppo di musicisti, la Carter Family, di estrazione sociale medio-bassa, dei viaggiatori e raramente scrivono la musica che suonano; piuttosto attingono a un patrimonio folclorico che hanno ascoltato qua e là, lavorando come musicisti girovaghi nelle fiere. La scelta di aprirsi a musiche della tradizione nera non riguarda solo la Carter Family, ma vale anche per molti musicisti hillbilly che, collaborando con musicisti afroamericani, ne ascoltano le musiche e le inseriscono nel loro repertorio. Che tipo di musica fanno? Si tratta di una musica suonata con strumenti a corda (violino, banjo, chitarra), dalla struttura molto semplice, organizzata intorno a scansioni ritmiche elementari. Paradossalmente, la forza comunicativa di questa musica esce consolidata dalla crisi del 1929 poiché sebbene il mercato sia duramente colpito dalla crisi, la musica continua a circolare largamente per tutto il paese grazie a una serie di programmi radiofonici e di produzioni cinematografiche che tengono vivo il fenomeno e ne istituzionalizzano i caratteri fondamentali. Ma anche qui un epiteto insultante – hillbilly equivale a “zoticone” – viene assunto come una bandiera identitaria, con musicisti a vestisti con abiti da lavoro da contadini o da montanari. Tuttavia questa immagine rustica viene presto soppiantata dall’accostamento tra musica hillbilly ed epopea western, nel momento in cui nei film compare la figura del singing cowboy, cioè in cui il protagonista non solo compie imprese tipiche delle narrazioni western hollywoodiane, ma ogni tanto canta una canzone hillbilly che ha un collegamento con lo svolgersi dell’azione. Ora, sebbene non ci sia alcun contributo documentabile della categoria dei cowboy allo sviluppo della musica hillbilly, l’immagine del cowboy finisce per affascinare musicisti e fan e dalla fine degli anni Trenta soppianta quella del rozzo zoticone come cifra identitaria della scena hillbilly, che adesso prende a essere chiamata anche country & western. Radio e cinema dunque costruiscono un ponte che conduce la musica hillbilly direttamente nel cuore delle narrazioni. Tuttavia l’universo musicale e testuale di questo genere si adatta solo in parte alle soluzioni di immagine proposte dai management radiofonici e cinematografici, poiché il suo orizzonte narrativo è assai più variegato e in qualche misura in contraddizione con i valori mainstream. Da un lato ci sono diverse canzoni che sposano talvolta il fondamentalismo religioso, dall’alto c’è una sorta di underworld fatto di amori infelici, accompagnato dall’incessante incombere della morte. Come nel blues, tutta questa costellazione di storie sentimentali infelici diventa una sorta di metafora per parlare in via indiretta di vite difficili, di disastri economici e ambientali. In nessun caso però questa sensibilità sociale si trasforma in un’agguerrita coscienza di classe: disagio, rabbia, è tutto circondato da un ferreo fatalismo, che induce ad accogliere la sconfitta con cristiana rassegnazione. Peraltro, persone disperate, senza alcuna possibilità di riscatto, possono cedere e abbandonarsi alla delinquenza. Quasi mai c’è una condanna moralistica per il gesto violento come d’altro canto non c’è nemmeno una reale partecipazione al dramma: queste storie sono raccontate come una delle tante cose che possono accadere. 7. Folk radicale + 8. Canzoni militanti Il jazz, il blues, la musica hillbilly non hanno una dichiarata valenza politica. Sono lamenti individuali, esprimono emozioni e cercano di coinvolgere, quasi mai si traggono delle conclusioni morali. Tuttavia nel panorama folclorico statunitense di questi anni cominciano a emergere canzoni che invece vogliono prendere una chiara posizione politica. In parte sono diffuse da organizzazioni sindacali radicali, in parte nascono sul campo – per così dire – per es. durante il lungo ciclo di lotte operaie che ha il suo acme più drammatico nel 1931. Le musiche sono semplici e spesso sono derivate dal patrimonio di canzoni che appartengono alla musica hillbilly mentre i testi sono adattati alle esigenze delle lotte sindacali. Negli scioperi di Gastonia e della Harlan County, un ruolo cruciale è quello svolto dalle organizzazioni sindacali costituite dal Communist Party, che attacca frontalmente la segregazione razziale, sia perché la ritiene una testimonianza evidente delle distorsioni sociali del sistema capitalistico statunitense, sia sperando che questo porti un sostegno elettorale della popolazione afroamericana. Tuttavia, fino ai primi anni Trenta il CP-USA non sembra particolarmente incline a sostenere la diffusione della musica come quella di Gastonia o di Harlan Country, preferendo musiche di impianto modernista, ispirandosi ad Eisler, musicista tedesco. Ma ben presto questa nuova linea si impone, anche perché canzoni dalle forme melodiche più semplici riescono ad avere una maggiore presa sui militanti sindacali comunisti. Un musicista che sposò questa nuova linea del partito fu Woody Guthrie, il quale sebbene attingesse da generi musicali consolidati quali il blues di tradizione nera o il folk di matrice bianca, i suoi testi costituirono, per l’epoca, una grande novità, perché denunciavano la società e informavano il popolo sulle condizioni del popolo statunitense, spesso puntando il dito contro i padroni e gli sfruttatori. Egli, assieme ad altri cantanti radicali, fondò sul finire del 1940 il gruppo musicale degli Alanac Singers, suonando musiche di impostazione radicale e anti-business. Ben presto però passò invece ad affrontare tematiche pacifiste, per poi approcciarsi al patriottismo e al nazionalismo in seguito ai primi attacchi tedeschi e giapponesi. La conversione agli ideali bellici e il continuo cambio di ideali costò agli Almanac la perdita di credibilità, di popolarità, e quindi di importanti contratti discografici. Esistono tre tipi di narrazioni diverse nelle canzoni politicamente impegnate: quelle come da Strange Fruit, che trattano di temi forti ma con tono distaccato, senza la diretta espressione di giudizi morali; le canzoni militanti semplici, con strofe ripetute e con scopo didattico; canzoni narrate in terza persona, dove il narratore si distacca eticamente e moralmente dall’inferiorità della massa che deve convertire (forma tipica dei sermoni religiosi o dei discorsi politici). periodo di cura e quarantena in istituti appositi. Quindi le donne sono considerate dei soggetti pericolosamente sessuali, ma questa idea viene contrastata dal suo “doppio positivo”, attraverso le rappresentazioni femminili che devono spingere le donne a partecipare allo sforzo di guerra. Si tratta di immagini di donne al tempo stesso rassicuranti e impegnate a occupare i posti di lavoro lasciati dagli uomini, dedite alla famiglia e non dotate di attrattiva sessuale (es. Rosie the Riveter). Questa immagine però aumenta la paura che le donne non se ne tornino a casa una volta finita la guerra, è così che si inizia a preferire una figura femminile più graziosa e seducente, impiegate per promuovere le merci più varie o per accogliere il proprio uomo. Ed è in questo contesto che fanno irruzione le pin-up, ovvero le immagini di ragazze da attaccare al muro. Infatti, nell’intento di diffondere una rappresentazione seducente della “vera donna americana”, ai soldati vengono inviate delle immagini di due tipi: da un alto si tratta di foto di giovani attrici in voga, dall’altro lato i disegni che Alberto Vargas realizza per la rivista “Esquire”, le quali raffigurano donne attraenti, dal seno prosperoso e dall’aria provocante (c.d. Varga Girls). Nonostante le voci critiche che di tanto in tanto avrebbero continuato a levarsi negli anni seguenti, la figura delle pin-up si imporrà definitivamente nelle riviste per donne o per le adolescenti, nelle pubblicità e negli articoli di costume. Ma intanto la retorica patriottica, nel tentativo di esaltare l’assoluta necessità di difendere la “home”, porrà nuovamente quest’ultima come luogo esclusivamente femminile. V – PROVE DI NORMALIZZAZIONE 1. La casa dei nostri sogni + 2. Allarme rosso Nel secondo dopoguerra, molte famiglie bianche di varia estrazione sociale abbandonano i centri delle città e si spostano verso nuovi sobborghi residenziali extraurbani, dove si registra un’espansione edilizia di portata straordinaria, favorita anche da apposite politiche governative che la incoraggiano. Omogenei in tutto, i nuovi quartieri lo sono anche dal punto di vista razziale: essi non possono entrare nei sobborghi perché le banche non gli concedono mutui, e se riescono ad entrarvi, vi fanno ingresso solo in qualità di manovali e governanti. Tuttavia la famiglia, con la bella casa, il giardino curato e la macchina per andare al lavoro, diventa ben presto una nuova declinazione del concetto di “home”, la quale è vissuta con un misto di ottimismo e di cupa paranoia, da difendere dalle minacce esterne. Solo che stavolta i cattivi non sono più banditi e indiani dei colossal mainstream, bensì i comunisti. Le evoluzioni cinematografiche impostate su questo principio (la difesa della home minacciata) si evolvono in questo periodo tre direzioni: storie che descrivono un team di eroi in azione - talora di composizione plurietnica e con interessanti scavi psicologici all’intero dei membri della squadra - con la morte sacrificale dei membri marginali e il trionfo dell’eroe protagonista; l’imposizione del racconto di fantascienza quale strumento narrativo per narrare le paure legate alla ipertecnologizzazione dei conflitti bellici e delle dittature (ispirati da opere letterarie come 1984 di Orwell, film come Io sono leggenda); film dichiaratamente anticomunisti, con lo scopo di esplicitare le proprie tendenze anticomuniste da parte di diverse case cinematografiche in un periodo di accuse e di “caccia alle streghe”. 3. Arriva la televisione Nel 1945 negli USA iniziano le trasmissioni televisive a carattere commerciale e i primi programmi televisivi sono dominati dalle maggiori emittenti radiofoniche (NBC, CBC, ABC), con il modello televisivo che si adatta al modello delle trasmissioni radio, finanziate allo stesso modo dal sistema pubblicitario. Inizialmente il sistema prevede che le aziende che pagano per la pubblicità si occupino anche della produzione dei programmi, ma dal ’59 le emittenti vendono singoli slot di tempo con la produzione e la supervisione dei programmi affidata interamente alla dirigenza dell’emittente. Invece la concorrenza con il cinema viene risolta in una collaborazione: da un lato le TV noleggiano o acquistano gli archivi filmici delle maggiori case cinematografiche hollywoodiane da trasmettere in prima serata; dall’altro lato, i network televisivi e le majors hollywoodiane cominciano a collaborare direttamente per la produzione di telefilm (ovvero film pensati per la televisione). Si pensi ad es. al network ABC che negli anni ‘50 sottoscrive un contratto con la Walt Disney Co., secondo il quale la Disney si impegna a produrre un programma tv esclusivo per la ABC, mentre la ABC si impegna a cofinanziare la costruzione del primo parco a tema (Disneyland) a Los Angeles. Tre le produzioni tv di maggior successo si impongono subito i varietà, i quiz e soprattutto le serie televisive – tre le quali le soap – molte delle quali trasmigrano dalla radio alla tv. Accanto a questi format se ne impone uno che, pur avendo avuto il suo esordio alla radio, trova tuttavia nella televisione il suo mezzo d’elezione, ovvero la sitcom, le cui storie sono incentrate sulle tensioni interne al matrimonio e alla famiglia e la cui conclusione positiva rimarca la rassicurante centralità della “home”, identificata come la vera struttura portante della società americana. 4. Forme di libertà + 5. «Going steady» + 6. Gli uomini preferiscono le bionde Nel sistema di comunicazione mainstream gli spazi pubblicitari non sono mai nettamente distinti dalla programmazione ordinaria. Si tratta, come oggi, di pubblicità manipolatorie, che vendono oltre al prodotto l’idea della necessità di quel prodotto stesso per condurre una vita pienamente felice. Il sessismo è una componente fondamentale: prodotti per la cucina, la cura di casa, bambini e bellezza sono sempre indirizzate a donne. Negli anni del dopoguerra vi è ancora una forte valorizzazione della famiglia tradizionale, dove la donna abbandona studi e carriera per la famiglia e dove l’ascesa sociale femminile è dovuta unicamente a un matrimonio facoltoso. Le famiglie miste (unione di diverse etnie) sono sconsigliate o addirittura vietate e si espande una larghissima componente omofobica all’interno della società. L'età del matrimonio si abbassa notevolmente e si assiste al c.d. “baby-boom”, un aumento della natalità e una conseguente crescita demografica impressionante proprio negli anni Cinquanta. L'abbassamento dell’età matrimoniale è dovuta in primo luogo alle guerre, che spingevano i giovani a sposarsi prima della partenza militare, ma anche a un cambiamento radicale nello stile delle frequentazioni adolescenziali; infatti agli appuntamenti occasionali si iniziano a preferire le coppie stabili e fisse, vere e proprie fonti di scoop e pettegolezzi nei giornalisti scolastici delle high schools e dei college. Nonostante la tendenza ideologica femminile sia quella della rinuncia agli studi e alla carriera, nel corso degli anni Cinquanta il numero di donne sposate con figli che vanno a lavorare sono comunque in crescita. Infine nel dopoguerra aumenta la frequenza scolastica dei giovani e molti college si aprono agli ex veterani anche di estrazione medio-bassa, che in altre condizioni non sarebbero potuti permettere studi così avanzati. Così un numero considerevole di genitori dei ragazzi e delle ragazze iscritti nelle high schools incoraggia i figli e le figlie a proseguire gli studi, non solo perché quella sembra la strada migliore per tentare un’ascesa sociale, ma anche perché i posti di lavoro che possono essere ottenuti col solo diploma di scuola superiore cominciano a scarseggiare. Negli anni Cinquanta è Marilyn Monroe, la biondissima diva di Hollywood, a incarnare nei suoi film il ruolo della bionda oca giuliva materialista e arrivista (come sposare un milionario), seppur di spirito nobile e ricco di buoni propositi. VI – «POPULAR MUSIC» La «popular music» nel secondo dopoguerra Nelle classifiche dei successi musicali compilate dalla rivista «Billboard», al numero 1 delle pop songs si piazzano da tempo hit natalizie. Un successo trainato anche da notevoli trasformazioni: dal 1948 la Columbia ha messo in commercio il 33 giri in vinile (un “album” che racchiude un certo numero di canzoni, molto più resistente del classico disco a 78 giri) mentre pochi mesi più tardi la RCA ha risposto con il 45 giri, un disco pratico e maneggevole che contiene solo due canzoni, una per facciata, particolarmente adatto ai jukebox. Il mercato è dominato da un numero limitato di majors, tutte con sede a New York, mentre molti imprenditori – in varie parti del paese – mettono in piedi piccole etichette discografiche, spesso specializzate in stili di musica di nicchia. Nondimeno, il posto della radio nel sistema dei media cambia: da un lato, i grandi network con l’inizio delle trasmissioni Tv concentrano la loro attenzione sul nuovo settore televisivo, dall’altro le trasmissioni radiofoniche subiscono duramente la concorrenza della Tv, poiché molti programmi si trasferiscono in video e cessano la programmazione radio, lasciando uno spazio nel palinsesto radiofonico che viene riempito dai programmi musicali. Inoltre se nelle stazioni più importanti si continuano a trasmettere brani musicali registrati dal vivo, nelle stazioni più piccole si utilizzano invece i dischi scelti dal conduttore della trasmissione (DJ), il cui ruolo si fa particolarmente significativo nei primi anni Cinquanta, poiché dalle sue scelte può dipendere il successo o l’insuccesso di una nuova canzone. Nonostante questi mutamenti, sia sul mercato discografico che alla radio, la parte del leone la fanno ancora le pop songs, ovvero brani eseguiti da musicisti bianchi per un pubblico bianco. 2. «Pop songs» + 3. Storie pop Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta nelle scuole, nei juke joints e nelle sale da ballo si riduce lo spazio per i balli – considerati simbolo di decadenza sociale e morale – a favore di musiche romantiche dove domina il genere orchestrale. Si tratta, nel complesso, di una configurazione listener friendly, perché, ripercorrendo un numero elementare di regole (melodia diatonica, assenza di ritmo, strumenti classici in priamo piano, una sequenza di strofe talora intrecciate dai ritornelli), rassicura chi ascolta. Del resto rassicuranti lo sono anche le star del pop, vestiti tutti allo stesso modo (gli uomini con giacca e cravatta, le donne invece vestiti a vita stretta), i quali limitano una contenuta gestualità nell’esecuzione del brano. Se dalla morfologia musicale si passa alle strutture narrative, il tono va dall’allegro al sentimentale, per passare alle hit di Natale. Ma sono soprattutto le canzoni d’amore a dominare la scena, le quali descrivono esperienze infelici, parlano di due amanti che sono costretti a separarsi o sono canzoni di corteggiamento. Tutto questo gruppo di canzoni ci dice l’infelicità è contemplata, ma non è mai considerata così devastante da condurre a gesti drammatici o a depressioni che non possano essere superate: la malinconia, il sogno, la speranza, l’eternità dell’amore sono tutti aspetti a che aiutano a sostenere una fase difficile della vita di una persona o di una coppia. Le canzoni di corteggiamento, invece, sono cantate spesso da uomini e sono più ripetitive e convenzionali rispetto a quelle dalle donne che hanno una marcia in più, nel senso che il desiderio fisico è più visibile ma contenuto. Tutto culmina così nel matrimonio, mezzo per la donna di disciplinare la sensualità; e dunque, le pop songs vengono cantate proprio per scacciare via turbamenti ed emozioni. 4. Hard country La musica country si è imposta sin dagli anni Trenta a un pubblico specifico: ascoltatori di classe medio-bassa, originari delle aree centro-sud-orientali degli States. All’interno del genere già a quell’epoca potevano essere distinti due differenti filoni narrativi, uno più drammatico e l’altro più vicino al mondo delle pop songs. Nel secondo dopoguerra la divaricazione tra queste due sensibilità di approfondisce ulteriormente. Da un lato, infatti, prosperano cantanti che propongono canzoni i cui testi affrontano i temi classici del pop (storie d’amore, temi di Natale, personaggi buffi…); dal altro, il lato soft della musica viene tuttavia rovesciato dal musicista Hank Williams, che propone un panorama testuale più aspro, quasi tutto proiettato verso la descrizione di antieroi senza speranza adolescenze a dir poco disastrate, continuando questa esperienza anche da adulti. Qualche beat vive alle spalle dei genitori o della fidanzata, altri accettano lavori temporanei o vendono marijuana. Sono perfettamente al corrente delle questioni politiche attuali, ma sono consapevolmente «antipolitici»; e questo loro atteggiamento spiega perché la comunità non cerchi alcun leader. Le varie forme di sessualità sono tutte accettate dai beat (interrazziali e bisessuali soprattutto) me l’uso di droghe è un tratto identitario della comunità. Tuttavia, fino ai primi anni Cinquanta, questi giovani aspiranti intellettuali non hanno alcuna visibilità esterna che non sia legata alle cronache giudiziarie. Eppure, già dagli anni Quaranta, essi vengono identificati pubblicamente come “beat”, il cui termine ha due accezioni: quella originaria di “prostrato” o “distrutto” e quella meno ovvia che trasforma questo stato di prostrazione in una condizione di grazia, o meglio di beatitudine. Sarà poi nel 1952 un articolo di John Clellon Holmes per il “Times” - This Is the Beat Generation - a indicare non tanto un circolo letterario, ma un’intera generazione di giovani ribelli e marginali. Tutto prende avvio nel 1955 quando a San Francisco, alla Six Gallery, Ginsberg legge la prima parte di “Howl”. La performance pubblica ha una risonanza inizialmente solo locale, ma la dimensione performativa (la fisicità, la corporeità, l’oralità) consente a Ginsberg di pubblicarlo integralmente l’anno successivo. Il poema non è certo semplice, né per la struttura del verso – libero – né per i temi che vi sono affrontati. Nella prima parte, la descrizione di una generazione “contro”, si accompagna a una esplicita celebrazione della pazzia, di una sessualità priva di limiti e dalle bellezza delle visioni derivanti dall’uso della droga. Fin allora – come abbiamo visto – il tema della sessualità era stato rimosso dalla cultura mainstream, in particolare nella sua declinazione omosessuale; e se è vero che nelle grandi città americane esiste una subcultura gay o lesbica, organizzata in bar e associazioni, è anche vero che fino ad ora questa cultura ha vissuto sostanzialmente nell’invisibilità quasi assoluta. Il successo di Howl si incrocia con la pubblicazione di Sulla strada di Kerouac nel 1957, il cui tema principale sono una serie di viaggi in automobile attraverso gli Stati Uniti (in parte con il suo amico Neal Cassady e in parte in autostop), giocato in contrapposizione all’idea di entrare nell’ingranaggio distruttivo della società americana post-bellica. Il libro ha subito un grande successo ma, in ogni caso, l’apprezzamento per la produzione beat ha solo poche recensioni. Le critiche letterarie negative si fanno rapidamente più numerose e uno dei protagonisti è l’intellettuale Norman Podhoretz il quale, tra il 1957 e il 1958, pubblica una serie di articoli in cui sostiene che mentre la bohème intellettuale degli anni Venti e Trenta – la Lost Generation – ripudiava il provincialismo e l’ipocrisia della società americana a favore di una visione colta del processo di civilizzazione, la bohème dei beat è «ostile alla civilizzazione, venera […] il sangue». Per di più l’attacco si amplifica notevolmente, fino al limite della caricatura: il sesso viene vissuto con ansia da performance, l’ammirazione per gli afroamericani è priva di sostanza, il lessico è desolante e le frasi sono costruite con una serie di aggettivi ripetitivi. E alla fine anche lui riconduce la costellazione beat nello stesso spazio nel quale viene ricondotta la costellazione rock, ovvero quella della criminalità giovanile. Non meno duro è Herb Caen, il quale in un articolo ribattezza il gruppo col nomignolo di «beatnik» - una parola che fonda insieme beat e Sputnik, il primo satellite lanciato dai sovietici nello spazio nell’ottobre 1957 – suggerendo non solo che i beat siano nemici della civilizzazione ma anche nemici della civiltà americana, e forse in qualche modo da associare direttamente alla minaccia sovietica. Tuttavia, il tentativo di “integrare” i beat dentro l’orizzonte della cultura mainstream, che invece aveva dato buoni frutti nel caso dei rocker o dei surfer, riesce solo a metà: l’esaltazione della libera sessualità, dell’abbandono di sé nell’alcol o nella droga, del buddismo zen come via per l’illuminazione, sono tutti temi che non riusciranno a trovare alcuna integrazione dentro il quadro narrativo ed etico della cultura di massa mainstream. IX – I WANT TO HOLD YOUR HAND 1. Gioventù ribelle + 2. We Shall Overcome + 3. Il primo Bob Dylan Dalla fine degli anni Cinquanta, a Manhattan, una delle novità del momento è rappresentata dal folk revival, che in realtà già da qualche anno sta prendendo vigore in molte altre aree degli Stases, in diretto collegamento con la rinascita di movimenti politici di protesta, il più importante dei quali è certamente il Movimento per i diritti civili, la cui prima manifestazione di risonanza nazionale ha luogo tra il dicembre 1955 e il dicembre 1956 in Alabama dove la comunità afroamericana locale organizza un boicottaggio dei trasporti pubblici a seguito dell’arresto di Rosa Parks. Da allora il Movimento contro la segregazione razziale, guidato da Martin Luther King, prende vigore e il maggior successo simbolico del Movimento viene celebrato il 28 agosto 1963 quando a Washington 250.000 persone sfilano per la città fino al Lincoln Memorial, dove Martin Luther King tiene un emozionante discorso, in cui dice di sognare che i bianchi e i neri possano vivere in pace. Un sogno che, con molta cautela, anche Kennedy condivide e che porta il Congresso, nel giro di due anni, ad approvare una serie di norme che cancellano ogni base legale per la discriminazione razziale (sebbene la gran parte delle popolazione afroamericana resti irrimediabilmente povera, sotto istruita e socialmente emarginata). Questo successo è garantito non solo dall’attenzione che i media nazionali danno alle iniziative del Movimento, ma anche dalle originali iniziative di protesta nonviolenta messe in atto dai militanti afroamericani, come il sit-in organizzato il 1° febbraio 1960 da quattro studenti universitari neri a Greensboro che si siedono a una tavola calda in un punto riservato per i bianchi (essi verranno invitati ad uscire ma resteranno seduti fino alla chiusura del locale). Con queste iniziative di protesta i giovani afroamericani si conquistano uno spazio tale da convincere alcuni dirigenti del Movimento che è arrivato il momento di costituire un’organizzazione che li raccolga e li coordini: e così tra il 15 e il 17 aprile 1960 nella Carolina del Nord nasce il SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee). La risonanza mediatica dell’iniziativa, tuttavia, induce alcuni ragazzi dell’Università di Ann Arbor (Michigan) a far rinascere su basi nuove una preesistente organizzazione giovanile: nasce così Students for a Democratic Society (SDS), il cui nucleo fondatore è composto dai c.d. “red diaper babies” ossia ragazzi e ragazze che vengono da famiglie in cui i genitori coltivano ideali radicali, e che a volte sono anche degli ex comunisti che, pur non manifestando apertamente le loro convinzioni, hanno mantenuto fede ai loro ideali ma che – nel caso specifico – si tratta di un modo specifico di affrontare il disagio percepito nelle high schools di fronte alla spinta del conformismo che viene dalle istituzioni scolastiche. Nel giugno 1962 a Port Huron, a nord di Detroit, i militanti si riuniscono per definire meglio il loro programma e, in quella circostanza, viene redatto il Port Huron Statement il cui manifesto rilevava quelli che riteneva i maggiori problemi della società americana, delineando una visione radicale del futuro per il miglioramento della stessa, suggerendo il controllo delle armi, la riforma del partito Democratico con una partecipazione di candidati neri, il perseguimento della pace e dei diritti civili. In ciascuna di queste iniziative, la musica svolge un ruolo essenziale. Da un lato troviamo i gospel (la musica religiosa, i cui testi descrivono la speranza di raggiungere un mondo migliore) mentre dall’altro al canzoniere del Movimento per i diritti civili dà un contributo cruciale anche la Highlander Folk School dove lavora Guy Carawan, il quale attraverso la sua attività didattica alla HFS trasmette al Movimento una parte della canzone folk di protesta che ha avuto una sua significativa fioritura tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale. In particolare, proprio attraverso il lavoro di Carawan, il Movimento si impossessa di una canzone che finisce per diventare il suo inno ufficioso: We Shall Overcome, canzone scritta nel 1900 come inno religioso per poi essere impiegata in occasione di scioperi e manifestazioni. Nel gennaio 1961, dal Minnesota, Bob Dylan arriva a New York col progetto di inserirsi nel circuito locale della musica falk. Il percorso che lo conduce a questo genere musicale è quello stesso sperimentato da molti altri ragazzi e ragazze statunitensi, che dalla high school di provincia se ne vanno in qualcuna delle grandi università americane. Da ragazzino, egli si appassiona alle musiche di Hank Williams e diventa un seguace di Elvis Presley ma si stanca presto, per orientarsi verso Little Richard e soprattutto verso Woody Guthrie, che per lui diventa un’ossessione, tanto da andarlo a trovare in ospedale. Decide poi di intraprendere la carriera da musicista e si trasferisce a New York, dove inizia a crearsi una fama da artista folk, venendo scritturato per la majors discografica CBS. Se il primo album (Bob Dylan, marzo 1962) non riscuote alcun successo – nonostante i temi affrontanti (il viaggio, la morte, la marginalità sociale), lo stile e il modo di cantare possiedano un’evidente cifra distintiva che lo allontana dalla cultura mainstream e in parte anche al folk militante – il discorso cambia con i due album successivi (The Freewheelin’ Bob Dylan – maggio 1963 - The Times They Are a-Changin’ – gennaio 1964) con canzoni musicalmente molto semplici, suonate con la chitarra acustica e l’armonica, e cantate con un timbro vocale molto particolare, graffiante e nasale. Rispetto al repertorio del primo disco, adesso i suoi testi parlano di argomenti vari: antimilitarismo, denuncia al razzismo, bozzetti sentimentali, invitando gli ascoltatori a pensare con la propria testa e a cercare da soli, nel vento, le risposte agli interrogativi più angosciosi. Dylan sembra così candidarsi al ruolo di autentico portavoce dei movimenti di protesta che stanno cominciando ad attraversare la società americana. Tuttavia, nonostante il sostegno pubblico al Movimento, la politicità dei testi di Dylan non si tradurrà nella militanza diretta a favore di un preciso programma partitico. Tanto che nell’agosto 1964 il rifiuto a essere in qualche modo portavoce delle nuove generazioni si concretizza nell’album Another Side of Bob Dylan, composto prevalentemente da storie d’amore e – soprattutto – con My Back Pages, canzone-manifesto nella quale Dylan è molto severo con se stesso, e dichiara apertamente di aver sbagliato ad assumere pose da profeta politico. Una parte del pubblico che fin allora l’ha apprezzato non reagisce positivamente e questo cambio di direzione e fra tutti gli album di Dylan sarà quello che venderà di meno. 4. Dall’altra parte dell’Atlantico + 5. I Beatles Finora l’Europa non ha avuto alcuno spazio in questa storia poiché il contributo di stampa, radio, tv, cinema e popular music europei alla cultura di massa è stato, fino ai primi anni Sessanta, ridotto, subendo l’impatto delle varie forme che l’intrattenimento culturale ha assunto negli USA. Ciò cambiò in Gran Bretagna che assorbì le produzioni statunitensi e in parte ne riprodusse i modelli. È così che, oltre a essere ripreso il jazz, il R&B e il rock, comincia a farsi strada anche il blues grazie alla mediazione dello skiffle, uno stile musicale diffuso quasi solo nel Regno Unito, basato su una fusione di jazz, folk e blues, e suonato di solito con un’originale strumentazione improvvisata, che consente tra il 1954 e il 1958 di diffondere l’universo narrativo blues nell’immaginario popular britannico. Infatti, forse persino di più che negli USA, anche qui il pubblico giovanile è frammentato in una serie multiforme di comunità, diverse per stili e consumi culturali. La prima subcultura giovanile britannica che attrae l’attenzione dell’opinione pubblica è quella dei teddy boy, nati nei primi anni Cinquanta, ossia ragazzi che provengono prevalentemente dagli ambienti più disagiati delle classi operaie britanniche, tagliati fuori dalla prima ondata di sviluppo economico perché privi di una buona educazione scolastica, e tuttavia desiderosi di uscire a tutti i costi dal ghetto sociale nel quale si trovano rinchiusi. Per farlo, adottano stili di abbigliamento che sono derivati dalla cultura di massa statunitense (ad es. copiano l’esempio degli zoot suiters, per quanto riguarda l’adozione di vestiti eccentrici). Dalla fine degli anni Cinquanta la subcultura dei ted viene affiancata e assorbita da quella dei mod (“modernists”), che nasce a Londra e in altre città dell’Inghilterra meridionale, la cui cifra stilistica è rappresentata da tagli dell’alta moda italiana e cercando di rendere più complessa la struttura delle loro canzoni, adottando due soluzioni: mantenere una struttura compositiva semplice ma rendere complesso l’arrangiamento oppure unire un arrangiamento sofisticato a una struttura compositiva più articolata. 4. Sulla West Coast Anche sulla West Coast, da San Francisco a Los Angeles, i giovani musicisti in contatto con le locali comunità beat, che inizialmente avevano seguito il modello del folk revival e il primo Dylan, restano colpiti dalle nuove soluzioni stilistiche introdotte dai loro colleghi britannici e, come Dylan, cominciano a cambiare direzione, suonando blues, intrecciando strumenti elettrici e cercando nuove combinazioni musicali. Molti di questi gruppi abbracciano l’etica della sperimentazione come un modo per affermare la propria “autenticità”, il proprio distacco dal pop più commerciale. Nondimeno, gli esperimenti tentati da questi musicisti rischierebbero di cadere nel vuoto se – prima ancora che un’etichetta discografica sia disposta a pubblicare le loro musiche – non trovassero un ambiente locale pronto ad accoglierli e sostenerli. Si forma così una nuova comunità, prevalentemente giovani di classe media, che cercano di fuggire dalla routine delle high schools o dal college, aderendo a uno stile di vita che rielabora molti aspetti dei beat, in primo luogo l’adesione a un ideale di povertà che è la conseguenza di un radicato rifiuto del lavoro. Così dalla preesistente costellazione beat questi membri vengono identificati come hippie (deformazione di hip e hipster, termini chiave del lessico beat). Anche questa nuova comunità si trova al margine della società, con abbigliamenti stravaganti e stili di vita diversi (capelli lunghi per i ragazzi e pantaloni per le ragazze), aperti ad ogni orientamento sessuale e fortemente antibellicisti (conservando un atteggiamento agnostico per quanto riguarda gli orientamenti politico-partitici) , professando religioni orientali e utilizzando sostanze allucinogene, che non vengono utilizzate per isolarsi individualmente ma per raggiungere vincoli comunitari. Parte della concezione comunitaria che anima l’esperienza hippie si esprime nell’organizzazione di happening multimediali, che rivestono una grande importanza nel modellare la nuova sociabilità giovanile. Non meno importanti dei concerti nei locali – dove, a dirla tutta, l’attenzione per la musica non è altissima in quanto la gran parte dei musicisti e degli spettatori sono “fatti” di qualche sostanza e così è più attraente andare a ballare – sono gli happening all’aperto, tra cui i più importanti saranno lo Human Be-In (gennaio 1967) o quello di Woodstock (agosto 1969), uno dei più importanti concerti rock che riunì circa 500.000 persone. L’insieme delle iniziative che hanno luogo a San Francisco attirò l’attenzione della stampa, che trasformò il fenomeno hippie in un argomento di rilevanza nazionale; tuttavia, l’originaria comunità hippie alla fine dell’estate si disperse, lasciando dietro di sé un quartiere degradato, abitato da delinquenti e spacciatori, dove furti, stupri e droghe pesanti sono all’ordine del giorno. 5. Straniamento rituale + 6. Hey Joe! Il principale luogo che dà omogeneità alla cultura rock è lo spazio del concerto, e in particolare lo spazio del concerto di massa, del grande festival, che allinea una varietà di musicisti di diversa estrazione. Sperimentato nel contesto hippie della California per poi estendersi anche in Europa, l’attenzione ricade tra due iniziative che si tengono a pochi mesi di stanza l’una dall’altra: il Festival di Woodstock e l’Altamont Free Festival (dicembre 1969). Il primo viene considerato come il luminoso apogeo della cultura hippie-rock, nonostante qualche intoppo nell’organizzazione; il secondo è invece un concerto gratuito organizzato dai Rolling Stone (per rispondere alle critiche che hanno ricevuto nei mesi precedenti per il costo eccessivo dei biglietti del loro tour americano), che però si rivelò un vero e proprio disastro, con scontri di ogni genere. Se abbandoniamo il palco dei concerti, e passiamo tra la folla degli spettatori, occorre osservare che alla fine degli anni Sessanta si delineano due diverse modalità di comportamento. Da un lato c’è il modello che si è imposto con il rock, che vede gli spettatori partecipare attivamente all’evento, gridando, danzando e assumendo amfetamine o alcol; dall’ altro lato col diffondersi dell’etica hippie e delle droghe “psichedeliche” – LSD, marijuana o hashish – gli spettatori assistono al concerto con attenzione, in cerca di visioni o di illuminazioni che li portino in un’altra dimensione spirituale. Il concerto è quindi un rito. Un rito di separazione, perché attraverso l’esperienza del concerto ci si libera simbolicamente dell’appartenenza al “sistema”; un rito di ricollocazione del sé in uno spazio liminale, che non è quello abituale, perché per il concerto si adottano un abbigliamento, un’acconciatura e una gestualità che sono specifici di gruppi pensati come estranei rispetto al “sistema”, e proprio per questo sentiti come ricchi di valori; un rito di aggregazione, perché attraverso il concerto si entra a far parte di un corpo sociale nuovo. Naturalmente per un rito ci vuole un officiante: e tale è il frontman, normalmente il cantante o il chitarrista, e che avrà in Jim Morrison dei Doors uno dei più scatenati di essi. Le sovrapposizione tra generi emerge con assoluta chiarezza in alcuni particolari brani come Hey Joe di Jimi Hendrix, un brano eseguito più volte in occasione dei grandi raduni rock, dove non ci sono valori positivi né alcun riferimento al contesto contemporaneo, ma “solo” un femminicidio, in un momento di tensione dovuto al movimento dei diritti civili. È assai probabile che Billy Roberts, il quale nel 1962 ne deposita il copyright senza tuttavia inciderlo sul disco, trasse spunti per il brano da almeno tre pezzi precedenti: il primo è una ballad tradizionale degli inizi del Novecento intitolata Little Sadie che racconta di un uomo in fuga dopo aver ucciso la sua donna, esattamente come in Hey Joe; il secondo è un brano country di Carl Smith risalente al 1953 ed intitolato appunto Hey Joe (che presenta un testo articolato anch’esso secondo la struttura a domanda e risposta che caratterizza la versione odierna); il terzo è Baby, Please Don’t Go To Town di Niela Miller risalente al 1955. Il cantautore folk newyorkese Tim Rose (il quale registrò una propria versione nel 1966) complicò ulteriormente le cose quando affermò che la canzone fosse in realtà un tradizionale brano blues che aveva sentito suonare sin dall'infanzia, sebbene non siano mai pervenute fonti o registrazioni di una versione precedente. La versione di Hendrix trova spunto proprio nella versione di Rose che Hendrix aveva conosciuto al Cafe Wha? di New York, locale nel quale lo stesso Hendrix ebbe modo di suonare più volte e dove Rose si esibiva. Mentre nella versione di Rose il brano presenta una coloritura country, dall’esecuzione di Hendrix viene fuori un blues che conserva il tono colloquiale e l’abitudine di aggiungere frasi ponte fra una strofa e l’altra, o persino tra un verso e l’altro, per dare maggiore pathos ai diversi momenti narrativi. Tuttavia la canzone non è propriamente un blues. In un blues, Joe parlerebbe in prima persona, e non in forma indiretta, o attraverso l’espediente del dialogo, giacché il blues è sempre un effusione narrativa soggettiva e mai una narrazione esterna di vicende che accadono ad altri (ciò che appartiene invece all’hard country). XI – SUONI E PAROLE DEL ROCK 1. Nuovi suoni Ciò che colpisce nei migliori musicisti rock è l’audacia creativa che si traduce nell’incessante esplorazione di nuovi universi sonori: per comunità creative che apprezzano questi stili è fondamentale che il singolo musicista non sia un falso, ma sia una persona che, provenendo dalla comunità che apprezza quel tipo di musica, è “autentica”. Se ciò che è tipico della musica pop è ripetere strutture sonore e testuali sempre uguali a sé stesse, i musicisti rock vogliono fare qualcosa di molto diverso, sperimentando forme nuove che certifichi la loro superiorità etica nei confronti dei musicisti che cantano e suonano, animati solo dal desiderio di fare soldi. Nello spazio delle sperimentazioni musicali, due sono i principali percorsi innovativi: da un lato ci sono musicisti che modificano progressivamente le strutture e le sonorità blues per costruire un ambiente sonoro drammatico; dall’altro ci sono musicisti che radicalizzano la sintassi del rock individuando vari modelli musicali. Band come i Led Zeppelin, Black Sabbath o i Cream sanno ampliare le strutture del blues (o cercano di allontanarsi), cantando canzoni in maniera melodrammatica mentre le performance sono caratterizzate da un uso nuovo e peculiare della chitarra elettrica, con l’uso intenso della distorsione e dell’assolo chitarristico (è il genere dell’hard rock). Oltre a queste band c'è un grande musicista che emerge nel 1966 in California, Frank Zappa, il quale si scagliò contro quelli che giudicava gli effetti nefasti del consumismo e della cultura di massa: per questo nelle sue canzoni egli giustappone o sovrappone vari generi, con l’obiettivo di scuotere costantemente l’ascoltare, reclamando la sua attenzione. La curiosità nei confronti dei generi musicali più diversi appartengono anche a un sottogenere rock che prendere forma dal 1969, soprattutto in Europa, e cioè il “progressive rock” (prog), i cui gruppi che eseguono questo tipo di musica condividono il disprezzo per la commercializzazione dell’arte e “dialogano” con la musica classica ottocentesca, il jazz, il folk e l’hard rock. Sono brani innovativi, dalla lunghezza non indifferente che costringono gli ascoltatori a un atteggiamento più concentrato e riflessivo. 2. Narrazioni rock La struttura antisovversiva di queste band è presente anche nelle copertine degli album e delle canzoni (es. l’album Black and Blue degli Stones presenta l’immagine di una modella complice di un rapporto sadomaso consenziente). Anzi nelle loro canzoni non ci sono maschi alfa dominatori: nelle storie cantate si trovano dei poveracci affettivamente instabili, incapaci di trovare un punto di equilibrio. Allo stesso modo, la matrice blues-hard country funziona anche dalla prospettiva femminile: ad es. nei loro album i Jefferson Airplane da un lato non raffigurano alcun lieto fine possibile per la donna (anzi lei è sottoposta a una crudeltà psicologica e fisica imposta dall’avidità sessuale e affettiva del mondo maschile), ma dall’altro la donna – nonostante sia devastata psicologicamente e fisicamente – è capace, spavaldamente, di prendere l’amore là dove lo trova. La natura provocatoria e trasgressiva di queste canzoni è resa possibile anche dallo statuto di parlabilità che il rock riconosce a esperienze fin allora considerate “oscene”, come il desiderio sessuale e – soprattutto – quello estremo. L’ambiguità sessuale viene resa degna di nota da artisti come David Bowie (che si presenta sul palco con un abbigliamento, un’acconciatura e un trucco femminili) e Suzi Quatro (giovane vocalist, che si veste in maniera provocante e maschile). La nuova libertà dell’avvicinarsi ai corpi è espressa dall’album “Unfinished Music n°1:Two Virgins” di John Lennon e Yoko Ono che ritrae i due cantanti totalmente nudi. Il rock, dunque, con le sue produzioni artistiche e con le pratiche sociali che lo accompagnano, apre prospettive inedite per quanto riguarda le dimensioni private dell’amore, del sesso, dell’identità di genere. Ma questo stile musicale non è certo chiuso nella dimensione del privato, giacché è capace anche di affrontare questioni che riguardano la sfera pubblica contemporanea. 3. Rock e movimenti Solo raramente si incontrano storie e musiche che sollecitano una visione ottimistica del presente o una fiduciosa aspettativa negli sviluppi futuri. La preoccupazione per la guerra, o l’auspicio di una pace universale, conducono a visioni che nella migliore delle ipotesi sono illuminate solo da una tenue speranza, come in Imagine di John Lennon. Peraltro non tutti gli artisti rock hanno una posizione chiara di fronte alla questione della guerra o, in generale, di fronte a temi di natura politica. Jimi Hendrix costituisce uno dei casi più evidenti di distorsione interpretativa. Da un lato, in qualche occasione, sembra aderire agli ideali pacifisti che attraversano gran parte delle scene giovanili coeve, facendo sì che alcuni suoi brani fossero una reale testimonianza della sua critica alla società statunitense e al bellicismo che la pervade. Dal 1965 in avanti la protesta giovanile 3. Pop art Una proposta artistica che riesce a imporsi nella cultura di massa è il pop art. Nata in Inghilterra, essa si propone come una reazione al modernismo anti-figurativo, animata da artisti come Jackson Pollock o Mark Rothko i quali – a detta di alcuni critici – suggeriscono un’arte che non vuole accettare gli orrori del mondo contemporaneo e per questo rifuggono da ogni rappresentazione realistica, rifugiandosi in un mondo visivo a parte. Tuttavia a metà anni Cinquanta alcuni collezionisti di grande influenza cominciano ad acquistare i quadri di questi artisti, incoraggiando anche a una radicale revisione del discorso critico, giacché Pollock e gli altri (nel contesto della guerra fredda) cominciano a essere presentati come la testimonianza più evidente della straordinaria libertà che vige negli USA, a differenza di ciò che accade nei paesi comunisti. Così da una lato la proposta artistica pop nasce proprio come reazione al dominio anti-figurativo dell’”espressionismo astratto”; dall’altro nasce anche da una sorta di attrazione/repulsione nei confronti della cultura di massa, dei suoi oggetti, dei suoi divi, delle sue forme espressive. Da qui il senso di “pop” art, nel senso di arte “popular”, arte che non ha paura di prendere come punto di riferimento fondamentale la più banale quotidianità delle masse, delle loro scelte di consumo, delle loro preferenze culturali. In definitiva, qual è quindi il rapporto tra pop arto con l’universo della controcultura rock? È tutto nell’atteggiamento: entrambi cercano di porre sotto gli occhi dello spettatore un materiale scioccante, lasciandogli libero spazio di pensiero. 4. Radio, news e intrattenimento TV + 5. Un sistema alternativo Il successo della Tv negli anni Cinquanta ha costretto a mutare la natura della programmazione radiofonica, sempre più orientata verso i programmi musicali. Nel Regno Unito la produzione radiofonica della BBC è comunque messa in questione da emittenti radiofoniche particolari – come American Forces Network o Radio Luxembourg – che sin dagli anni Cinquanta fanno circolare anche nell’etere britannico le musiche americane di maggior successo; più tardi alcune “radio- pirata”, che trasmettono da navi ancorate in acque internazionali al largo delle coste inglesi, trasmettono musica pop e rock, inducendo alla fine la stessa BBC a introdurre nella sua programmazione anche trasmissioni più o meno simili a quelle lanciate dalla radio-pirata. Anche le Tv, sia in UK che negli USA, ospitano programmi di musica “per giovani”, all’interno di palinsesti per l’intrattenimento. Coerentemente, dal punto di vista dei servizi di informazione, molte emittenti statunitensi hanno un orientamento filogovernativo (tuttavia un importante eccezione è rappresentata dal programma See It Now, condotto da Ed Murrow, il quale presentò servizi rigorosamente documentati che ebbero un ruolo determinante nel danneggiare seriamente la carriera politica del senatore McCarthy). In quello stesso periodo sia ABC che NBC trasmettono sulle loro emittenti dei documentari sulla condizione degli afroamericani nel Sud degli States e su aspetti diversi della lotta condotta dai militanti del Movimento per i diritti civili, facendo sì che per la prima volta molti cittadini statunitensi degli Stati settentrionali o occidentali si rendessero conto della vera natura della segregazione razziale del profondo Sud del paese. Non meno importante è il ruolo che una parte delle trasmissioni Tv e delle testate giornalistiche svolgono nel caso della guerra in Vietnam, in qualche modo determinanti ad allontanare l’opinione pubblica a continuare la guerra. Al di là di questi aspetti, va osservato che il pubblico televisivo è mediamente piuttosto anziano. Se ne rende chiaramente conto Bob Wood, dal 1969 responsabile dei programmi di intrattenimento alla CBS. La strategia che mette in atto, dunque, è quella di dividere virtualmente la massa del pubblico in gruppi di età, associando ogni gruppo di età alla fascia oraria in cui è più probabile che sieda davanti alla Tv, identificando il punto più adatto del palinsesto nel quale piazzare trasmissioni innovative. Nascono così alcuni programmi che accolgono sistemi narrativi ed etici della costellazione controculturale: compaiono gli afroamericani, si affronta il tema dell’aborto e della sessualità; si allude, sebben in forma un po' obliqua, ai disastri della guerra. Dunque, l’insieme di queste produzioni disegna una cultura alternativa che, coinvolgendo una varietà di spazi e di media, trasforma la connotazione giovanile che è propria del rock in una più complessiva proposta transgenerazionale, che coinvolge persone che appartengono anche ad un pubblico più adulto. C’è da dire che, in primo luogo, gran parte dei film più significativi della Hollywood Renaissance derivano da un romanzo o da un copione teatrale e, in secondo luogo, si passa da un concept album pubblicato originariamente come LP in vinile alla trasposizione cinematografica o teatrale della storia che vi è narrata (es. con Jesus Christ Superstar). CONCLUSIONI – BACK TO THE FUTURE Della costellazione controculturale che si forma nel corso degli anni Sessanta si possono avere opinioni molto varie. Vi è chi l’ha considerata come la causa possibile di una minacciosa decadenza morale e culturale dell’Occidente e chi, invece, l’ha vista sotto una luce diversa e positiva. Ma a partire dagli anni Ottanta, un ruolo importante lo detengono le corporations le cui dimensioni diventano assolutamente spropositate. Queste nuove formazioni possiedono simultaneamente case di produzione cinematografica, emittenti tv di vario tipo, giornali e radio (es. Microsoft, Momcast- Corporation, Time Warner…), disponendo di un’ampia rete di protezione che le ha sorrette e che ha consentito loro di lanciarsi verso film che chiedono finanziamenti ingenti. Ciò che non si deve perdere di vista è che la strategia delle megacorps rilancia modalità di intrattenimento che ripropongono in blocco le strutture narrative della cultura di massa mainstream sin dagli anni Trenta, tornando a format e narrazioni classiche e allontanandosi così dalle timide aperture a temi nuovi che avevano caratterizzato l’inizio degli anni Settanta. Dentro la struttura delle megacorps, anche i sistemi informativi della stampa e della TV cambiano caratteristiche: da un lato subiscono pesantemente il riallineamento dei media, dall’altro i media controllati dalle megacorps tendono a modellare le notizie sulla base degli interessi economici e politici dei gruppi di direzione. Inoltre, per quanto potenti siano le megacorps, le loro attività informative e di intrattenimento televisivo dipendono dalle inserzioni pubblicitarie. Naturalmente nel processo di concentrazione sono coinvolte anche le case discografiche che puntano investimenti produttivi e promozionali in direzione della musica pop. Quindi nel campo del cinema, della Tv o della pop music, le megacorps non si limitano a restaurare, ma adottano un’intelligente strategia di restyling: da un lato, all’interno delle storie televisive, sono incorporate figure che erano escluse come inaccettabili (omosessuali, afroamericani…), dall’altro l’invasivo ritorno dei supereroi presenta personaggi che pongono l’accento su un tratto originario di queste figure, ovvero il loro essere personalità complesse, per un certo verso sofferenti. Nonostante ciò, l’impianto strutturale delle storie narrate non cambia. Nella maggior parte dei casi le opere della controcultura di massa non pensano per il pubblico, non hanno rigide coordinate ideologiche e invitano il pubblico a riflette con la propria testa. Un gesto che sembra lontanissimo dall’invito a entrare in Wonderland, il paese incantato del divertimento e della rassicurazione, edificato sin dagli anni Trenta dalla cultura di massa mainstream.
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